Musica dall’inferno. Un titolo evocativo, che però, lo so bene, lascia intendere tutt’altro da quel che andrete a leggere.
Mettetevi comodi, non sarò breve.
Parto da una faccenda che ho già raccontato altre volte, ma che è necessaria per entrare nel mood, un po’ come quel che succede prima che partano i titoli di testa di certi film.
Sono un gemello. Non solo nel senso che sono nato sotto il segno zodiacale dei gemelli, in caso avrei dovuto scrivere “sono dei gemelli”, appunto, ma proprio nel senso che avevo un gemello, quindi sono tecnicamente un gemello.
Ho usato un verbo al passato, quindi non sarà una sorpresa scoprire che il mio gemello, Francesco, non c’è più. Ho un gemello che si chiama Francesco, anche questo a coloro che mi leggono con consuetudine sarà noto, nel senso che ho anche due figli gemelli, Francesco e Chiara, ma Francesco è anche il nome che una suora presente in sala parto il giorno in cui sono nato ha dato al mio fratello gemello battezzandolo, nel momento in cui, subito dopo essere stato partorito, è morto strozzato dal cordone ombelicale. So che sto utilizzando un linguaggio anomalo, freddo, da una parte, nel raccontare avvenimenti affatto irrilevanti della mia vita, provateci voi a festeggiare i vostri primi compleanni, diciamo anche i vostri compleanni finché i vostri compleanni li festeggiavate in casa, con gli amici e i parenti, vedendo lo sguardo atterrito di vostra madre, che nel giorno in cui festeggiava voi piangeva la morte di vostro fratello gemello, per dire, provateci voi a sentirvi, non perché qualcuno abbia mai indotto questo sentimento, un sopravvissuto, ma sto usando questo linguaggio, che dal freddo è passato al violento nel momento in cui ho raccontato i dettagli della morte del mio gemello, per un motivo specifico, chi scrive del resto questo fa continuamente, sceglie le parole adatte per indurre nel lettore un determinato stato d’animo che ritiene congeniale alla sua narrazione, sempre che sia in grado di farlo e che sappia che è questo che un narratore dovrebbe saper fare. Di fatto il giorno in cui sono nato, il 2 giugno del 1969, il mio fratello gemello è morto. E per una buona porzione della mia vita ho sentito evocare la presenza del mio gemello, Francesco. Anche in maniera lieve, sia chiaro, in quel ripetere come un mantra che i miei fratelli, perché prima di noi i miei genitori avevano avuto un figlio maschio, Marco, otto anni più di noi, e una figlia femmina, Caterina, sei anni più di noi, in quel ripetere come un mantra che i miei fratelli avrebbero potuto a loro volta avere gemelli, perché è una faccenda ereditaria, mia madre ha due sorelle gemelle, Gabriella e Paolina, anzi, aveva, Gabriella non c’è più, è una faccenda ereditaria ma “i gemelli non fanno i gemelli”, quindi in caso sarebbero stati miei eventuali figli a poterne avere, non certo io. Il tutto salvo poi scoprire, dopo aver avuto Lucia, nel 2001, e Tommaso, nel 2005, che era tutta una cazzata popolare, vatti a fidare della saggezza del popolo, oops, ecco i gemelli, gemelli che i miei fratelli non hanno avuto. Comunque, col tempo mi sono ovviamente lasciato affascinare a questa faccenda dei gemelli, non poteva essere altrimenti. Anche solo nel vedere le facce della gente, specie quando i miei figli gemelli erano piccolini e la gente ci fermava chiedendo, “Ma avete gemelli in famiglia”, quando rispondevo, “Sono io gemello”, ben sapendo la gente che conosco e frequento, che io un gemello in vita non ce l’ho, quindi un imbarazzo pudico lì a colorare i volti. Ho letto libri e articoli su quella faccenda della telepatia, è ovvio, quelle storielle, vai a sapere se vere, di gemelli che si sentono male, magari muoiono pure, mentre le loro “metà”, chiamiamole così, anche se nel caso dei gemelli omozigoti, quelli uguali, più che metà dovrei dire duplicati, stesso identico DNA, a sentirsi male dall’altro capo del mondo. Ho scoperto, leggendo uno dei miei autori preferiti di sempre, credo non a caso, John Barth, che i gemelli hanno in effetti un loro linguaggio segreto, tutto loro, che usano per comunicare, non sempre e solo verbalmente, linguaggio che esclude ovviamente tutto il resto del mondo, in effetti i miei figli gemelli parlano di loro come “noi”, guardando anche al resto della famiglia come “agli altri”. Fatto, questo del proprio linguaggio segreto, che comporta un guardare al linguaggio ufficiale, quello per intendersi che si usa convenzionalmente, che io sto utilizzando per scrivere e voi per comprendere quel che scrivo, immagino con una certa fatica, come a un gioco, un vezzo, di qui, esattamente, l’intendere la letteratura come fa John Barth, maestro indiscusso del massimalismo, una continua corsa sull’ottovolante. Ho letto di come un altro scrittore che adoro, o almeno ho adorato in una determinata parte della mia vita, Philip K Dick, abbia avuto una esperienza di vita molto simile alla mia, anche lui gemello eterozigote, sopravvissuto al suo gemello, nello specifico una gemella, la tomba preparata con già il suo nome e la data di nascita lì, come una sorta di spada di Damocle sulla sua stabilità mentale. Mi sono quindi chiesto, e questo è finito dentro la trama di due dei tre romanzi che hanno composto la mia trilogia Avrei voluto tutto, rispettivamente nel finale di Anime @ Losanghe e nell’incipit di Una notte lunga abbastanza, sì, un tempo ho anche scritto narrativa, mi sono quindi chiesto se questo famoso linguaggio telepatico che i gemelli hanno tra loro avesse in qualche modo aperto una qualche finestra tra me e l’aldilà, conscio che quel battesimo tempestivo della suora nel momento della morte del mio gemello Francesco, sono anche un cattolico credente, poi ci arrivo, lo avesse in qualche modo scansato dal finire al purgatorio, è lì, nel limbo lo chiamavano un tempo, che finiva chi moriva prima di nascere o durante la nascita, o meglio, i non battezzati, ma anche consapevole che questo avrebbe fatto di me una sorta di Bruce Willis ne Il sesto senso, lì a parlare con la gente morta, seppur gente che era il mio gemello Francesco. Per altro, e le chiedo scusa, so che questo mio parlare così crudo addolorerà mia madre, e ho quasi la tentazione di impedirle di leggere queste mie parole, lei, a quattrocento chilometri di distanza da me, ogni giorno legge quel che scrivo, per sentirmi più vicino, ma, userò una figura retorica piuttosto abusata, credo che ogni tanto fare i conti coi miei fantasmi, letterari e letterali, mi aiuti a rimanere lucido, spero non me ne voglia.
Il breve accenno al mio essere cattolico praticante, lo ammetto, non si trova qualche riga qui sopra per caso, è di inferno in fondo che andrò a parlare, e se non fossi credente parlerei presumibilmente di qualcosa come potrebbe avere la stessa concretezza per la mia vita di un unicorno, o della bella musica reggaeton, quest’ultima notazione sta chiaramente qui per strapparvi un sorriso dopo avervi gettato addosso secchiate di inquietudine, il mio dirlo è un omaggio proprio al John Barth padre del massimalismo, questi sono i giochi letterari cui facevo riferimento, la metanarrativa, lui che parla direttamente al lettore, abbattendo in qualche modo la quarta parete, sempre che ce ne sia anche tra lettore e chi scrive, la voce narrante che coincide con la voce dell’autore e che quindi si può permettere certe confidenze, anche lo spiegare che sto omaggiando John Barth e spiegare come è parte del medesimo meccanico, ora la smetto, il breve accenno al mio essere cattolico praticante, anche se io ho detto cattolico credente e non praticante, come a nascondere il mio essere anche praticante, lavoro in un settore decisamente laico nel quale, per altro, vengo considerato quello più politicamente scorretto di tutti, il sapermi cattolico praticante immagino crei stupore, almeno in chi non mi conosce e non mi legge abitualmente, è storia nota agli altri, come anche qualche malumore a chi è cattolico praticante in maniera un po’ più ortodossa di me, il breve accenno al mio essere cattolico praticante è lì perché, devo dirlo, non ho mai creduto al fatto che l’inferno, come il purgatorio e il paradiso, fossero luoghi reali. So che Papa Francesco ha detto, non ricordo in che occasione, che sì, sono luoghi reali, ma tendo a non prendere esattamente alla lettera certi passaggi, forse anche perché non voglio realmente pensare che il mio gemello se ne stia da cinquantatré anni da qualche parte a comunicare telepaticamente con me. Certo, immagino che la morte non sia la fine di tutto, ma queste sono questioni che credo trattare in un pezzo nel quale, sappiatelo, andrò a parlare del culo di Rihanna (sì, ovvio, anche il citare il culo di Rihanna è un trucchetto, anche becero, per entrare a gamba tesa nel discorso, parlo di me che sto scrivendo, alleggerendo il tutto e al tempo stesso rivendicando il mio ruolo di penna più politicamente scorretta dell’italico giornalismo e critica musicale).
Parliamo quindi di inferno. E parliamone come se fosse un ruolo reale, fisico.
Stamattina, mentre ero seduto sulla tazza del cesso leggendo il giornale (ovviamente, siamo nel 2023, per leggere il giornale intendo sfogliare le pagine digitali di qualche sito, Dagospia nello specifico, è questo che faccio, come una abitudine consolidata tutte le mattine, dopo aver dato da mangiare al nostro pesciolino rosso, Brina, e alle nostre tartarughine, Sparky e Lattuga, dopo aver preparato la colazione per me e mia moglie, dopo essere ritornato in camera da letto per accede al bagno, una routine che si compie ogni giorno seguendo delle regole ferree, non sia mai che io sbagli un qualche passaggio, roba che probabilmente dimostra incontrovertibilmente un mio qualche disturbo, sto seduto esattamente dieci minuti sulla tazza a leggere, sia che la cosa sia un dar seguito a una qualche necessità fisiologica, sia che non ci sia necessità fisiologica cui dar seguito, stavolta gioco la carta del impudico per infastidirvi, ho fatto discorsi troppo intimi per lasciarvi accedere per troppo tempo nel mio parco giochi privato, fuori tutti), stamattina, mentre ero seduto sulla tazza del cesso leggendo il giornale, Dagospia, ho scoperto che c’è in America, intendendo con America gli Stati Uniti d’America, sono pur sempre italiano e in quanto italiano figlio di una cultura occidentale che questo comporta, stamattina, mentre ero seduto sulla tazza del cesso leggendo il giornale, Dagospia, ho scoperto che c’è in America un sacerdote piuttosto popolare su Tik Tok, Gerald Johnson, ignoro se in America i sacerdoti si chiamino don o padre, da noi la distinzione è usata per indicare rispettivamente preti e frati, e a dirla tutta ignoro pure se sia un prete cattolico, protestante o di una delle tante chiese locali, Johnson è del Michigan, che in America pullulano, stamattina, mentre ero seduto sulla tazza del cesso leggendo il giornale, Dagospia, ho scoperto che c’è in America un sacerdote piuttosto popolare su Tik Tok, Gerald Johnson che ha pubblicato un video con quasi quattro milioni di views nel quale racconta di una sua esperienza all’inferno, esperienza ovviamente infernale. È successo che Johnson ha avuto un infarto, quindi è per qualche istante morto. Invece di vedersi dall’alto, come è capitato a volte a chi è entrato in coma, tutti avremo sentito qualche storiella a proposito, o di vedere la famosa luce in fondo al tunnel, Grey’s Anatomy ci ha costruito su metà della narrazione della stagione che ha dovuto rivedere durante la pandemia, con Meredith che se ne stava in una spiaggia che era appunto questo luogo di premorte, per intendersi, lui, padre Johnson, lo chiamo padre così, per ricordare costantemente che parliamo di un religioso, è finito all’inferno. Immagino ci sia rimasto da cazzo, e lo immagino perché il pezzo su Dagospia lo dice chiaramente, riportando sue parole a riguardo. Come, si è detto il sacerdote, ho dedicato la mia vita a Dio e finisco all’inferno? La spiegazione, ha spiegato sempre padre Johnson, sarebbe da scovare in certa sua rabbia provata verso chi gli aveva fatto del male in Terra, sarebbe stato Dio a dirglielo direttamente una volta tornato in vita, vedi tu a serbare rancore? Comunque, non è dei motivi per cui padre Johnson è finito all’inferno che voglio parlarvi, ma di quel che lì, all’inferno, che per la cronaca padre Johnson dice si trovi al centro della Terra, come in un romanzo di Jules Verne, ha trovato. Scene infernali, è evidente. Uomini portati al guinzaglio da demoni, col corpo costantemente in fiamme. A proposito della parola demoni, il fatto che la si possa pronunciare con doppio accento, dèmoni o demòni, a seconda che la si faccia derivare da demone o demonio, fa molto ridere i miei figli, che mi prendono in giro per il mio usare la parola demòne, fine della parentesi massimalista. Arriviamo al dunque, padre Johnson si è ritrovato all’inferno, infartuato in Terra, all’inferno che si trova al centro della Terra e ha scoperto che una delle peggiori torture cui gli umani che si sono comportati male in vita sono sottoposti è il sentire costantemente brani pop intonati da un gruppo di demoni, una sorte di cover band residente da quelle parti. Le canzoni indicate nel video da padre Johnson, questo mi ha colpito, e mi ha colpito talmente tanto da scriverne ormai da duemiladuecentodieci parole, sono Umbrella di Rihanna e Don’t Worry Be Happy di Bobby Mc Ferrin, padre Johnson non specifica se anche nel caso dei demoni quest’ultima sia cantata a capella o con accompagnamento musicale. Ora, lasciando da parte il paradosso di usare una canzone che invita a non stressarsi troppo come quella di Bobby McFerrin come punizione infernale per la vita eterna, evidentemente il diavolo ha un gran senso dell’umorismo, io vorrei concentrarmi un attimo su Umbrella di Rihanna, intonata in stile karaoke per punire i peccatori destinati alla dannazione. Rihanna è Rihanna, una delle popstar più amate al mondo, di quelle che fanno miliardi di stream, che hanno centinaia di milioni di followers, solo su Instagram ne conta oltre centotrentanove, una popstar che ha fatto della sensualità e quindi della provocazione uno dei suoi punti di forza. Quando, parliamo di una vita fa, uscì il suo album A Girl Like Me, anno del Signore 2006, trainato dal singolo S.O.S., per dire, cominciò a girare insistentemente una voce tra gli addetti ai lavori che voleva che la nostra si fosse tatuata due piccole S proprio lì dove non batte il sole, questo mio non citare esplicitamente il buco del culo doveva essere un fingere pudore, ma quel che sto per dire di pudico non ha nulla, non vedo perché dovrei star qui a allestire inutili teatrini a beneficio non saprei dire neanche di chi. Esatto una S, il buco del culo, un’altra S, a simulare proprio il titolo del suo singolo, vedi tu a cosa arriva la fantasia degli artisti, vedi tu se Rihanna non sa come provocare le fantasie dei suoi ascoltatori. Che la cosa sia vera, verosimile o del tutto inventata poco conta, credo, il fatto stesso che una voce del genere sia circolata, quindi sia stata ritenuta credibile da un tot di persone che il suo stesso mondo, in scala ovviamente ridotta, frequentano, ci dice però molto sulla sua allure, su quel che il suo nome evoca. L’idea che quindi sia usata per andare a colpire al cuore chi è destinato a passare la propria vita eterna tra fiamme e torture ci sta, meno che a farlo non sia direttamente lei, che so?, un farla vedere senza però averne accesso, tentazione che si fa carne, o, peggio, il trasformarla al momento del contatto carnale in un mostro, inventarmi torture non è esattamente il mio forte, ma l’idea che sia la sua Umbrella, grande canzone pop, ma sicuramente non la più sexy del suo repertorio, e neanche la sua più diabolica, mi lascia davvero perplesso, e dire che lei, originaria delle Barbados, spesso si è fatta vedere nei discinti abiti folkloristici della sua terra, mentre si abbandonava a feste e riti assai poco attinenti alla religione cristiana. Certo, se all’inferno padre Johnson avesse ascoltato musica death metal, noise o comunque qualcosa di ascrivibile al campo del rumore, del fastidio, del turbamento, avremmo detto che era tutto un po’ troppo scontato, seppur un brano come Black N° 1 dei Type O Negative, lento e tormentato, la voce del compianto Petere Steele a scavare nei meandri del nostro e del suo lato oscuro, rende bene l’idea del Male, senza bisogno di citare Robert Johnson che vende l’anima al diavolo in un crocicchio del sud degli Stati Uniti per imparare a suonare il blues, senza citare i messaggi nascosti dentro certi brani, messaggi ascoltabili solo mandando i vinili al contrario, senza citare il rock come massima incarnazione della musica di Satana, ma Umbrella di Rihanna, diciamocelo onestamente, nessuno lo avrebbe mai identificato come ipotetica colonna sonora dell’inferno, men che meno cantato al karaoke da un gruppo di poveri diavoli.
Chiudo, quindi, giusto per bilanciare il discorso fatto fin qui, un discorso che è partito dal mio vissuto personale, ha parlato di fede, di musica, di linguaggi indecifrabili e di parecchie altre cose, citando proprio la copertina di un album dei Type O Negative, scioltasi nel 2010 dopo la morte, ufficialmente per un aneurisma, ma molti sospettano per suicidio, del leader Peter Steele, morte più volte annunciata in precedenza erroneamente, poi purtroppo arrivata, chiudo citando la copertina di The Origin of the Feces, quella sì disturbante come uno sarebbe portato a immaginarsi l’inferno. Una foto brutta, sgranata, che mostra quel che il titolo indica, didascalicamente, senza però che questo comporti nulla di neanche vagamente fascinoso, solo una foto brutta, volgare, a suo modo anche violenta. Una foto, ma non credo serva sottolinearlo, per la quale, se è vera la storia dei tatuaggi, non ha posato Rihanna, non si vedono S intorno a quella O naturale, e comunque ai tempi dell’uscita dell’album Rihanna era una bimbetta, che orrore anche solo l’averlo pensato e, ora, averlo fatto pensare anche a voi. Vuoi vedere che padre Johnson non si è in effetti inventato proprio nulla?