Scrivere il diario dei giorni del Premio Bianca D’Aponte è praticare un genere a se stante. Perché il Premio Bianca D’Aponte è un premio a se stante. Anzi, è molto di più di un premio, non scherziamo, quindi scrivere il diario di questi giorni aversani, è a Aversa che il Premio Bianca D’Aponte si svolge, è provare a riportare su pagina, anche una pagina virtuale come quella che state leggendo, un mondo che difficilmente potrete incontrare, a meno che non decidiate di alzare gli occhi al cielo, strabuzzarli, e provare a vedere un po’ di magia, ma di quella buona di magia, che si può trovare tra le stelle. Perché il Premio Bianca D’Aponte, lo scrivo con tutto il pudore che riesco a esprimere, probabilmente troppo poco, quindi chiedo a voi che leggete lo sforzo di metterci tutto il resto possibile, nasce da un dolore indicibile, la perdita di una figlia, quella Bianca D’Aponte, promettentissima cantautrice che ha lasciato questo nostro mondo di carne, ossa e sangue decisamente troppo presto, specifico carne, ossa e sangue perché in realtà, lo vedremo a breve, questo mondo Bianca non lo ha lasciato affatto, rendendo i suoi genitori, Gaetano e Giovanna, portatori di quel peso insormontabile che è quello dei genitori che si vedono sopravvivere ai propri figli. Un dolore, non voglio entrare in un ambito che neanche posso immaginare, solamente intuire con pudico dolore, che ha però generato una cosa talmente bella da essere a sua volta indescrivibile, generando un miracolo, il Premio Bianca D’Aponte, che vede una volta l’anno, nell’ultimo weekend di ottobre, quello già di suo piuttosto anomalo perché, come in una qualche storia magica, ci troviamo a vivere due volte la stessa ora, complice il passaggio di ora, non ho mai capito bene quella faccenda del solare e legale, un miracolo, quindi, il Premio Bianca D’Aponte, che vede una volta l’anno, nell’ultimo weekend di ottobre, un manipolo talentuoso di cantautrici onorare il talento e la breve ma importante storia di Bianca arrivando a Aversa, circondate dall’attenzione e l’amorevole cura di Gaetano, Giovanna e Genny Gatto, che insieme a Gaetano per tutto il weekend correrà come impazzito perché tutto funzioni alla perfezione, e di tutti i tanti amici del Premio che da tutta Italia corrono a Aversa, cascasse il mondo, per prendere parte a questo evento che è assolutamente imperdibile. So che sto usando un registro che difficilmente si potrebbe associare al mio solito. Non per la sintassi, quella è sempre la mia, contorta, fatta di relative e relative, non sempre diritte, fatta di deviazioni continue, quanto piuttosto per la cifra, più romantica del solito, meno ironica, meno “cattiva”, ma impossibile essere altro che romantici in questo contesto, perché il Premio Bianca D’Aponte, non è di me che devo parlare, è il solo premio che mi sia mai capitato di frequentare, nel quale chi partecipa in gara, che brutta parola da associare a questa magia, o in giuria, anche qui, giuria fino a un certo punto, abbandona del tutto qualsiasi spirito legato alla parola competizione, sostituendolo con la parola famiglia, o se si vuole ancora essere pudici, amicizia. Perché chi viene e poi ritorna, tutti ritornano, al Premio Bianca D’Aponte, io per essere qui mi sono fatto questo tragitto tra giovedì e lunedi, Milano-Bellaria, via Bologna, ero lì il 27 a fare una masterclass al Rumore BIM Festival, di cui vi parlo altrove, poi il 28 Bellaria-Bologna, via Rimini, e poi Bologna- Napoli Afragola, a Aversa in auto, per poi fare il giro inverso il 30, Napoli Afragola-Bellaria, via Bologna e Rimini, per la finalissima del Rumore BIM Festival, e poi il 31 Bellaria-Milano, via Rimini, venticinque ore spalmate su dieci treni in cinque giorni, ma quanto ne valeva la pena, chi viene al Premio Bianca D’Aponte e poi ritorna, tutti ritornano, si dice sia un “amico del Premio”, ma io non mi sento affatto amico, mi sento fratello, mi sento sorella, quel che è, ma parte di qualcosa che è fatto, torniamo indietro, di carne, ossa e sangue, come se per due giorni fossi diventato una mano, un piede, un orecchio. E mani, piedi e orecchi sono sempre impegnati al Premio Bianca D’Aponte, perché per un weekend, sfido io a viverlo diversamente, si continua a abbracciare fraternamente chi si incontra, gli altri amici o fratelli, fate voi, si cammina in giro per Aversa, città accogliente che ospita il Premio, nella cornice, così si dice, strepitosa del Teatro Cimarosa, ma anche negli hotel e ristoranti e rosticcerie e bar della città, e poi, va beh, è un posto che vede delle cantautrici venire a far sentire le proprie canzoni, figuriamoci se non si diventa orecchi, un po’ tutti quanti. Non le ho ancora citate, le cantautrici, io che passo tutto l’anno a parlarne, è noto, e che qui sono stato chiamato da Gaetano, dopo anni che accampavo scuse, scuse reali, sia chiaro, ma tenute su anche un po’ da quel mix di pigrizia, Aversa non è così vicina a Milano, e pudore, quel dolore mi ha fatto a lungo paura, e che qui sono stato chiamato da Gaetano proprio perché sono quello del Festivalino di Anatomia Femminile, anche quest’anno il mio Festivalino si è animato di cantautrici che hanno partecipato, quest’anno o in passato, al Premio Bianca D’Aponte, e proprio chi ha vinto questa diciottesima edizione è prima passata da me, quando ancora si chiamava col suo nome all’anagrafe, in una fratellanza, siamo sempre lì, fatta di carne, ossa e sangue, siamo sempre lì. Non ne ho ancora parlato non perché le cantautrici non siano centrali al Premio Bianca D’Aponte, lo sono e non potrebbe che essere così, ma perché sto provando a portarvi, e lo sto facendo con il solo mezzo che ho a disposizione, le parole e questo mio uso personalistico che sono uso farne, dentro questo anomalo, e magico e empaticissimo luogo magico che è, appunto, il Premio Bianca D’Aponte, dove le cantautrici, tutte, non entrano in competizione tra loro, ma fraternizzano, parola forse patriarcale, dovrei chiederlo a chi ne sa più di me, ma mentre mi è chiaro che il matriarcato non è poi l’opposto del patriarcato, mi sfugge se esiste il termine sorellizzare, laddove in italiano siamo usi, patriarcalmente parlando, a usare la parola fraternizzare. Comunque le cantautrici, quest’anno ce n’erano undici in gara, Dio che brutta parola legata al Premio Bianca D’Aponte, assolutamente fuoriluogo, come chiamare il gol che Maradona ha fatto all’Inghilterra, quello in cui si è scartato mezza squadra, un goal, punto e basta, quest’anno ce n’erano comunque undici lì al Premio Bianca D’Aponte, e le abbiamo viste tutti, tutti noi amici e fratelli del Premio Bianca D’Aponte, stare insieme in giro per la città, sedute a tavola al ristorante, i pranzi e soprattutto le cene del Premio Bianca D’Aponte sono una parte portante di questo weekend, l’inizio affidato sempre e immancabilmente a una mozzarella di bufala, prova provata, ce ne fosse bisogno, che Dio esiste e non è intollerante al lattosio, e che poi va avanti per ore e ore, le cene iniziano dopo la fine delle due serate, quella del venerdì riservata alla presentazione delle undici cantautrici, di solito però sono dieci, con un brano che non è poi quello che si sentirà nella finale, come un farsi vedere da una prospettiva differente, lì sul palco dove vengono introdotte dai due presentatori, quest’anno Daniela Esposito e Ottavio Nieddu, l’Eminem dei presentatori, credo sia in grado di dire lo stesso numero di parole che ho scritto fin qui, per la cronaca millecentoquarantotto, questa è la millecentoottantatré, senza mai prendere fiato, infilando molti più aggettivi di quanti io e un buon dizionario dei sinonimi saremo mai in grado di trovare, e con questa siamo a millecentoottantuno, lì sul palco dove vengono introdotte, quindi, dai due presentatori, quest’anno Daniela Esposito e Ottavio Nieddu, e dove poi arriveranno i primi ospiti, quest’anno Giuseppe Barbera, che al piano ha fatto una lectio magistralis sulla parola di Mogol, suonando invece che cantando, Sorah Rionda, vincitrice all’ultimo Premio Andrea Parodi, gemellato con il Premio Bianca D’Aponte, la sezione internazionale del premio aversano, un Pacifico in splendida forma, e quando mai Pacifico non è in splendida forma, una delle nostre eccellenze per quel che riguarda la scrittura, e non sto parlando solo di quella di canzoni, l’uomo che meglio riesce a mettere eleganza tra note e parole in Italia, oltre che una delle persone più sottilmente ironiche di cui abbia memoria, e un Niccolò Fabi, legato a Gaetano e Giovanna da una sorte comune, in grado di togliere a tutti presenti la pelle senza però farci sentire lo sgomento del dolore, trasformandolo, miracolo che a lui come a Gaetano e Giovanna è riuscito, in qualcosa di amorevole e magico, oltre che la presenza di Isotta, vincitrice della scorsa edizione con Io, e dei ragazzi del Liceo Cirillo di Aversa, che hanno interpretato una delle canzoni di Bianca. Oh, sono arrivato a milletrecentoottantadue, Ottavio probabilmente ancora non avrebbe preso fiato, io ho ovviamente più volte perso il filo, e non è certo mia intenzione tornare indietro per provare a ritrovarlo, mi sto piacevolmente perdendo e spero perdendo con voi dentro tanto amore. Parlavo delle serate, credo, quella del venerdì con le seconde scelte delle cantautrici, che ancora non vi ho colpevolmente nominato, un vezzo, il mio, per mantenere un climax e una suspance che immagino non stia in piedi, sono nomi noti da tempo, non è che stia per svelare il finale di un giallo, quella del sabato che è stata aperta da Ferruccio Spinetti, è lui il direttore artistico del premio, arrivato a sostituire Fausto Mesolella, con cui ha condiviso l’esperienza degli Avion Travel, presenza fondamentale, quella del direttore artistico, il non citarlo non era una gaffe o una mancanza di rispetto, anche perché altrimenti sarei potuto tornare indietro e infilarlo al punto giusto, mica scrivo e voi mi leggete in presa diretta, ma non vorrei che passasse l’idea che il magico mondo del Premio Bianca D’Aponte sia un normale premio musicale, di quelli che quando ne parli parti dal direttore artistico e subito dopo dici chi ha vinto e poi le altre concorrenti, ho fatto ora il nome di Ferruccio Spinetti perché col suo contrabbasso, Dio come lo suona, e con la chitarra di Piero Fabrizi, un altro fratello del Premio, oltre che mio, credo di poter dire, e la voce di Pippo Kaballà, che del Premio è da sempre un pilastro, galantuomo siciliano con cui ho fatto, penso, tra le più ricche risate della mia vita, a cena, come in treno, spostandomi per arrivare e poi partire da Aversa, ha omaggiato proprio Fausto Mesolella, come ormai è abitudine, anche nel mondo amorevole della magia ci sono consuetudini e abitudini, da che Fausto ha raggiunto Bianca lì dove i nostri cuori continuano a battere fuori dal tempo, per poi lasciare spazio a Isotta, con la sua Io, pronta a passare il testimone a chi andrà a vincere questa diciottesima edizione, poi ci arriviamo, in buona compagnia con le altre dieci concorrenti, parola davvero inadatta all’uopo, ma tant’è, una dietro l’altra, chi accompagnata dai propri musicisti, chi dalla band residente, grandi professionisti. Gli ospiti della serata finale sono a loro volta dei giganti, parlo di cuore e talento, capaci di trasportarci in quel luogo dove le nostre umane imperfezioni ci lasciano per qualche momento in pace, le emozioni a occupare ogni nostro anfratto, gli occhi che si fanno in continuazione lucidi, come nell’arte dovrebbe pur sempre essere. In questo sabato, quindi, abbiamo visto un Raiz in acustico che ci ha letteralmente fatto accapponare la pelle, Grazia Di Michele, madrina di questa diciottesima edizione, ogni anno una cantautrice viene chiamata a vestire questi panni, accompagnando le cantrautrici in gara, Dio che brutta parola, e poi esibendosi affiancando qualche brano del proprio repertorio a un omaggio a Bianca, con la sua Respira piano, e una Simona Molinari in stato di grazia assoluto, lo dico da grande estimatore di Simona, credo la cosa sia nota, e anche da suo fortunato amico, perché condividere affetti con chi eleva l’arte è uno di quei privilegi che difendo col coltello tra i denti, con Simona ho condiviso anche pareri durante le serate, parlo di pareri sulle esibizioni delle cantautrici, con lei e con Pino Marino, giunto a Aversa come amico del Premio. E dire che mi aveva palesato i suoi timori per un calo di voce, ancora sto a piagne, per dirla alla romana, tanto mi ha spellato vivo la sua esibizione, prima La felicià, poi una emozionantissima Tutto il rumore del mondo (insieme a Tulipani cantato da Kaballà e a Andare oltre di Fabi il momento più emozionante di tutta questa edizione), Davanti al mare, e la canzone Il bagarozzo re, di Bianca. A parte la premiazione da parte della città di Aversa a una ancora pimpantissima Paola Pitagora, che poi ha anche cantato una canzone, forse dicendoci che ha fatto assai bene, nella vita, a fare l’attrice. Dovrebbe, a questo punto, essere arrivato il momento in cui io, che come un Ottavio Nieddu un po’ sfiatato sono nel mentre arrivato a duemilacentosettantanove parole, vi dica chi ha partecipato a questa diciottesima edizione del Premio Bianca D’Aponte, e chi ha vinto, andando poi magari a dirvi chi ho votato, non fosse che ho dato indicazioni di voto anche prima della gara, usando i social, dove se no?, ma in realtà non ho ancora raccontato di quella situazione familiare, anche goliardica, che si vive tutto intorno al Premio, quella di chi, per una volta l’anno, si ritrova a condividere lo spazio, nel mio caso anche parecchio spazio, e tempo con amici che poi durante l’anno magari si vedono meno, o affatto. Una sorta di gita scolastica, usiamo una espressione sbagliata, perché evoca una stupidera solo in parte giustificata, qui, ma che ti fa poi partire con un ulteriore dispiacere, quello che invece legittimamente si prova quando qualcosa di molto bello e vivo e pulsante, sto facendo Ottavio Nieddu, con insuccesso, viene a finire. Con la complice compagnia di mia moglie Marina, che non si perderebbe una edizione del Premio, lei che giustamente evita quando può di farsi coinvolere da me in situazioni lavorative, questo è però molto altro oltre che lavoro, dedicando il suo tempo solo alla parte bella, come magari i concerti di Simona Molinari, appunto, ma anche di Pippo Kaballà e di sua moglie Vincenzina, di Massimo Germini e del suo pard Paolo Marrone, che da poco hanno tirato fuori un album insieme, quel E invece non finisce mai…, di cui scriverò in altra occasione, ovviamente dicendo che è una merda, per i motivi che vi andrò a dire a breve, mettetevi comodi che non siamo ancora arrivati alla fine, come di Alfredo Rapetti Mogol, in arte Cheope, dimostratosi oltre che il paroliere che ben conosciamo, anche uno dei più abili professionisti nel campo degli scherzi, vittima proprio Massimo Germini, adesso ci arrivo, come i fratelli Federico e Gabriele Avogadro, figli di quell’Oscar che ci ha regalato alcune delle più belle canzoni italiane, a suo tempo uno degli scopritori del talento di Bianca, e loro mamma Laura, e poi Carlo Marrale, che non credo serva presentare, ma che è una delle persone più risolte che mi sia mai capitato di incontrare in questo ambiente, parlo del mondo dello spettacolo, il già citato Pacifico, Elisabetta Malantrucco, sicuramente sto dimenticando chissà quanti amici, e Saverio Lanza e Gianni Cicchi, quest’ultimo temo devastato dal casino che la nostra tavolata è stata in grado di produrre, Saverio lì a mostraci come i casino che stavamo facendo era indicato dal suo fonometro, ha una app apposita sullo smartphone, era indicata a metà strada tra il rombo di una moto e il rumore considerato oltre la soglia del dolore. Mi fermo, non è possibile dire a parole questa parte qui. Come del resto non è possibile dire della magia. In pratica il Premio Bianca D’Aponte è un fallimento, per chi come me passa la vita a cercare le parole per raccontare quel che succede. Ma va bene così. Vi basti sapere che Massimo Germini, valentissimo chitarrista, a un certo punto, proprio la prima sera, sera si fa per dire, eravamo a tavola verso le due di notte, ha goffamente colpito un calice pieno di vino rosso, gettandolo addosso a mia moglie Marina, coprendo non solo la sua giacca e i suoi pantaloni, ma anche il mio smartphone, Massimo era seduto a fianco a me. Io, un Dio benevolo ha graziato in questo caso Massimo, ero al momento altrove, perché durante i pranzi e le cene si fa un po’ come ai matrimoni, qui, si gira per tavoli a salutare altri amici e fratelli, sono tornato esattamente nel momento in cui Massimo stava asciugando con un tovagliolo il mio smartphone, pregando Marina, Pippo, Vincenzina, Paolo, nostri commensali, di “non dite niente a Michele”. Ovvio che da quel momento, pensate a quei tormentoni che si creano durante le gite scolastiche, tormentoni che al momento ci divertono molto, e cui poi pensiamo per provare a riprovare quello stesso divertimento, mentre siamo a casa, coinvolti nella nostra vita di tutti i giorni, io ho cominciato a dirgli che per questo avrei poi stroncato il suo album, raccontando di volta in volta tutte le mie stroncature più celebri, adducendo ogni volta a prova un qualche aneddoto, inesistente, che mi ha portato a scriverle, come se il mio agire fosse mosso sempre da un qualche regolamento di conti. Un refrain che ci ha fatto ridere, tanto, lasciando poi al momento del nostro ingresso a teatro spazio invece alle emozioni forti, poco prima di quella cena avevamo tutti un po’ pianto per l’esibizione di Niccolò Fabi. E proprio Fabi è stato da me usato per giocare con Massimo, quando lui ha prima parlato con ammirazione della sua esibizione, come mai si sarebbe potuto non farlo, soffermandosi sul suo stile chitarristico, deformazione professionale, e anche su quella splendida chitarra mignon che Fabi ha usato, salvo poi dire qualcosa riguardo De Gregori, che a sua volta usa una chitarra simile, qualcosa che suonava come “In braccio a De Gregori quella chitarra sembra anche più piccola, perché De Gregori è altissimo, mentre Fabi è meno alto di quel che sembra sul palco”, e Niccolò sarà alto almeno un metro e ottanta, dando a noi altri commensali il là per dire che in effetti Niccolò è una sorta di nano, guardando sotto il tavolo, associandolo a un cameriere che a stento sarà arrivato a un metro e sessanta, lo dice uno alto un metro e settantacinque, per fugare dubbi su eventuali body shaming, lui, Massimo Germini, a faticare a stare dietro ai nostri sfottò. Un clima da gita che è una delle caratteristiche del Premio Bianca D’Aponte, lo dicevo prima, il ritrovarsi tra amici, in famiglia, vivere in maniera totalizzante un’esperienza, gli aperitivi al bar o in rosticceria, mangiando quanto a Milano si farebbe in una intera settimana al ristorante, il ritorno in hotel a piedi, a tardissima notte, pur di non chiudere quella finestra spaziotemporale che dura in effetti troppo poco, io, personalmente, ci aggiungo sempre qualche chiacchiera con una mini selezioni delle cantautrici, e veniamo al premio, in effetti, quelle che mi colpiscono di più, tenendo anche conto che ogni anno ce ne sono poi alcune che già conosco, che sono passate dal Festivalino, quest’anno la bravissima Daniela Mornati, in arte Lamo, che proprio alla prima edizione del Festivalino di Anatomia Femminile per la prima volta ha cantato, lei che in genere era e è una pianista, e la vincitrice Moà, passata a Attico Monina nel 2019, quando ancora si faceva chiamare Martina Maggi, in gara con una canzone, Chiara, dedicata alla violenza sulle donne, a sua volta vincitrice anche del premio come miglior testo. Lo so, sto sputtanando un po’ tutta questa narrazione, tremiladuecetonovantasette parole fin qui, mettendo i nomi delle cantautrici alla rinfusa, e spolierando il nome della vincintrice, ma il Premio Bianca D’Aponte, oltre essere un premio, lo è, è molto altro, e parlare di vittorie e di competizione mi viene difficile, anche perché non sono mai stato uno interessato alle gare in musica e comunque mai, compresa stavolta, il mio pensiero combacia con quello delle varie giurie, comprese quelle di cui faccio parte, come stavolta. Io ho passato qualche tempo, nel pomeriggio del sabato, rubandolo al loro poco sonno, e anche al mio, con Jungle J. Anne, che poi si è presa il mio voto più alto con quel gioiello truppiano di canzone teatro che risponde al nome di Le formiche, forse una delle più belle canzoni che ho ascoltato quest’anno, in assoluto, dico, lei a mangiarsi letteralmente il palco, non a caso premiata per la migliore interpretazione, anche se io le avrei dato il premio finale, e poi con Lula, che avevo già conosciuta nel 2020 a Attico Monina, lei in gara a Sanremo Giovani con Gabriella Martinelli, e Jole, che non conoscevo ma che la sera del venerdì ha portato sul palco una canzone strepitosa, Se…, eseguita col chitarrista Leonardo Marcucci, che ha letteralmente strappato una standing ovation, la sua voce e la sua scrittura decisamente più in risalto in quel brano che con quello portato in gara, brano col quale ha comunque vinto il Premio della Critica dedicato a Fausto Mesolella (dal prossimo anno quello per il Miglior Testo sarà dedicato giustamente a Oscar Avogadro), oltre che un altro dei premi satelliti del Bianca D’Aponte, standing ovation cosa rara da queste parti. Loro quattro, Jungle J Anne con Le Formiche, Jole con Thelma e Louise, Lula con Grandine e Lamo con Soap opera si sono prese i miei voti più alti, Jungle J Anne più di tutte, e le altre a seguire, oltre la vincitrice Moà, la sua canzone a mio avviso un po’ troppo catchy per quel contesto, quell’idea di raccontare una violenza sulle donne con però un ritornello molto sanremese, lei ha in effetti una bellissima voce che ben lo sostiene, mi è parsa una scorciatoia rispetto a una scelta così personale come quella di Jungle J Anne, per dire, non me ne vogliano le altre concorrenti, Candeo con Cosa voglio da te, Giorgia Canton con Com’era avere vent’anni, Assia Fiorillo con Anna, Alessandra Nicita con Briciole, Fefe con i Giovani d’oggi, Angelae con Punto Gi, tutte meritevoli, ma che meno hanno colpito la mia attenzione, seppur la Canton ha decisamente ottime doti empatiche e Angelae ha una sua scrittura originale, la sua Punto Gi onestamente, da uomo, ho faticato a capirla del tutto (me l’ha letteralmente spiegata Simona Molinari, seduta a fianco a me in sala). Ma la gara, ripeto, è la cosa meno rilevante del Premio Bianca D’Aponte, che è l’eccellenza delle vetrine musicali disponibili oggi in Italia, grazie al lavoro di Gaetano e Giovanna D’Aponte, e di Genny Gatto, e dovrebbe essere raccontato da tutti i media e seguito da tutti coloro che amano la musica di qualità, nel suo passaggio Simona Molinari ha provato a dirlo, mentre attendeva che Ferruccio Spinetti che con lei avrebbe interpretato al contrabbasso un brano di Bianca, arrivasse sul palco, disperso nei meandri del teatro. Tornando in treno, sempre scherzando con e su Massimo Germini, che quest’anno ha vestito i panni dell’agnello sacrificale della nostra compagnia, ultimo scherzo tirato direttamente da un in formissima Cheope, tutti eravamo un po’ malinconici per questo fatto che le belle cose durano sempre troppo poco. Fortunatamente non dura poco la musica, se non andate a cercarvi Le formiche di Jungle J Anne, ovviamente, se siete discografici anche se non la mettete sotto contratto, per altro, come se non vi andate a cercare le canzoni di tutte la altre cantautrici di questa diciottesima edizione del Premio Bianca D’Apone siete bassi come Niccolò Fabi e quando meno ve lo aspettate vi arriverà addosso un calice di vino rosso, Massimo Germini, lì da qualche parte, a far finta di niente.
PS
Tremilanovecentosettantacinque parole, Ottavio Nieddu nun te temo (ora tremilanovecentoottantatré).
PPS
Nessun Ottavio Nieddu o Massimo Germini è stato maltrattato durante la scrittura di questo articolo (quattromila).