Turner: il racconto spiazzante di Mike Leigh del grande pittore inglese

Un profilo d’artista che non assomiglia a nessun altro. E l’interpretazione di Timothy Spall sfugge al mimetismo tipico dei film biografici. I momenti della vita di Turner sono accumulati senza comporre, volutamente, un ritratto a tutto tondo. Un film sorprendente e antiaccademico: ma troppo cerebrale.

Timothy Spall interpreta Turner nel film di Mike Leigh

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Sembra una pinacoteca Turner: le sequenze una accanto all’altra, come dei quadri, senza particolari preoccupazioni di coesione narrativa, come se ognuna bastasse a se stessa. È il fascino principale ma anche il limite dell’ultimo film di Mike Leigh, uno dei maestri riconosciuti del cinema britannico, non nuovo all’affresco storico, come Topsy Turvy.

Stavolta ha costruito un racconto incentrato sul pittore inglese ottocentesco William Turner, interpretato da Timothy Spall, che non assomiglia a nessun biopic esistente. È invece una raccolta di momenti degli ultimi venticinque anni di vita dell’artista: da cui emergono, sì, tratti fondamentali del suo carattere, gli interessi artistici, l’affetto filiale verso il padre e il freddo disinteresse per le figlie, il rapporto bizzarro con l’universo femminile. Ma sono tutti tasselli sparsi, che non hanno l’ambizione di ritagliare un profilo univoco dell’uomo.

Fin dalle prime sequenze Leigh fa ciò che gli riesce meglio: costruisce un quadro d’ambiente, composito e credibile, dell’Inghilterra dickensiana e vittoriana. Ma lo fa senza pedanteria didattica, bensì sforzandosi di raccontare i gusti, la cultura materiale, la “civiltà della conversazione” dell’epoca come realtà vissute in presa diretta e non riportate in una ricostruzione documentaria.

Calibratissima la fotografia, che cerca di mantenersi fedele, non scolasticamente, al singolare impasto cromatico dei quadri di Turner, che nell’ultima parte della sua carriera divennero sempre più sfumati e quasi astratti. La pellicola non si trasforma però in una serie di tableaux vivants che riproducono le opere del pittore, ma semmai assorbe la complessa tavolozza di colori dell’artista, inseguendo la caratteristica e ambigua luce dell’alba tanto amata da Turner, quando il giorno e la notte si fondono in un suggestivo impasto.

L’interpretazione di Timothy Spall, premiato come miglior attore all’ultimo festival di Cannes, è determinante: il suo Turner non ha nulla del mimetismo caratteristico di questo genere di ruoli. Non tratteggia l’artista sensibile o sregolato: Spall e Leigh sottraggono completamente la persona al personaggio, sfuggendo anche alla tentazione della demistificazione, che è l’altro modo per restare fedeli al mito, pur contestandolo. Spall grugnisce e sputa sui quadri che dipinge con veemenza fisica, ma allo stesso tempo venera i classici; mantiene cioè un atteggiamento sfuggente, sempre sfalsato rispetto alle attese dello spettatore in cerca del ritratto a tutto tondo del genio.

Il racconto riporta episodi della vita dell’artista: Turner che a un vernissage della Royal Academy corregge in tempo reale un suo quadro dopo aver visto un’opera di Constable, la visione di un treno a vapore che lo spinge a dipingere Pioggia, vapore e velocità, l’incontro con il saccente giovane John Ruskin o la regina Vittoria che, davanti a un suo quadro, afferma “un guazzabuglio giallo e sporco”. Ma la collezione di momenti, volutamente, non compone una totalità, fedele al vecchio assunto di Orson Welles, secondo cui un racconto non può catturare il senso della vita di un uomo. Però Leigh manca dell’istinto per lo spettacolo di Welles: così Turner resta troppo cerebrale, lodevolmente antiaccademico, ma incapace di appassionare davvero.