Scorrendo i titoli di testa di Vacanze Romane (Roman Holiday, 1953) di William Wyler, che quest’anno festeggia i suoi settant’anni, la sceneggiatura e il soggetto risultano giustamente attribuiti a Dalton Trumbo. Si tratta in realtà di una correzione compiuta decenni più tardi: solo nel 2003 la riedizione in dvd riconobbe la paternità del soggetto di Trumbo e ancora successivamente, nel 2011, anche la sceneggiatura venne ascritta al suo autore. All’epoca, invece, come sceneggiatore venne indicato Ian McClellan Hunter, buon amico di Trumbo, che gli fece da prestanome, facendogli pervenire il compenso.
Il caso volle poi che Vacanze Romane si rivelasse uno straordinario successo globale, facendo incetta di nomination agli Oscar, ben 10, con tre statuette vinte: una per la semisconosciuta interprete Audrey Hepburn, trasformata istantaneamente in icona globale, una seconda per i costumi di Edith Head e una terza per il soggetto, che però Hunter si guardò bene dall’andare a ritirare. Quell’Oscar poi, nel 1993 venne finalmente assegnata a Trumbo, morto quasi vent’anni prima nel 1976, consegnato postumo alla vedova.
La ragione di questa tortuosa vicenda, come saprà bene chi ha visto il biopic L’Ultima Parola. La Vera Storia di Dalton Trumbo, tratto dalla biografia di Bruce Alexander Cook, è che lo scrittore nel 1947 – quando cominciò la prima stagione della caccia alle streghe orchestrata dalla Commissione per le attività antiamericane (HUAC) diretta inizialmente da John Parnell Thomas (solo successivamente presidente divenne Joseph McCarthy, da cui l’etichetta di maccartismo data a quella triste stagione) – fu uno dei “Dieci di Hollywood”, obbligati a testimoniare davanti alla commissione per i loro trascorsi da attivisti del partito comunista americano.
Trumbo, come gli altri, fu dichiarato teste ostile, perché si rifiutò di rispondere alla domanda circa la sua affiliazione al partito, né tantomeno fece i nomi di altre persone, appellandosi alle libertà individuali di parola garantite dal Primo Emendamento. Come ricorda Giuliana Muscio in Lista Nera a Hollywood, lo scrittore “si era portato in aula pile di sceneggiature e di pizze di film a 16 mm, per dimostrare concretamente alla Commissione se era o no un buon americano. Alla domanda ‘fatidica’, Trumbo non solo non rispose, ma replicò con un’altra domanda: ‘È vero che avete dato ad alcuni giornalisti una copia di una tessera del pèartito Comunista col mio nome?’”.
Per questo Trumbo venne privato della possibilità di continuare a lavorare in una Hollywood preoccupatissima del destino dell’industria dell’intrattenimento, in anni di guerra fredda montante, in cui la contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, stante anche la dottrina della nuova presidenza Truman, divenne sempre più rigida, suggerendo alle case di produzione cinematografiche, per tutelare gli incassi, un atteggiamento collaborativo con le istituzioni.
La storia di Vacanze Romane, insomma, è duplice. Da un lato c’è la vicenda, notissima, legata al mito di Roma e della Hepburn. Il film, classico esempio della Hollywood sul Tevere – la stagione in cui, soprattutto per ragioni finanziarie, per gli studios statunitensi risultò vantaggioso produrre film direttamente in Italia, approfittando delle ottime maestranze locali e di Cinecittà –, è probabilmente quello che più di tutti ha contribuito a chiudere definitivamente la stagione del neorealismo, grazie alla sua iconografia incentrata su di una Roma abbagliante, certamente cartolinesca e turistica, che però fu capace di imporre una volta per tutte un nuovo immaginario italiano, sostituendo i panorami di macerie degli scioccanti ritratti del paese che avevano caratterizzato il cinema dell’immediata fase postbellica a partire da Roma Città Aperta e Paisà.
Da un lato a cambiare pagina contribuì il fenomeno del neorealismo rosa, che proprio nel 1953 produsse il film spartiacque Pane, Amore e Fantasia di Luigi Comencini. Il quale però, pur attraverso la sua gradevole trama convenzionale di amabili figurine da strapaese (la bersagliera Lollobrigida, l’impagabile maresciallo Carotenuto di Vittorio De Sica), ancora manteneva sullo sfondo una realtà povera e provinciale.
In Vacanze Romane tutto assume un tono più fiabesco, grazie al folklore di una pittoresca simpatia italiana, e a una squillante cornice monumentale nella quale non c’è più traccia né di rovine fisiche, né morali. Vettore di questa rivoluzione iconografica è proprio Audrey Hepburn, sorta di Cenerentola al contrario, la principessa Ann che si traveste da persona qualunque per assaporare la vita di tutti i giorni, traghettata in un mondo per lei ignoto dal giornalista americano Joe Bradley (Gregory Peck) che, riconoscendola, prima immagina di architettare lo scoop della vita, e poi, da quel gentiluomo che è, rinuncia.
Vacanze Romane è pure eufemistico e virginale, dato che Hepburn e Peck non varcano mai il limite dell’attrazione reciproca. Così il film, in un’epoca cinematografica incardinata ancora su pin up e maggiorate fisiche, impone improvvisamente un nuovo modello di donna, esile, elegantissima, persino un po’ irreale, che ha lo sguardo e i modi insieme regali ed accattivanti della Hepburn. Di fronte alla quale, come leggenda volle, la star affermata Peck seppe fare un passo indietro: “Me ne intendo abbastanza di attrici – disse al suo agente – da capire che con questo film Audrey vincerà l’Oscar. Quindi, se non vuoi farmi fare la figura dello stupido, fai in modo che mettano il suo nome accanto al mio“. L’immagine di loro due in vespa per la capitale è una delle intramontabili icone dell’italianità nel mondo, simbolo come la fontana di Trevi felliniana di una eterna dolce vita.
Questa è la prima storia di Vacanze Romane. Poi c’è l’altra, quella cupa e politica di liste nere ed epurazioni, che pare inimmaginabile accoppiata a un film così carezzevole. Invece è una parte essenziale della storia, che non riguarda il solo Dalton Trumbo. William Wyler infatti, naturalizzato americano ma tedesco di natali, fu una delle figure più attive dell’industria hollywoodiana negli anni della caccia alle streghe. Wyler non era comunista – “Odio e mi oppongo a qualsiasi forma di dittatura in qualsiasi parte del mondo. Questo ovviamente include il fenomeno più pericoloso: il comunismo”, disse –, e però era allarmato, come tanti altri liberals, della preoccupante deriva autoritaria.
Quando scoppiò il caso dei dieci di Hollywood egli fu uno dei primi a intervenire, fondando insieme a John Huston, lo sceneggiatore Philip Dunne e l’attore Alexander Knox il Comitato per il Primo Emendamento, cui parteciparono registi, intellettuali e attori, tra i quali lo stesso Gregory Peck, il quale dichiarò: “C’è più di un modo per perdere la libertà. Può esserci strappata dalle mani da un tiranno, ma può anche sfuggirci dalle dita giorno per giorno, mentre siamo troppo occupati o spaventati o confusi per rendercene conto”.
Wyler ebbe anche qualche noia, quando si venne a sapere che aveva ospitato a casa sua un party per Henry Wallace, l’ex vicepresidente di Roosevelt, il quale era contrario alla politica estera antisovietica di Truman, e anzi, da leader del Partito progressista e poi da candidato alla presidenza degli Stati Uniti, aveva accolto con favore il sostegno del Partito comunista americano.
Come riporta Gabriel Miller in William Wyler. The Life and Films of Hollywood’s Most celebrated Director, il regista replicò con una lettera a un articolo in cui il critico del New York Times Bosley Crowther si chiedeva se gli ultimi avvenimenti avrebbero limitato la libertà d’azione degli autori cinematografici. “Posso rispondere inequivocabilmente che la realizzazione dei film sarà, e di fatto lo è già, seriamente complicata dalle indagini sulle attività ‘antiamericane’. Non invidio il tuo lavoro, che ti obbliga a guardare le immagini che saranno realizzate per conformarsi agli standard di intrattenimento e americanismo del signor Thomas o del signor Hearst. Come uno che ha sempre considerato i film come una parte importante della vita culturale americana, e come uno che ha costantemente sostenuto e incoraggiato buoni film sulla vita e sui problemi contemporanei, devi essere indignato quanto me per questi feroci attacchi contro l’industria cinematografica”.
Wyler prese anche posizione rispetto ai contrasti che si manifestarono in seno al sindacato dei registi, quando Cecil DeMille, che voleva imporre un giuramento di fedeltà agli iscritti, cercò di isolare gli “stranieri” presenti nell’organizzazione, Wyler, Billy Wilder e Fred Zinnemann, accentuando provocatoriamente le pronunce esotiche dei loro nomi. “Una volta – dichiarò Wyler – DeMille disse qualcosa sul fatto che alcuni di noi erano traditori e non buoni americani. Ricordo di essermi alzato e di aver detto che se qualcuno avesse dubitato della mia lealtà verso il paese, gli avrei dato un pugno sul naso, ‘e non mi interessa quanti anni ha’, aggiunsi, guardando direttamente DeMille mentre lo dicevo”.
Wyler si battè anche affinché Lester Koenig, un’altra figura in odore di epurazione, fosse il produttore associato di Vacanze Romane. La ebbe vinta, ma solo sulla base dell’assicurazione che Koenig, una volta tornato in patria, avrebbe testimoniato davanti alla commissione. Cosa che non fece, sparendo così dai titoli di testa del film, prodotto dalla Paramount, contro il parere del regista.
Un altro tassello che si può aggiungere riguarda Eddie Albert, che in Vacanze Romane interpreta il fotografo bohémien collega di Bradley. Anche lui ebbe noie, legate soprattutto alla moglie, l’attrice messicana Margo che, sebbene non iscritta al partito comunista, era notoriamente di sinistra. I loro nomi nel 1950 vennero pubblicati nell’odioso pamphlet anticomunista Red Channels, che stilava liste di proscrizione con l’obiettivo di epurare i media dagli “antiamericani”.
Allora, alla fine, non sorprende che, in mezzo a una coppia di film decisamente impegnati e asfitticamente (metaforicamente?) chiusi dentro spazi concentrazionari come Pietà per i Giusti (1951) e Ore Disperate (1955), Wyler accettasse l’idea di girare dopo quasi vent’anni una commedia all’estero, per di più leggera e disimpegnata quale Vacanze Romane. Come scrive Miller: “È come se lasciare l’America avesse permesso a Wyler di liberarsi temporaneamente delle sue inibizioni e lasciarsi andare allo spirito della commedia. Tuttavia, come la principessa del film, Wyler sapeva che alla fine sarebbe dovuto tornare nel mondo reale e impegnarsi nuovamente nella politica del suo paese. Sperando, quando lo avesse fatto, che l’America si sarebbe comportata con la decenza e l’integrità che Joe Bradley esibisce rifiutandosi di tradire la principessa Ann“.