Guantanamo Diary – La storia di Mohamedou Ould Slahi sul grande schermo

Molti non lo conoscono, ma Mohamedou Ould Slahi è un prigioniero, tuttora detenuto a Guantanamo, dichiarato ufficialmente privo di accuse. E Guantanamo Diary è il titolo del film che sarà tratto dal resoconto giornaliero che ha scritto “nel frattempo” della sua prigionia. Lloyd Levin e Michael Bronner cureranno il tutto.


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In un periodo storico fondamentalmente prevaricato dal concetto di paura e dalle sue presunte o reali varie manifestazioni, decidere di porre al centro dell’attenzione un detenuto a Guantanamo, accusato di terrorismo ma scagionato, è sicuramente un’operazione “contro corrente”. Non è facile, ma non per questo vuol dire che non si possa fare senza successo. I fatti: Lloyd Levin e Michael Bronner sono riusciti ad accaparrarsi i diritti che deriveranno da un eventuale e molto probabile film basato sulla storia di Mohamedou Ould Slahi.

Slahi è un detenuto di Guantanamo. Risulta un po’ beffardo e superfluo specificare che il motivo iniziale della sua detenzione, iniziata nel 2002, è un’accusa di terrorismo e appartenenza ad Al Qaeda. Lui ha cominciato la sua prigionia in Giordania, dove dopo otto mesi di tortura e detenzione è stato trasferito poi a Guantanamo. Qui ha cominciato a scrivere un diario delle sue giornate da prigioniero nel 2005; dopo 5 anni dalla sua detenzione, esattamente nel 2007, CIA ed FBI hanno escluso qualsiasi collegamento di Slahi con i tragici fatti dell’11 settembre. In poche parole non è mai stato accusato formalmente di alcun crimine. La logica conseguenza sarebbe stata quella di una sua scarcerazione, ordinata ufficialmente nel 2010 da un giudice federale. Ma Mohamedou Ould Slahi è ancora detenuto a Guantánamo. Il suo diario nel frattempo era già stato declassificato e privato quindi della censura alla quale era sottoposto: è diventato appunto quel libro (in Italia edito da Piemme col titolo di 12 anni a Guantanamo) dal quale, come si diceva, sarà tratto probabilmente un lungometraggio.

Lloyd Levin e Michael Bronner dal canto loro, non sono nuovi all’argomento: va ricordato che sono stati fra i produttori di United 93, pellicola del 2006 scritta e diretta da Paul Greengrass (nominata agli Oscar e vincitore di un BAFTA), che narra appunto del volo United Airlines 93. Era l’aereo coinvolto nella strage dell’11 settembre 2001, che però fallì nel suo obiettivo perché costretto a precipitare prima, grazie ad una rivolta dei passeggeri a bordo (almeno questa è la versione ufficiale). Bronner e Levin non potranno conferire con Slahi e quindi dovranno basare il loro lavoro unicamente sulle 466 pagine del suo libro. Una grande occasione, sembrerebbe, di spostare un po’ l’attenzione verso quella che sembra essere stata un’ingiustizia clamorosa. Amaro constatare come finora, a pesare molto su questa come su altre accuse, è stata soprattutto la paura in varie forme: talvolta spontanea e giustificata, molte altre fomentata ed enfatizzata, in maniera più o meno studiata. Non dimentichiamoci che l’arte di governare trae sicuramente linfa e giustificazione da misure di protezione rese necessarie nei confronti della società civile: che poi la società civile si estenda al mondo intero e il pericolo sia sopravvalutato o addirittura inesistente… beh questo è un altro discorso.