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Come un Capibara in una assolata giornata d’estate

Anche nel mercato discografico esiste sempre un roditore simile a un topo più grande, da qualche parte, pronto a essere centrato da un auto in corsa nella notte

di Michele Monina
22/02/2023
INTERAZIONI: 87

INTERAZIONI: 87

Brazil wildlife. Capybara, Hydrochoerus hydrochaeris, Biggest mouse near the water with evening light during sunset, Pantanal, Brazil. Wildlife scene from nature. Orange evening with cute mammal.

Nel 2009 mi sono fatto a piedi tutte le tangenziali di Milano. Non che fossi rimasto a piedi mentre stavo percorrendo quell’anello ovoidale di asfalto, le ho fatte a piedi, uso il plurale perché a differenza del Grande Raccordo Anulare a Milano non c’è una sola tangenziale che accerchia il centro cittadino, ce ne sono tre che si intersecano, complice un tratto della Venezia-Torino, rendendo sì possibile il periplo del capoluogo lombardo, ma solo se si è particolarmente abili naviganti, stavo quindi percorrendo quell’anello ovoidale di asfalto a piedi, dicevo, perché insieme al mio amico fraterno e collega Gianni Biondillo abbiamo deciso di compiere questo cammino per poi scriverne un libro, Tangenziali-due viandanti ai bordi della città, uscito l’anno successivo. Una sorta di cover del London Orbital di Iain Sinclair, che sulle orme di Guy Debord e i primi psicogeografi si è fatto a piedi la M20, tangenziale autostradale che corre intorno a Londra, a sua volta coverizzato, senza che però ce ne venisse reso merito, da Gianfranco Rosi col suo Sacro GRA, film vincitore del Leone D’Oro alla settantesima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Non sono però certo qui a recriminare faccende ormai parte del passato, volevo proprio parlarvi di quella camminata ai bordi della città, per poi passare, da tradizione, a parlare d’altro. L’idea che abbiamo sviluppato con Biondillo era di fare il periplo di Milano, senza mai toccarne il centro, in una decina di tappe, sempre partendo e poi tornando da casa, entrambi abitiamo nella zona di Piazzale Loreto, a grandi linee, suddividendo il cammino quindi in segmenti lunghi tutti una decina di chilometri, nessuno di noi due ha ambizioni atletiche, anche fisionomicamente mi sembra evidente. In quasi tutte le tappe con noi ospiti di varia natura, cantanti, ovviamente, scrittori, fotografi, tanto per non annoiarci troppo. L’idea era di accostare il più possibile le tangenziali, camminandoci sotto (solo il primo giorno abbiamo arrischiato camminando nella corsia d’emergenza di una tratta tra Lambrate e Cologno Monzese, spostandoci poi nei casi in cui rimanerci sotto non fosse possibile, sempre tendendola d’occhio. In una delle tappe, l’idea era di conoscere Milano conoscendone i bordi, i confini, le periferie, le province, siamo andati a Viboldone, nei pressi di San Giuliano Milanese, dove si trova una delle tante abbazie che sono sorte nel passato per bonificare quella che era una zona prevalentemente paludosa e renderla terreno agricolo, oggi buona parte della zona in passato in mano ai monaci si chiama Parco Sud di Milano. Essendo Tangenziali un libro scritto a quattro mani, e essendo io e Gianni Bindillo sì due amici fraterni, ma scrittori con cifre diversissime tra loro, e anche con percorsi assai diversi tra loro, io critico musicale e lui architetto, io forestiero lui milanese, io conoscitore della tangenziale in quanto automunito, lui ignaro di quella zona in quanto privo di patente, a latere dell’essere scrittori, per tutto il tempo abbiamo giocato allo Ying e Yang, io a interpretare il ruolo di quello cui fa un po’ schifo tutto, sempre stanco, annoiato, mai sorpreso. Uno dei rari momenti in cui mi sono veramente sorpreso, se non addirittura spaventato è stato proprio nei pressi di Viboldone, per un motivo che apparentemente con Milano e coi monaci potrebbe avere poco a che fare, apparentemente. Ci siamo noi due su una strada di campagna, un fosso da un lato, con un canale di irrigazione, eredità del lavoro degli abati, uno dall’altro. Fa caldo, perché è giugno, e noi stiamo camminando da un po’. In lontananza vediamo una sagoma a terra, vagamente fumata dal vapore che l’asfalto, da tradizione, tira su. Non capiamo di che si tratti, anche se è evidente che è, o meglio era, un animale. In realtà sulle prime non capiamo che si tratta di un animale morto, perché è sì immobile, ma potrebbe semplicemente stare dormendo. Capiamo che è morto avvicinandoci, e lo capiamo per il fetore che il cadavere dell’animale in questione esala. Più ci avviciniamo più la sagoma sembra quella di un gigantesco topo. Un topo di dimensioni disumane, e dire disumano parlando di un topo tradisce la mia scarsa lucidità, tentativo spero non fallito di rendere il mio stato d’animo d’allora. Siamo a pochi passi, e confesso che vedere questo topolone morto in strada, si vedono anche delle macchie che potrebbero essere sangue rappreso o intestini riversi, vallo a sapere, è evidente che il topo gigante è stato investito da un auto. A me viene in mente Pentigano’, piccola hit hardcore che per qualche tempo rese popolare la band degli Epicentro, di cui ero autore e chitarrista, stante quel Pentigano’ per grande pantegana, anche se in realtà si parlava di donne, erano anni in cui si poteva essere politicamente scorretti senza finire nella graticola, ma quel pensiero è più che altro un modo messo in campo dal mio subconscio per tenermi al riparo dal puro terrore, non avevo idea che esistessero o che esistessero vicino a Milano topi di quelle dimensioni, roba da far impallidire i coccodrilli albini delle fogne di New York. È a quel punto che Gianni Biondillo, col suo fare da architetto milanese che ogni due passi mi deve spiegare, come direbbero proprio a Milano, la rava e la fava, mi dice che si tratta di un castorino, meglio noto come nutria. Preso atto che, viste le dimensione, di ino il cadavere in questione non ha nulla, scopro che la nutria è in sostanza un roditore molto simile al topo, in realtà della famiglia dei castori, portato qui dai monaci e gli abati per farne delle pellicce. Operazione miseramente fallita, perché nessuno indosserebbe pellicce di un animale che sembra tremendamente un grosso topo, e che in più ha dato vita a una sorta di infestazione, come spesso capita a animali indesiderati la nutria infatti tende a riprodursi copiosamente, andando anche a devastare coltivazioni e impaurire gli scrittori anconetani che si aggirano a piedi intorno alle tangenziali. Da quel momento, in realtà, di nutrie ne ho viste tantissime, e strano non ne avessi notate prima. Sono praticamente ovunque ci siano canali o navigli, anche al Parco Lambro, per dire, o lungo la Martesana, e i loro cadaveri costeggiano tutte le strade, anche del lodigiano, strade che ho percorso con una certa frequenza. Non bastasse, di nutrie si è parlato anche a livello mediatico, quando Chef Rubio se n’è mangiata uno in non so bene quale suo programma. Ecco, diciamo che benché io non mi sia mai fatto problemi a mangiare quel che mi mettevano nel piatto, specie ai tempi in cui giravo il mondo per GenteViaggi, spesso neanche capendo esattamente di che si trattasse, quindi suppongo avrò mangiato animali dall’aspetto e l’aura assai peggiore della nutria, sapendolo avrei immagino qualche remora a mandarlo giù, perché, ripeto, sembra proprio un enorme topo di fogna.

Normale che, vista la tipologia d’incontro con quell’essere peloso e coi dentoni, io abbia dedicato buona parte del capitolo su Viboldone e quel tratto di camminata alle nutrie, lasciando a Gianni il compito di occuparsi delle abbazie, della bonifica del territorio e quelle amenità lì. Non so perché io abbia dimenticato, in quell’occasione, di citare la pubblicità del Ciocorì e del Biancorì, mio primo reale impatto col mondo dei roditori, due merendine rispettivamente al cioccolato al latte misto a riso soffiato e cioccolato bianco misto a riso soffiato che imperversano quando ero poco più che un bambino e nel cui spot televisivo, un mini cartone animato che presentava appunto due castori innamorati alle prese di volta in volta con simpatiche peripezie, il tutto era accompagnato dallo slogan “compagni roditori”, una sorta di messaggio subliminale rivolto alla sinistra extraparlamentare, e a ben vedere Ciocorì assomigliava, con quelle orecchie gonfie ai lati, a un Che Guevara con berretto militare in testa. Del resto il castoro è un animale operoso, costruisce le famose dighe e anche le nutrie ne costruiscono, chi capitasse appunto lungo la Martesana o al Parco Lambro ne potrebbe ammirare alcune, e vive in branco, una sorta di piccola comune parigina dove i maschi alpha permettono comunque ai non alpha di vivere e non solo sopravvivere, socialdemocrazia in versione pelosa ma non ipocrita.

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Vado avanti. Ciclicamente, immagino per questo mio costante occuparmi di animali, i social mi propongono articoli che riguardano un altro tipo di roditori, ben più inquietanti delle nutrie. Non perché le nutrie non lo siano, credo di averlo specificato con un numero anche eccessivo di parole, ma perché di roditori di dimensioni gigantesche si tratta, circa settanta chili di peso, un metro e trentacinque di lunghezza, sessanta di altezza. Praticamente una sorta di molosso in tutto somigliante a un topo, roba che neanche Stephen King nei suoi libri riuscirebbe a immaginarsi. E invece esistono in natura, si chiamano Capibara, vivono nel Sud America, prevalentemente in zone paludose o nei pressi dei fiumi, l’acqua è il loro nascondiglio preferito dai predatori, si nutrono prevalentemente di tuberi e verdure, capibara significa “mangia erba” e sono una razza considerata infestante, cioè di quelle che devastano i territori nei quali abitano. Un animale che ha avuto la sfiga di essere molto presente in territori generalmente abitati da esseri umani non troppo ricchi, al punto che la Chiesa Cattolica dichiarò la sua carne commestibile durante il periodo della quaresima, troppo caro il pesce per le tavole dei contadini locali. Un animale che per altro, oltre a vivere in branco, socievole di natura, si trova spesso a fare da piedistallo a uccelli e scimmie, che ne sfruttano la conformazione fisica, un dorso lungo e un collo che si sviluppa in verticale, quasi a farne una poltrona, per starsene comodi, complice la quasi totale immobilità del capibara durante buona parte della giornata. Un altro compagno roditore, quindi, anche più dei castori, che invece non sono soliti condividere la propria schiena con altre razze.

Tutto molto bello, non fosse che si tratta di un roditore lungo più di un metro, in molti tratti simili a un gigantesco topo. Pensate a ritrovarvelo davanti mentre state passeggiando in una assolata giornata di giugno diretti alla abbazia di Viboldone, ce ne sarebbe da rimanere traumatizzati a vita.

Dico questo perché negli ultimi anni, facciamo gli ultimi cinque, ogni volta che mi affaccio sul mercato discografico e vedo e ascolto questa accozzaglia di trap-rap-pop che domina le classifiche, incontrastato, mi ritrovo catapultato in automatico in quella strada assolata che conduce a Viboldone, fa caldo, sto camminando sì in campagna ma comunque sull’asfalto, in lontananza vedo la sagoma di un grosso animale che sembra un topo gigante e più mi avvicino più capisco che si tratta del cadavere putrefatto di un grosso animale che sembra un topo gigante, la puzza asfissiante non lascia spazio a dubbi sul suo stato di salute. Uno spettacolo horror, di quelli che ti si piantano alle pareti del cervello e ti inducono a guardare a certe strade di campagna con sospetto, sarà mica un caso che quasi tutti i grandi delitti, quelli che in genere occupano militarmente le pagine di cronaca dei nostri quotidiani siano avvenute in provincia e nella provincia della provincia. Certo, a vederli vivi uno sarebbe anche portato a provare una lieve empatia, sapendo che presto finiranno investiti da un auto nella notte, il loro destino è putrefarsi sotto un sole cocente, ma sempre qualcosa che assomiglia un topo gigante restano, empatia un cazzo.

Certo, poi mi viene in mente che su quella strada, fossi stato in Uruguay, in Cile, in Argentina, avrei potuto trovare la salma putrescente di un capibara, e allora hai voglia a non finire dallo psicologo sotto ansiolitici, che è un po’ come dire che poteva anche andarmi peggio, e in effetti se ascolto gente come Rhove, Dio non voglia, che fine ha fatto Rhove?, Paky o Shiva non posso che guardare a Coez, Sfera Ebbasta e Ghali quasi con simpatia, come del resto succedeva ai tempi guardando a chi c’era prima di loro, esiste sempre un roditore simile a un topo più grande, da qualche parte, pronto a essere centrato da un auto in corsa nella notte. Ma si tratta di magre consolazioni, sia chiaro, sempre di salme destinate alla putrefazione si tratta, l’asfalto, il sole cocente, la puzza asfissiante, l’idea che un giorno magari ci si sarebbero fatte pellicce, e invece niente, è arrivata la fine anticipata giusto dalla luce dei fari di un SUV.

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