I dieci grandi di Hollywood che non hanno mai vinto l’Oscar (prima parte)

In attesa del 28 febbraio, notte degli Oscar 2016, ripercorriamo una delle pagine meno gloriose della storia del premio. Quella di dieci straordinari attori, attrici e registi che, incredibilmente, non hanno ricevuto la statuetta. Una lista imbarazzante, piena di stelle di prima grandezza.

Dieci artisti non hanno vinto premio Oscar

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Come diceva Billy Wilder, “Nessuno è perfetto!”. Quindi nemmeno l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che dal 1929 assegna i premi Oscar ai migliori film in lingua inglese della stagione. Che non sia perfetta lo dimostra proprio il fatto che A qualcuno piace caldo, il capolavoro da cui è tratta l’immortale battuta, non abbia vinto l’ambita statuetta.

Ma è in buona compagnia: la storia degli Oscar è costellata di errori imbarazzanti, sottovalutazioni imperdonabili, omissioni colpevoli, vere e proprie censure verso artisti indigesti all’establishment hollywoodiano. Il ricchissimo sito dell’Academy celebra la storia del premio, ma passa sotto silenzio tutti quelli che oggi si definirebbero epic fail.

Una domanda sorge spontanea: chi sono i dieci artisti più importanti che non hanno mai vinto un Oscar? Noi abbiamo scelto questi: una lista di stelle di prima grandezza da lasciare sbalorditi. A voler essere pignoli, alcuni di loro una statuetta l’hanno vinta. Ma in categorie secondarie, assolutamente non rappresentative del talento dei più grandi attori, attrici e registi della storia di Hollywood. Per non parlare di quando l’Academy, per porre rimedio alle inspiegabili ingiustizie, ha assegnato degli ipocriti Oscar alla carriera. Rimedi, non c’è che dire, peggiori del male. Ecco i magnifici dieci. Anzi, i magnifici cinque: gli altri sono rimandati alla prossima puntata!

1. Charlie Chaplin

In realtà di premi Oscar ne ha vinti ben tre. Il primo nel 1929, “per la versatilità e il genio con cui ha interpretato, scritto, diretto e prodotto Il circo”, quindi un riconoscimento speciale, assolutamente irrituale. Poi nel 1972 fu la volta di un Oscar alla carriera, condito da quello che, si dice, sia stato il più lungo applauso della storia del premio, cronometrato in 12 minuti. Infine un Oscar per le musiche di Luci della ribalta, da lui composte, assegnatogli nel 1973 per un film del 1952 che, dopo un lunghissimo boicottaggio, uscì nelle sale americane con praticamente vent’anni di ritardo.

Nel mezzo c’era stata la difficile vicenda che aveva caratterizzato i rapporti tra Chaplin e gli Stati Uniti, coincisa con la “caccia alle streghe” della Commissione per le attività antiamericane, manovrata dal senatore repubblicano Joseph McCarthy, che stilò la famigerata “lista nera” dei comunisti di Hollywood. Chaplin fu perenne bersaglio della Commissione, da quando nel 1947 si era fatto promotore di una petizione per impedire l’espulsione dal paese di Hanns Eisler, autore di colonne sonore e collaboratore di Brecht, che presso gli anticomunisti americani si era guadagnato la fama di “Karl Marx del campo musicale”.

Dal 1949 cominciò a circolare la voce che Chaplin sarebbe stato convocato dalla Commissione: allora l’attore scrisse una lettera in cui ribadiva di non essere comunista ma semplicemente pacifista. Non ci fu mai una condanna esplicita: ma nel 1952, mentre era in viaggio sulla Queen Elizabeth verso l’Europa Chaplin, il quale era sempre rimasto cittadino britannico, scoprì che gli era stato revocato il permesso di soggiorno negli Stati Uniti. Quindi scelse di restare in Europa e riempì il film successivo, l’amaro Un re a new York, di precisi riferimenti al maccartismo. È questa la vera ragione per la quale il più influente autore della storia del cinema non ha mai ricevuto un premio come regista o attore. Una macchia indelebile per l’Academy, alla quale la riconciliazione e i pelosi riconoscimenti degli anni Settanta non posero certamente riparo.

 

2. Marlene Dietrich

Gli inglesi la definiscono coolness: un misto di freddezza e tranquillità, tipica di chi è assolutamente a proprio agio in qualunque situazione, perché la sa lunga, sulla vita e sugli esseri umani. E nessuna attrice ha dato la sensazione di saperla più lunga di Marlene Dietrich, che grazie anche al suo mentore, il regista Josef von Sternberg, diede vita a un personaggio di donna fatale e consapevole che ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario cinematografico. Un carattere così forte e indipendente difficilmente poteva incontrare i favori dell’Academy: infatti ebbe una sola nomination, per Marocco, nel 1931, poi più nulla.

“Che cosa bisogna fare per vincere l’Oscar?”, le chiesero una volta. Allora poté togliersi il sassolino dalla scarpa: “Recitare personaggi biblici, preti, persone affette da disabilità tristi e tragiche, come cecità, sordità, mutismo o cose simili, alcolismo, follia, schizofrenia e altre malattie mentali che si sono già viste in film di successo. Più grave è la disabilità, maggiore è la probabilità di agguantare un Oscar. Le giurie dell’Academy sono dell’opinione che interpretare un personaggio disabile sia una grande impresa. Non è così. Dal momento che questi ruoli sono più drammatici, hanno un maggiore impatto sul pubblico. Tuttavia, considerato il fatto che gli Oscar vengono assegnati solo da (presunti) esperti, è incomprensibile come possano confondere l’attore col ruolo”.

L’attrice disse la sua anche sui vergognosi premi riparatori: “Da un po’ di tempo è stata aggiunta una nuova categoria agli Oscar, il “Premio sul letto di morte”. In ogni caso l’attore o l’attrice non è mai riuscito a vincere un vero Oscar. Lo scopo del premio è di tacitare la coscienza della giuria e di salvare la faccia davanti al pubblico. Con totale mancanza di gusto, l’Academy assegna questo premio a un divo completamente sopraffatto dalle proprie emozioni, in modo che tutti possano capire perché il riconoscimento sia stato conferito così frettolosamente. Fortunato l’attore o l’attrice che è troppo malato per vedere la cerimonia in tv! Coi miei occhi ho visto James Stewart in un’occasione del genere singhiozzare al microfono: ‘Tieni duro Coop, sto arrivando!’. In quel momento capii che Gary Cooper stava morendo. Che circo!”.

Date queste premesse, l’Oscar alla carriera, nel suo caso, non arrivò. E la freddezza dell’Academy nei confronti della diva penalizzò anche Marlene, l’affascinante film intervista che le dedicò Maximilian Schell nel 1984, dove però si sentiva solo la sua voce senza vederla mai. Il documentario fu candidato all’Oscar, ma la statuetta non arrivò.

 

3. Cary Grant

Nel 1999 l’American Film Institute stilò una classifica delle cinquanta più grandi star della storia del cinema statunitense. Cary Grant risultò secondo solo a Humphrey Bogart. Ma Bogey l’Oscar lo ha vinto, per La regina d’Africa: Grant invece no. Un’omissione sconcertante: verso un attore che è stato la quintessenza dello stardom hollywoodiano, un concentrato di fascino, talento ed eleganza che ha conquistato tre generazioni di spettatori, senza mai conoscere flessioni di popolarità, fino al ritiro dalle scene nel 1966.

Due sole le nomination: per Ho sognato un angelo, dolcissimo melodramma del 1941, battuto dal Gary Cooper de Il sergente York; e per Il ribelle del 1944, un ruolo insolitamente drammatico cui teneva moltissimo, e quella volta fu sconfitto da Bing Crosby, un attore, con tutto il rispetto, decisamente inferiore. In tutta la sua luminosa carriera non ottenne una sola nomination per le sue straordinarie commedie, come Incantesimo, Susanna e Scandalo a Philadelphia; o per gli impagabili comedy-thriller di Hitchcock, dove immetteva nella suspense il suo inconfondibile tocco brillante.

La storia non è nuova: gli Oscar hanno sempre privilegiato i film drammatici: perché vengono ritenuti più nobili ed educativi delle commedie; e anche perché nei ruoli tragici, più vistosi di quelli comici, è più facile mostrare le proprie qualità di attore. Una volta, parlando di Irene Dunne, una delle sue partner preferite, Grant dichiarò: “Avrebbe dovuto vincere l’Oscar, ma era talmente brava che faceva sembrare la commedia una cosa semplice. Se avesse fatto vedere quanto in realtà è difficile, l’avrebbe vinto”. È chiaro che stava parlando anche di se stesso. Anche nel suo caso il tardivo Oscar alla carriera, nel 1970.

 

4. Stanley Kubrick

A rigor di logica un premio Oscar lo ha vinto, per gli effetti speciali di 2001 Odissea nello spazio, che non andò nemmeno a ritirare. Ma sembra quasi uno scherzo. Kubrick ha collezionato un invidiabile record di nomination a vuoto: 4 per la regia (Dottor Stranamore, 2001, Arancia meccanica e Barry Lindon), 5 alla sceneggiatura e 3 al miglior film, in qualità di produttore.

A batterlo per la regia furono George Cukor per My fair lady, Carol Reed per Oliver!, William Friedkin con Il braccio violento della legge e Miloš Forman per Qualcuno volò sul nido del cuculo. Kubrick era un regista troppo indipendente per piacere davvero all’Academy e oltretutto dopo Lolita aveva deciso pure di vivere in un sospetto autoesilio in Inghilterra.

Il regista era considerato un genio, certo: ma questa semmai è un’aggravante a Hollywood, dove di solito i geni, da von Stroheim a Welles, sono considerati dei megalomani spendaccioni. Megalomane Kubrick forse lo era. Spendaccione, stando a quanto racconta lo sceneggiatore Michael Herr, no di certo: “Era terribile stipulare accordi d’affari con lui, terribile. La sua insistenza a tirare sul prezzo era proverbiale”.

Comunque era un artista troppo lontano dalla logica dei producers hollywoodiani per piacere davvero all’establishment. E poi non partecipare mai alla serata degli Oscar! Certi atteggiamenti non potevano passare inosservati e furono puntualmente puniti. Anche se, a onor del vero, non erano destinati solo all’Academy. Quando gli venne assegnato il Leone d’oro alla carriera, nel 1997, mandò una laconica lettera di ringraziamento in cui si rammaricava di non poter essere presente perché impegnato sul set di Eyes Wide Shut.

 

5. Spike Lee

Sembrava che questa volta l’Academy avesse trovato un modo per far pace con Spike Lee, con un Oscar alla carriera ricevuto nel novembre 2015 dalle mani di attori a lui carissimi, Denzel Washington e Wesley Snipes. Intendiamoci, è poco più di un tardivo risarcimento per un autore della sua grandezza, che in carriera aveva avuto solo due striminzite nomination, una nel 1990 per la sceneggiatura di Fa’ la cosa giusta, l’altra nel 1998 per il documentario Four little girls. Però era comunque un segnale, anche per tacitare polemiche che lo stesso regista aveva riacceso nel 2015 quando, commentando la mancata nomination a Selma, il film su Martin Luther King, aveva dichiarato: “Quando guardi all’Academy, tra Fa’ la cosa giusta e A spasso con Daisy credi che sceglieranno il film dove c’è un domestico nero piuttosto sottomesso o quello con il minaccioso Radio Raheem?”.

Non che nel discorso di ringraziamento per l’Oscar onorario Lee non abbia trovato il modo di inserire delle note critiche: “Dobbiamo aprire una seria discussione sulla diversità […] per un nero è più facile diventare presidente degli Stati Uniti che capo di uno Studio cinematografico”. Ma la tregua tra il regista e l’Academy sembrava cominciata. Purtroppo è durata pochissimo, esattamente fino al 14 gennaio, quando sono state comunicate le nomination per il 2016. Nelle quali, per il secondo anno consecutivo, non c’è una sola candidatura per un artista di colore nelle categorie maggiori. E allora Spike Lee è tornato alla carica, con una lettera aperta all’Academy, rilanciata su Instagram: “Com’è possibile che per il secondo anno consecutivo tutti gli attori candidati siano bianchi? […] Io e mia moglie, la signora Tonya Lewis Lee, non andremo alla cerimonia quest’anno. Non ci sentiamo proprio di sostenerla con la nostra presenza. E non è una coincidenza che io stia scrivendo queste parole nel giorno in cui celebriamo il compleanno di Martin Luther King”.

Una dura polemica immediatamente rilanciata sui social con l’hashtag #oscarssowhite, alla quale si è aggiunto persino il commento amareggiato di Cheryl Isaacs, la presidente nera dell’Academy: “Abbiamo apportato cambiamenti per diversificare la composizione dei membri […] purtroppo il cambiamento non è veloce come avremmo desiderato. Dobbiamo fare di più, meglio e più velocemente”.

Insomma, sotto vari aspetti, gli Stati Uniti assomigliano ancora tanto al paese conflittuale che Spike Lee ha descritto in film come Jungle fever, sull’impossibilità dei rapporti interrazziali, La 25ª ora, dolente riflessione sull’America impaurita post 11 settembre o Inside man, che sotto i panni di un thriller a orologeria delinea un ritratto allarmante d’una polveriera di conflitti razziali sempre sul punto di esplodere.

Ed è difficile non pensare che, alla fine, sia questa la ragione per cui l’Academy ha stentato a riconoscere il talento di Spike Lee. Un regista che ha sempre raccontato senza eufemismi un paese non da sogno ma da incubo, dove l’odio razziale è una realtà dilagante. La statuetta possono vincerla film come Dodici anni schiavo, che racconta il razzismo come una macchia stinta di un’epoca lontana. Premiandoli, gli Stati Uniti dimostrano la lungimirante magnanimità di nazione in grado di riconoscere i propri errori; e testimoniano che trattasi, appunto, di un passato largamente superato da un paese di democrazia realizzata. I racconti al presente del nero Spike Lee si conficcano invece come una spina dolorosa nella cattiva coscienza americana e per questo restano indigesti all’Academy, che dell’identità del paese costituisce un’efficace emanazione simbolica. Meglio non girare il coltello nella piaga e lasciare all’asciutto uno dei più grandi autori del cinema contemporaneo. Il quale non ha nessuna voglia di abdicare al suo spirito battagliero.

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