Pratico smart working dal 2005. Quando, in sostanza, si diceva che lavoravi a casa, senza tirare in ballo l’inglese e soprattutto senza scomodare a sproposito la parola smart. Mi gestisco, questo mi piace raccontare, il mio tempo, decidendo quando scrivere, quando leggere, quando ascoltare musica. Nei fatti lavorare a casa equivale, almeno per chi fa il mio lavoro, con lo stare suppergiù sempre accesi, il tempo che non si dedica al lavoro lì a fare cose per casa, per la famiglia, quasi mai per sé. Del resto è un lavoro che in qualche modo mi sono scelto, non è che questa possa essere letta come una lamentazione. È più una constatazione amichevole, termine che però si utilizza in genere quando si ha un incidente, mica a caso. Sto in casa e lavoro, con le variabili del caso che possono essere incontri in presenza, ormai rari, concerti, interviste in presenza, appuntamenti vari, master class. Ma è di quando sto in casa che voglio parlare adesso. Siccome scrivo di musica, o prevalentemente di musica, perché magari non sembra, ma anche adesso, per certi versi, parlo di musica, e siccome scrivere di musica, specie farlo per il web, che è un posto interessante e tutto, ma dove la distrazione è sempre lì dietro l’angolo, per non far confusione dentro la mia testa non ascolto musica mentre lavoro. O meglio, non ascolto musica mentre scrivo, perché per me ascoltare musica è quasi sempre un lavoro. Ma se scrivo no, non ascolto musica. Siccome però lavoro in casa, e ultimamente in casa c’è sempre qualcuno, tipo mia moglie che invece fa smart working, anche se nel suo caso sarebbe work at home, nel senso che lo smart working credo sia altra cosa, per non farmi distrarre dalla sua voce, è spesso in call, o da altri rumori di fondo, metto una serie tv o un film nel tablet, che sta alla mia sinistra sul tavolo dove lavoro al PC. Una sorta di accompagnamento distratto, al punto che mi capita di andare a selezionare una serie, magari anche di diverse stagioni, salvo poi scoprire che l’ho già vista, senza ricordarmene nulla, perché quando scrivo scrivo, non guardo le serie tv, loro stanno lì come fossero un paio di cuffie che eliminano I rumori esterni. Nell’ultimo mese, ovviamente, le serie tv sono state in parte sostituite dalle partite dei mondiali di calcio. Lo so, il Qatar è una nazione che ha costruito gli stadi sul sangue degli schiavi, e so anche che quel sangue è stato in parte permesso da nostri politici, ho letto tanto a riguardo e ho letto le proteste di quanti dicevano che era necessario boicottarli, ma il calcio moderno è in buona parte proprietà degli emiri, e non mi sembra di aver letto di boicottaggi riguardo la Champions League, la Premier League o affini. Poi, so anche questo, far finta che un boicottaggio sia ininfluente è come rendersi in qualche parte partecipi di quello scempio, ma mi sfugge in cosa il mio non vedere una partita, o tutte le partite, avrebbe potuto riportare in vita quei seimila cadaveri, quindi ho visto quasi tutte le partite. O meglio, quasi tutte le partite sono state trasmesse anche sul mio televisore, per le partite ho lasciato da parte il tablet, anche se poi dire che le ho viste equivarrebbe a dire, che so?, che ho realmente visto The Sinner, serie che ho seguito per tutte le sue quattro stagioni, ma di cui non so praticamente nulla. Giusto alzavo la testa se sentivo qualche commento eccessivo di Adani, ma non è di lui che voglio parlarvi, non qui e non ora, o se capivo che era stato fatto un goal o una azione particolarmente importante. Per farvi capire, mi sono perso dei goal, anche belli, li ho poi visti nei replay, perché ero preso da quel che scrivevo, o magari ero al telefono, quindi questo è stato il mio modo di vedere I mondiali, ciò detto ho seguito tutte le partite in cartellone, tranne ovviamente quelle che andavano di scena in contemporanea.
Non ho però visto la finale, perché domenica pomeriggio ero al Teatro Lirico dedicato a Giorgio Gaber, per seguire l’ultima tappa milanese, per ora, di Casanova Opera Pop di Red Canzian, un lavoro davvero notevole che avevo già visto l’inverno scorso, quando era arrivato per la prima volta in città, e che sono tornato a vedere con piacere. Per più di un motivo. Primo, perché a febbraio scorso Red Canzian non c’era, ricoverato per una brutta infezione al cuore, ricorderete. Secondo perché mi era molto piaciuto, ho già raccontato di aver seguito passo passo la gestazione di questa vera e propria opera pop, non tanto un musical, e rivederlo mi faceva proprio piacere. Infine, e potrei anche andare avanti, perché sapevo, e ne ho avuto conferma, che questa nuova versione era appunto una nuova versione, migliorata nei passaggi tra una scena e l’altra, nell’uso delle luci, sempre impeccabile nell’interpretazione e notevolissima per le musiche, del resto Red è Red mica per caso. Il fatto che io abbia scelto di andare a vederla proprio in concomitanza con la finale dei mondiali non è un gesto da tasso del miele, quale in genere sono, ho avuto modo di raccontare come io abbia intenzionalmente scelto di non vedere la finale dei mondiali del 1994, il calcio contemporaneo mi faceva orrore all’epoca, un po’ anche adesso, andando invece a vedere a un cinema all’aperto il Film rosso di Kieslowski, ma stavolta è un’altra partita, sono invecchiato e non pratico più gesti altrettanto punk, almeno non sempre. Ho scelto domenica perché questa è stata una settimana particolarmente impegnativa, iniziata col bellissimo concerto di Rancore al Fabrique, lunedì, e poi proseguita con impegni vari, comprese pizzette di classe e recite natalizie dei miei figli piccoli, ormai in prima media. La domenica mi sembrava la soluzione migliore. Certo, ho poi scoperto che era il giorno della finale, e mi sono detto, e chi se ne frega, l’arte e l’amicizia, Red è un mio amico, sì, vengono prima. E confermo. Poi ho scoperto che la finale era di pomeriggio, alle sedici, e mi sono detto, beh, prendo capre e cavoli, vedrò la finale e poi la sera andrò a vedere Casanova Opera Pop. Invece no, di domenica a teatro ci si va di pomeriggio, quindi niente finale, e va bene così.
Mi sono davvero goduto questo gioiello, che mi auguro abbia successo in tutto il mondo, e da quel che so così sarà nei prossimi mesi, e poi mi sono incamminato verso casa, poche fermate di metropolitana tra me e il Lirico. In metro ho seguito Il primo dei tempi supplementari, perché una volta uscito ho scoperto che la finale era stata una specie di partita mitologica, goal su goal, Messi vs Mbappé il leit motiv principale. Sono arrivato a casa per il secondo tempo dei supplementari, devo dire avvincente, e poi mi sono visto I rigori. Non avevo una squadra preferita, perché come sempre ai mondiali avevo tenuto per Uruguay e Inghilterra, titolari del calcio che più amo al mondo, con un tifo blando per il Marocco nelle fasi finali, vuoi per la simpatia antileghista che nutro da sempre, vuoi per la favola della piccola squadra che potrebbe anche farcela. Tra Argentina e Francia, sulla carta, avrei dovuto tifare Argentina, perché la Francia è la Francia, e seppur io rifugga ogni rigurgito nazionalista, anzi, mai tifato davvero Italia in vita mia, il calcio italiano mi fa sufficientemente orrore, I francesi sono oggettivamente lontani dal mio modo di intendere il calcio, ma Adani ha fatto il miracolo, e anche Messi, spingendomi a sperare che vincesse la Francia. Che poi ha però perso. Messi, dicevo. Ecco. Che Messi sia oggettivamente un mostro di bravura non serve certo sia qui io a dirlo. È oggettivo. Che però, al contrario di quel che dice Adani, appunto, sia per me l’incarnazione della non gioia del calcio è altrettanto cassazione. Lo vedi e non godi mai, perché è mesto, perché è arrogante, sì, io adoro gli arroganti, da Bob Dylan a Zlatan Ibrahimovic, per dire, ma non gli arroganti che sono arroganti in quel modo lì, gli occhi tristi, le linguacce. Provo, e suppongo la cosa potrebbe risolversi semplicemente non guardandolo giocare, cosa che accadrà da ora in poi, una forte antipatia nei suoi confronti, come la provo nel vedere Cristiano Ronaldo. Da una parte c’è un talento immenso, naturale, dall’altra anche una sorta di nevrotica volontà di perfezionarsi, ma in entrambi I casi, parare mio, manco il guizzo geniale della rockstar, quello che aveva ovviamente Maradona, non dico nulla di straordinario, ma, per farvi capire, anche un Edilson, l’ala brasiliana talmente fissato coi dribbling da finire quasi sempre per perdere la palla da qualche parte presso la bandierina del calcio d’angolo. In questi giorni si è molto parlato di Maradona, a mio avviso a sproposito. Le classifiche dei migliori di sempre, quando questi migliori non hanno giocato nelle stesse epoche, lasciano sempre il tempo che trovano, perché non si ha evidenza di come queste eccellenze avrebbero potuto fare fossero nate in altre epoche, Messi ai tempi di Pelè, Maradona oggi, e via discorrendo, ma il calcio è un gioco, ci sta pure. Si è detto che se Messi avesse finalmente vinto un Mondiale, di più, se lo avesse vinto trascinando la squadra alla vittoria, allora sì che sarebbe stato anche lui al livello di Maradona, escludendo quindi d’ufficio da qualsiasi classifica chi, penso a Haaland, o penso a Ibrahimovic, appunto, per sfiga personale sia nato in un posto dove quelle possibilità sono precluse in partenza. Poi succede che Messi trascini in effetti l’Argentina alla vittoria, nonostante Mbappè e la sua tripletta, nonostante la vittoria sia arrivata ai finali, dopo un mondiale, diciamolo, non esattamente avvincente sul piano del gioco, per quel che ho visto alzando la testa dalla tastiera, mentre scrivevo, e Adani si è messo a piangere dallo studio Rai nel Qatar, la pochette dell’albiceleste fuori dalla tasca della giacca (Pensando a lui, Adani, tenuto in panchina dalla RAI durante la finale, probabilmente anche per le troppe critiche ricevute per il suo tifo esagerato, mi è venuto in mente un gesto, che poi Emiliano Martinez, portiere dell’Argentina, ha fatto durante la premiazione, ci arriviamo). Uno spettacolo inverecondo, ovviamente, perché chi fa telecronaca dovrebbe appunto essere neutrale, e perché, soprattutto, I tifosi si pagano le partite che vanno a vedere, non vengono pagate per andarci. Ma non è di Adani che voglio parlare, ripeto. Poi arriva la premiazione, quella che dovrebbe accertare l’ascesa definitiva di Messi, lì a fianco del padre, Diego Armando Maradona, tutta Napoli ha tifato per loro, come sempre dal 1990 in poi, e succede l’irreparabile. L’emiro che lo deve premiare, Tamim bin Hamad Al Thani, che deve premiare Messi capitano dell’Argentina, lo sottopone a un atto di sottomissione, oscurando la maglia albiceleste che ha fatto tanto piangere Adani, con una mantellina nera. Una vera sottomissione, appoggiare il mantello nero detto Bisht sopra la maglia del vincitore, o meglio, l’affermare che a vincere sono stati loro, gli emiri, il denaro, I petroldollari che in effetti si sono comprati prima il Mondiale, e poi sia Messi che Cristiano Ronaldo. Non è certo un caso che un francese che la sa molto lunga, Michel Houellebecq, abbia intitolato proprio Sottomissione il suo romanzo in cui parla di Islam, e lungi da me ora andare a tirare in ballo l’Islam, per dirla con Charlie Hebdo ho lo champagne, certo, ma, per dirla con Maurizio Costanzo, preferisco vivere. Vedere Messi sottomesso agli emiri, lui che sarebbe dovuto diventare Maradona, il Maradona ostile alla Fifa, e per questo punito, c’è chi dice al pari di un Pantani proprio fatto fuori, con metodi un po’ meno radicali, il Maradona che probabilmente con quella mantella nera, segno di sottomissione, ci si sarebbe pulito il culo, o appunto se la sarebbe portata sul pacco, come Emiliano Martinez ha fatto col premio ricevuto quale miglior portiere della manifestazione, una mano usata come fosse un dildo, viva l’eleganza, nel caso di Maradona sì che avrebbe avuto un senso. Del resto, sempre restando in Argentina, c’è stato un capitano che ha fatto qualcosa del genere, quando l’albiceleste ha vinto in casa I mondiali del 1978, mondiali anche quelli macchiati di sangue, chissà se lì qualcuno ha proposto di boicottarli, io avevo nove anni, non ricordo, il capitano Mario Kempes, una sorta di rockstar coi capelli lunghi e I piedi buoni, si rifiutò di stringere la mano al generale Videla, gesto eroico che gli costò una sorta di fatwa in patria. Ecco, Maradona, Kempes, direi che questi sono giocatori che io associo alla gioia di scendere in campo, Messi è quello che ha lasciato che una vittoria fosse coperta da una mantellina nera, e più che altro da fantastilioni di petroldollari. Per la cronaca, Houellebecq non ha mai vinto il Nobel, pur essendo uno dei più grandi scrittori viventi, lui una mantellina nera sulle spalle non se la farebbe di certo appoggiare.