La recensione di Wasteland, Baby! di Hozier, un canto messianico intinto in 14 stadi dell’anima

Il cantautore irlandese sa parlare dell'amore con vere e proprie celebrazioni sonore che attraversano il mondo del gospel con la chiave di lettura del folk


INTERAZIONI: 55

Dal momento in cui ci abbandoniamo a “Wasteland, Baby!” di Hozier è tutto finito. Se la distopia si configura in un futuro catastrofico e immaginario, quella del nostro cantautore irlandese è un dipinto del presente. Siamo all’interno di una chiesa sconsacrata e decadente, con un candelabro al centro delle navate che illumina l’artista nel suo faccia a faccia con i fantasmi. Soul, pop, folk e gospel si riuniscono in una seduta spiritica che sposta l’attenzione degli dei verso il nostro luogo, verso il nostro respiro.

“Wasteland, Baby!” di Hozier è capace di elevare e inquietare lo spirito – Nina cried power, Movement  – e sedurre la mente – Almost (Sweet music)No plan – perché chi afferma che il cantautore irlandese vuole essere una copia contemporanea di Jeff Buckley potrebbe mentire. Hozier comunica tante cose anche quando non canta, perché affida il suo messaggio alla musica. Sentiamo, nelle sue corde, qualcosa che giustifica l’allineamento dei Mumford & Sons e dei Coldplay: è quel ragazzaccio di Markus Dravs, abituato a lavorare con le pietre preziose di BjörkBrian Eno per fare diventare aureo tutto ciò che passa per le sue mani.

Sarà forse un caso se siamo così fortunati da ascoltare brani di rara bellezza come As it was? No, perché in un mainstream pieno di cliché e ossessione per l’outfit, un Hozier ce lo meritiamo. Arpeggi di chitarra, organi e fantasmi, questo è il mondo del nostro irlandese. Fantasmi, spettri che non terrorizzano ma si reincarnano per cantare ancora una volta. Vuoi perché le scelte sonore del disco sono ineccepibili, vuoi perché il gospel non ha perché, ma il muro vocale che regge tutto il disco è qualcosa di ultraterreno.

Addentrarsi tra i quattordici canti – chiamiamoli così, perché parlare di canzoni potrebbe essere fuori luogo – è un’esperienza che tutti dovrebbero assaporare, perché abbiamo a che fare con una tracklist impossibile da descrivere traccia per traccia. Ciò che scopriamo quando parte la batteria di Nina cried power è un mondo elevato e ctonio, le stesse onde tradotte in parole dagli Scisma di Rosemary Plexiglas e qui riproposte dalla splendida voce di Hozier in un featuring con la divina Mavis Staples. Il cantato è scandito da accordi singolari di pianoforte e tutto prosegue in armonia con gli elementi. Voci si innalzano al cielo, ma ciò che lo sguardo dei fantasmi incontra è il soffitto decadente di una chiesa sconsacrata nella quale si svolge tutta la scena di “Wasteland, Baby!” di Hozier, anche quando gli ultimi schianti corali cedono il posto alla tonalità di maggiore di Almost (Sweet music).

Riverbero e tappeti spirituali sonori sono i protagonisti di tutto l’album, e in Almost (Sweet music) troviamo un Hozier in un continuo fraseggiare, accompagnato da accordi complicati, battiti di mani e percussioni appena pronunciate. Le percussioni, ecco, come le sessioni di batteria saranno, per tutto il disco, un co-protagonista ritmico che non invade il campo sonico, pur scandendo tempi determinanti per la buona riuscita delle dinamiche dei pezzi. Il brano si innalza, come tutti, in un crescendo di cori che arrivano al culmine per spalancare la porta a Movement. Apparentemente tutto si cheta, ma Movement è un canto dalla calma ingannevole, che si presenta come un brano da spiaggia nelle prime battute, ma diventa un cromatismo verso la metà, quando poi interviene la batteria per accompagnarci a un livello superiore. Ecco, sì, di nuovo una parvenza di paradiso si apre dinanzi ai nostri occhi indegni quando un coro di voci chiude il brano per oliare l’ingranaggio della complessità creativa di Hozier, prima di uscire dalla navata di questa chiesa sconsacrata per insinuarci per qualche minuto nella sagrestia. Troviamo raccoglimento e intimità, ora, con No plan.

Una chitarra in overdrive ci regala un riff trascinante e sensuale, una sensualità che scopriamo grazie all’ingresso della voce del cantautore irlandese. «Sarò il tuo uomo se avrai amore da dispensare», canta Hozier in un brano che da una parte ci corteggia e dall’altra ci insegna che il tempo dell’amore è troppo prezioso per perdersi nel vuoto. Nessuna escursione vocale di spicco, in questo canto, ci fa ammirare le capacità del nostro cantautore, ma non abbiamo bisogno di grandi prestazioni per renderci conto di avere a che fare con un talento indiscutibile. Nobody è il primo brano nel quale troviamo un effetto sulla voce di Hozier: il delay dà spazio e magnificenza al cantato, e la formula funziona su un arrangiamento a metà tra l’allegro inno all’amore tra le persone imperfette e la spensieratezza di un sentimento che vince sulle peculiarità dell’uomo in quanto uomo. La stessa freschezza tagliata con la positività si trova in To noise making (Sing), un invito a cantare nonostante le capacità, purché si canti sempre. Accordi di pianoforte stoppati accompagnano la voce e le parole. Lo dice Hozier, lo sottolinea il coro, il gospel sempre presente come un evidenziatore angelico. Gli angeli, i fantasmi, le entità che ci circondano mentre ascoltiamo “Wasteland, Baby!” di Hozier restano accanto a noi per As it was.

As it was è la riconciliazione di due anime affini, per questo il cantautore ha scelto di farsi accompagnare da una chitarra, un pianoforte e dal silenzio degli altri strumenti: «La forma in cui mi ritrovo, la tua sagoma sulla porta. Ti prego, rendimi partecipe del tuo amore», dice lui, mentre i suoni suggellano un’ascesa emozionale degna solamente di Stairway to heaven, e non per la musica. Hozier fa parlare i tessuti muscolari, i nervi: dà loro un mondo di note, le sue sinapsi sono la sua band. Quando l’amore non giunge a compimento, purtroppo, arriva Shrike. Frustrazione e tristezza lo guidano e ci mostrano quella terra desolata che la delusione dipinge quando scompare la fortezza ovattata della consapevolezza, ma c’è ancora speranza come Talk ci insegna. Si potrebbe scommettere sulla presenza di My wild love dei Doors nella playlist dell’autore irlandese, perché Talk è uno spiritual che seduce con una danza quasi sciamanica, la stessa dalla quale Jim Morrison era ossessionato.

Dal momento in cui abbiamo scomodato il Re Lucertola non possiamo non parlare di trasgressione, e Be ne è un inno in cui Hozier ci offre la sua personale chiave di lettura. «Sii come sei sempre stato», ci dice, quando ci invita a seguire l’esempio biblico di Adamo con il palese riferimento al peccato: «Sii come l’amore che ha scoperto il peccato, ciò che ha liberato il primo uomo». Per questo messaggio il musicista ha scelto un arrangiamento che offre un intenso groove, tra batteria riverberata, cori e un cantato che si innalza per incoraggiare chiunque a liberarsi dalle proprie inibizioni. Il freno inibitorio, poi, diventa il male minore quando l’esistenza ci presenta di fronte agli obblighi sociali che non abbiamo scelto, e Dinner & Diatribes disegna proprio la prigione di questo stato di cose. Il video che accompagna il singolo, in effetti, ci mostra la claustrofobica partecipazione di una ragazza a una cena di gala, durante la quale la protagonista è incapace di agire da sé. Si ribella, poi, dando fuoco al suo commensale e approfittando delle fiamme per cucinarsi un marshmallow.

Il ritornello ci tormenterà per sempre: «That’s the kind of love», che la voce di Hozier intona in un intervallo di terza minore come un grido liberatorio, su percussioni e riff trascinanti di chitarra. Would that I è il canto dei rimpianti, un 6/8 malinconico e straziato dal topic delle cose che chiunque non ha fatto, ma che avrebbe tanto desiderato fare. Sunlight risponde alla minaccia della negatività di cui No plan si fa promemoria. Se quest’ultima ci metteva in guardia sul tempo che passa, Sunlight fa un zoom sull’amore come unica forza, unica luce e unico sistema. L’amore di Sunlight, come il titolo suggerisce, è la luce del sole che fende la notte e il buio. Atmosferica ed evocativa, la musica che accompagna il brano riesce a diventare un occhio di bue, una feritoia che si apre sulla chiesa sconsacrata senza creare abbagli, visto che ci mostra una direzione. Il fascio di luce illumina Hozier e si sposta su tutti noi, tra percussioni singhiozzanti e voci sospese, dinamiche e pungenti. È la penultima funzione di questo disco messianico e fatato. Sunlight cede il posto alla title-track, e con magia sonora Wasteland, Baby! di Hozier raggiunge la vetta più alta, l’epilogo che tutti meritiamo.

Tutto tace, apparentemente, mentre i fantasmi che ci hanno accompagnato con il loro coro chinano il capo all’unisono. La title-track è il secondo brano con la voce di Hozier alterata da effetti, con un tremolo scelto per creare più morbidezza. Voce e chitarra, semplicemente, ci accompagnano all’uscita. Il testo racconta la bellezza dell’innamorarsi come un teatro catastrofico, un paesaggio post-atomico nel quale tutto ricomincia. L’amore ricostruisce, distrugge e scatena disordine, ma Hozier ci vuole dire che si tratta di esperienze necessarie.

La musica è finita. Lasciamo questa chiesa sconsacrata e i nostri passi rimbombano tra le pareti e tra le navate semivuote. I fantasmi aprono gli occhi e ci guardano andare via. Hanno occhi luminosi, e ci illuminano il cammino per farci trovare l’uscita e farci tornare a casa.

Ci voltiamo un’altra volta e vediamo noi stessi allo specchio. Non ci siamo mai allontanati da casa. Stavamo ascoltando “Wasteland, Baby!” di Hozier, e lui è venuto a prenderci per darci una lezione di musica.