Il 26 settembre 1969 usciva Abbey Road dei Beatles. Penultimo album nell’ordine di pubblicazione, ultimo nell’ordine di registrazione visto che nel 1970 sarebbe toccato a Let It Be, ma quando il disco venne fuori tutto era già stato scritto, siglato, schiaffeggiato e urlato. Il produttore George Martin era uscito devastato dalle sessioni del White Album, la doppia opera in cui i Beatles somigliavano più a quattro perfetti sconosciuti preceduti dall’ego anziché alla band che almeno fino al 1968 – anno in cui uscì Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – era sinonimo di sorrisi, genio e rock’n’roll.
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- 01/01/2009 (Publication Date) - EMI (Publisher)
Abbey Road dei Beatles fu il manifesto di una fine già annunciata. Ognuno dei quattro aveva la testa fra le nuvole, nuvole che erano progetti solisti, cinema, famiglia e ambizione. Paul McCartney ci credeva ancora, e sfruttò la necessità che ancora lo univa agli altri, che era quella di mettere da parte la psichedelia nella quale si erano immersi con Rubber Soul, Revolver e Sgt. Pepper’s e tuffarsi in un progetto più puro.
Difficile, certamente, fare breccia in un John Lennon sempre più di marmo e che addirittura chiedeva un grado di separazione tra il lato A e il lato B: il lato A per i brani scritti da lui, il lato B per McCartney e gli altri. Gli “altri” erano ovviamente Ringo Starr e George Harrison. George Martin li fece ragionare, ma soprattutto fu l’idea di Macca a convincere la band: rispolverare alcune vecchie demo dei tempi di Get Back, definirle e inserirle nel disco.
Il risultato è ciò che oggi sopravvive e così sarà per sempre. Abbey Road è un disco blues, rock, pop e intenso, che se ascoltato senza conoscere la storia restituisce una band coesa e perfetta in ogni scelta, capace di dare un senso ad ogni millisecondo inciso a partire da Come Together, un’apertura più che audace per l’ultimo album dei Beatles.
Il riff di Come Together è superiore, e superiore è anche il pattern di Ringo Starr che incalza il ritmo tra tom, timpani e scrollate sul charleston. I powerchord di George Harrison aggrediscono l’ascoltatore nel ritornello. Una partenza col botto, insomma. Non si atterra certamente sull’asfalto, ma sul morbido quando arriva Something, la ballata di George Harrison che dà ancora più senso all’intero disco.
Harrison bissa la sua poesia con Here Comes The Sun, altro brano riuscito e imponente, con quella positività quasi ipnotica ma inquietante, se pensiamo che i Fab Four nemmeno si guardarono in faccia mentre registravano il disco. Anzi, si scrive e dice che durante le sessioni di Abbey Road mai capitò che i quattro partecipassero in contemporanea. Ringo Starr canta Octopus’ Garden, quasi una parentesi divertente in mezzo al caos ordinato della tracklist.
Se dovessimo usare delle menzioni speciali, dovremmo citare tutti i brani: spezziamo una lancia a favore di Oh! Darling di Paul McCartney, un revival degli anni ’50 che riascolteremmo all’infinito, e di I Want You (She’s So Heavy) di John Lennon, entrambe esplosive per quel vintage brillante e mai scontato.
Sul lato B c’è la suite delle suite, un insieme di canzoni brevi disposte in fila con coerenza in cui Paul McCartney si prende la briga di sputare contro la disastrosa situazione fiscale dei Beatles. Non è un caso se You Never Give Me Your Money sia divisa in tre momenti proprio come ai tempi di Happiness Is A Warm Gun; si ritorna sotto ipnosi con Because, dove le voci dei Fab Four danno il meglio cantando in coro, il tutto con uno stile sofisticato e sinfonico.
The End, un titolo e una storia che ci spinge a riavvolgere e ripartire da Come Together per ascoltare nuovamente l’ultimo capolavoro dei Beatles. Her Majesty è finita alla fine quasi per caso per un errore del tecnico John Kurlander. Come detto per Revolver, quando ascoltiamo Abbey Road dei Beatles facciamoci caso.