A Milano non ci sono gatti. No, attenzione, non intendo che non ci sono gatti nella città di Milano, le case dei milanesi sono piene di gatti, gatti ovunque, come cani ovunque, ma mentre i cani li vedi anche in giro, e se non li vedi vedi le loro cagate lasciate incivilmente in giro, a intervallarsi con le pisciate che i balordi lasciano in giro di notte, le macchie scure a bruciare i marciapiedi, di gatti in giro non se ne vedono proprio. Può capitare di vederne in certi locali cool, quelli dove puoi andare col tuo gatto o dove puoi andare e trovi già lì dei gatti che si aggirano tra tavoli e poltroncine, i cat bar, o può capitare di vederne in giro, rari, al guinzaglio o chiusi dentro amene gabbiette che gabbiette poi non sono, più scatole soffici con grate e molto alla moda, ma in giro niente. Almeno non nelle zone centrali e semicentrali, alle ultime elezioni ho votato anche non volendo Tabacci, non ho poi così tanto il polso della situazione sulle periferie per poter essere altrettanto categorico. Ecco perché il termine gattara ricorda dialetti di altre città. A Milano di gattare non ce ne sono. O se ci sono sono gattare che operano privatamente, un po’ come del resto funziona in quasi tutte le altre situazioni, dalla sanità in giù.
Questa assenza di gatti, volendo, potrebbe consentirmi di dire che a Milano ci sono invece parecchi topi in giro, visibili anche di giorno, ma non è di topi che mi interessa parlare, e se volete vederne nuotare allegramente in stagni e laghetti non avete da far altro che andare ai giardini pubblici, quelli incautamente dedicati a Indro Montanelli, dalle parti di Porta Venezia, non resterete delusi.
A Milano non ci sono gatti, per questo, anche per questo, quando giorni fa mi è capitato dopo quasi quattro anni di prendere un aereo e mi sono trovato a fare l’intero viaggio Palermo-Milano con un gatto seduto a pochi centimetri da me, anche lui dentro uno di questi zaini gabbiette molto cool, appoggiato sulle gambe del ragazzo seduto alla mia sinistra, fila 14 posto A, lui, posto B io, al posto F, un paio di metri scarsi alla mia destra, un barboncino dentro una gabbietta simile, solo sviluppata in orizzontale invece che in verticale, vedi tu i geni dell’ex Alitalia, non ricordo mai se ora si chiama ITA o ATA, a mettere un cane e un gatto nella stessa fila, a Milano non ci sono gatti, per questo, anche per questo, quando giorni fa mi è capitato dopo quasi quattro anni di prendere un aereo e mi sono trovato a fare l’intero viaggio Palermo-Milano con un gatto seduto a pochi centimetri da me sono rimasto molto sorpreso, inizialmente, infastidito, dopo un’ora e mezza di miagolio ininterrotto. Miagolio, per altro, intervallato dai miagolii stupidi e affatto divertenti di un gruppo di ragazzi stranieri, credo americani, che gli facevano il verso ogni volta che per una ragione a me sconosciuta il gatto smetteva di miagolare, facendolo riprendere, gli sguardi torvi di chi, non seduto a fianco a lui come me, e quindi con le palle un po’ meno usurate, continuava a dire “povero micetto, ti dà fastidio volare”, invece di dire a me “povero Cristo, ti ha rotto il cazzo quel gatto”, questo lo scenario.
Sono rimasto sorpreso e infastidito, quindi, come ci capita in genere quando ci troviamo di fronte a qualcosa di inaspettato, ero convinto che gli animali finissero in stiva, col che non voglio dire che speravo che i gatti e i cani finissero in stiva, non sono un amante degli animali domestici di quelle taglie, ho due tartarughine e un pesce rosso, w l’arca di Noè, ma non sono neanche un crudele aguzzino di cani e gatti, e disabituato a vederne in giro ho potuto osservare per un’ora e mezzo questo esemplare, bianco con macchie rosse e nere, un miagolio acuto che ti si pianta in testa come un acufene, notando come i gatti tendano a incurvare le orecchie verso dietro quando chiudono gli occhi, per dire, e che nonostante siano gatti hanno i canini particolarmente aguzzi, quando mi capita di andare a casa di amici che ne hanno, in genere, essendo gatti si guardano bene dal familiarizzare con gli sconosciuti, quasi invisibili e comunque distanti.
Superata la sorpresa, diciamo dopo circa un quarto d’ora da che abbiamo staccato le ruote da terra, è subentrato un fastidio crescente, di quelli che in genere portano a covare odi e rancori. Il ragazzo, del resto, probabilmente abituato a queste situazioni, era palesemente a disagio, gli occhi fissi davanti a sé, una mano che provava a calmare il micio dalla grata, come a dire “stai zitto, che se no finisce che le prendo”. Non essendo di quelli che trasformano il proprio odio e rancore in atti violenti, sono solitamente descritto come uno cattivo ma è più che altro una posa, o per dirla con Jessica Rabbit “mi dipingono così”, mi sono limitato a augurare al gatto qualcosa di male, senza entrare in inutili dettagli, sono abbastanza vecchio da sapere che gli auguri di tal fatta non portano a nulla di concreto, se non a un certo senso di colpa in chi li proferisce, anche solo mentalmente.
Sono atterrato, dopo un’ora e mezza di fastidio, e a accogliermi c’è stata una Milano piovosa, diciassette gradi reali, quindici percepiti. Ero partito da Marsala, dove di gradi ce n’erano ventisette, la gente al mare, io a cena fuori la sera prima in maniche corte, senza neanche la landiniana maglia della salute.
Nel pomeriggio, avendo passato i tre giorni precedenti a lavorare, mi sono preso un po’ di riposo, e mi sono visto un film su Netflix. Solitamente quando guardo una serie o un film, magari con il computer acceso davanti, dico che sto lavorando, e quasi sempre è così. Scrivo e tengo qualcosa che mi faccia da rumore di fondo lì, a lato, dentro il tablet. Al punto che quasi mai so cosa succede in certi film e certe serie tv. Ovvio, capita che io, sempre per lavoro, guardi film e serie tv, perché poi magari devo o voglio scriverne, ma insomma, tendo a associare il guardare film e serie tv al lavoro, del resto sono uno scrittore che ha votato suo malgrado Tabacci, potrò pur permettermi qualche vezzo radical chic, no?
Quel pomeriggio invece ho proprio staccato, quindi mi sono visto un film col solo scopo di riposarmi, senza avere altro da fare. Il film in questione si intitola Mr Harrigan’s Phone, e, ho letto sulle note che lo accompagnavano, è tratto da un racconto di Stephen King. Da anni non leggo Stephen King, non perché sia scesa la mia stima nei suoi confronti, continuo a ritenerlo uno dei massimi pesi del Novecento, ma perché ho quasi del tutto smesso di leggere narrativa, e quella che leggo è d’altro tipo, quindi non avevo idea di cosa parlasse. Lo dico in breve, senza spoilerare il finale, ma comunque spoilerando qualcosa, attenzione. È la storia di un ragazzino non particolarmente cool che finisce in casa di un anziano signore, ricco e piuttosto scorbutico, con lo scopo di leggergli pagine dei suoi libri preferiti. Una sorta di badante intellettuale, in sostanza. Tra i due nasce una qualche amicizia, strana come può essere l’amicizia tra una specie di nerd e un signore anziano, ricco e un po’ scorbutico. La faccio breve, il signore muore e, una volta morto, rimane comunque presente, andando in qualche modo a risolvere questioni irrisolte nella vita del ragazzo. In sostanza, ripeto, spoiler, uccide chi rompe le palle al ragazzo, avvisato dal ragazzo attraverso il telefono evocato nel titolo, col quale il ragazzo continua a parlare con lui, seppur nell’oltretomba.
Un film decisamente minore, tra quelli tratti da libri di Stephen King, seppure ci sono dentro alcune notazione a margine sull’uso degli smartphone nella nostra società che come sempre sono interessanti. L’ho finito di vedere maledicendomi, ma come potrete intuire non troppo, per aver perso due ore della mia vita a vedere un film inutile, quando avrei potuto far altro, magari semplicemente dormire. La mattina seguente, ho sì lavorato un intero weekend in quel di Marsala, ma la vita di un padre di famiglia ha obblighi che esulano da logiche troppo stringenti, mi sono come sempre alzato alle sei e quaranta e ho accompagnato i miei figli più piccoli a scuola, a Milano ha smesso di piovere ma neanche troppo.
Sulla via del ritorno ho visto qualcosa di altrettanto sorprendente, che mi ha ovviamente richiamato alla mente il film visto il pomeriggio precedente e che ora, altrettanto ovviamente vi andrò a raccontare. A questo punto, cioè prima di spiegare cosa ho visto, almeno al fine di salvaguardare la mia immagine agli occhi dei tanti che, come i miei vicini ma non troppo di aereo hanno empatizzato tutto il tempo col “povero micio” invece che con me, dovrei dire qualcosa che mi ponga al riparo da attacchi, roba tipo il dire che sono cinico e crudele, che odio gli animali o cose del genere. Dovrei farlo, anche perché non sono cinico e non odio gli animali, affatto. Dovrei farlo perché viviamo in una società che ha polarizzato i rapporti sociali, diventiamo tutti violenti con una facilità impressionante e tendiamo a contrapporci in gang su qualsiasi argomento, quello relativo al mondo animale è uno dei più praticati, ma onestamente non ho poi questo grande interesse a difendermi da chi non merita il mio rispetto, quindi vado avanti. La cosa sorprendente che mi si è parata di fronte agli occhi, su una via che non è troppo distante da casa mia, io accompagno i miei figli piccoli in auto, è il cadavere di un gatto morto, un cadavere non può che essere di un morto, è vero, ma non so se anche di un animale si dice cadavere, lo confesso, e non ho voglia di andare a controllare, né conto che ci sia qualcuno in redazione a farlo per me, comprensibilmente. Un gatto bianco, con macchie rosse e nere, esatto, giace morto sul bordo della strada, qualche viscera sparsa sull’asfalto. Una vista spiacevole, fossi cinico avrei detto sgradevole, sarete d’accordo con me, perché non vedere mai un gatto in giro per Milano e vederlo non dico per la prima volta in venticinque anni ma quasi direttamente morto non è certo piacevole, al punto che mi sorge il sospetto che il non vederne sia appunto conseguenza del traffico milanese, tutti di corsa verso affari o lavoro, addio poveri gatti. Una vista, questo il punto, ma lo avete già capito, siete gente sveglia, il micio che proprio il giorno prima ha ben visto di rompermi le palle per un intero viaggio aereo tra Palermo e Milano, sette cannoli lì tra le mie gambe, pronti per essere giustiziati appena arrivato a casa, da me e dal resto della mia famiglia, sia chiaro.
Lo confesso, il dettaglio delle macchie rosse e nere, su fondo bianco, è posticcio, aggiunto in post-produzione, diciamo così. Perché io stavo guidando, quindi non è che come succede in autostrada quando ci sono incidenti mortali, fatto che poi genera i famosi ingorghi, abbia rallentato per vedere bene il gatto morto, anche perché un gatto morto non è qualcosa di bello da vedere (ma questo è un ragionamento idiota, neanche un incidente mortale in autostrada è qualcosa di bello da vedere, ma lì scatta una certa morbosità, quella raccontata da Ballard in Crash, e evidentemente io non ho nulla di morboso da associare ai gatti o ai gatti morti). Il gatto morto in strada, vicino casa mia, era bianco con delle macchie, questo posso confermalo, ma non so se erano macchie rosse e nere, come quelle del gatto che ha causato il mio acufene in aereo. Nello scriverlo, poco sopra, ho voluto, questo sì un po’ cinicamente, voluto giocare con voi, lasciando intendere che il gatto morto fosse proprio quello, o un suo parente stretto, e volendo, questo l’aspetto che mi avrebbe dovuto indurre a dire qualcosa di empatico per salvarmi dagli strali dei gattari o comunque di chi è anche un minimo sensibile, e volendo anche lasciare intendere che il gatto dell’acufene fosse morto proprio per le mie maledizioni, esattamente come capitava ai “nemici” del protagonista del film Mr. Harrigan’s Phone, senza neanche aver dovuto far ricorso a vecchi ricchi e scorbutici morti con cui parlare attraverso un cellulare.
Fossi una persona normale, di quelle che intasano le vie di Milano e di chissà quante altre città che il lunedì mattina corrono in auto per andare in ufficio, e nel dire questo posso addirittura sembrare una Giulia Torelli che percula i lavoratori, e dire Giulia Torelli oggi fa ridere, perché nessuno si ricorderà più di chi sia, tranne i suoi oltre duecentomila followers, la merda pestata e spalmata sui social ormai passata in prescrizione, ma io non volevo affatto perculare nessuno, nessuno che non fosse me stesso, perché volevo dire che fossi una persona normale mi sarei dispiaciuto per il gatto morto, e giuro che me ne sono molto dispiaciuto e dopo un po’ me ne sarei dimenticato, troppo preso da altri pensieri, ma io proprio normale non devo essere, perché ho iniziato a pensare al gatto morto, rivedendomi davanti agli occhi la faccia del gatto dell’aereo, come fosse davvero lui, ripensando al film, e sentendomi incredibilmente in colpa, come se la sua morte, del gatto dell’aereo che invece è sicuramente vivo a casa del ragazzo in imbarazzo per avermi rotto il cazzo per un’ora e mezza, vedi tu a cosa porta una educazione cattolica (giuro che avevo scritto gattofila, pensa come sono messo).
Chiaramente, lo dico per chi pensasse che in effetti ci sia un nesso tra essere stato ammorbato da un gatto per un’ora e mezza e aver visto un gatto molto simile a lui morto in strada a Milano, città che non presenta gatti in strada neanche a pagarli oro, quello che avete appena letto è un raccontino retorico, atto a suggestionare il lettore, cioè voi, creando da una parte empatia verso un povero gatto ammorbante, spiaccicato in una strada semicentrale di Milano, dall’altra una certa antipatia per me, che di quella morte nel caso non accidentale sarei in qualche modo artefice, senza neanche avere una amico anziano, ricco e scorbutico da chiamare nell’oltretomba. Per altro, ma qui non dico nulla di nuovo, direi, i gatti erano animali venerati sin dall’antichità, penso all’Egitto, ma anche all’antica Cina, proprio perché considerati guardiani della vita dopo la vita, l’oltretomba, capaci di scacciare gli spiriti maligni con un solo sguardo e roba del genere, pensa te che doppio salto mortale che avrei potuto allestire se solo il weekend passato a lavorare a Marsala non avesse in qualche modo azzerato le mie energie. Non solo sono poco incline a tener conto, mentre scrivo, delle reazioni dei lettori, anzi, mi diverto spesso a spiazzarli, spiazzarvi, mettendomi in posizioni poco favorevoli, ma sfido anche le antiche divinità egizie e cinesi.
Tutto questo per dire che provo davvero un fastidio profondo, molto più profondo di quando un gatto, per dire, ti miagola ininterrottamente a pochi centimetri da te mentre sei immobilizzato su una scomoda poltroncina di una aereo che ti riporta dai ventisette gradi con cielo limpido di Marsala ai diciassette piovosi di Milano, ogni qualvolta qualcuno, lei per prima, definisce Francesca Michielin una polistrumentista, per non dire una direttrice d’orchestra, l’ultima volta è stata nella ridicola risposta che iniziava con quel goffo “ciao fenomeno” alla pagina satirica Giovanni All’Heavy, rea di aver sottolineato come la polistrumentista e direttrice d’orchestra Francesca Michielin non sapesse distinguere tra un fingerpicking e un tapping, lì dentro le nostre televisioni mentre conduce la nuova edizione di X Factor, lei a rispondere seriamente che ha studiato quattro anni basso in accademia, senza però imparare cosa sia un tapping, e poi si è diplomata al Conservatorio, in un corso triennale di canto jazz, non esattamente qualcosa che ti spinga poi a capire cosa sia il tapping, cosa sia il fingerpicking e cosa sia il senso dell’ironia, oltre che quello della dignità. Ecco, io provo un fastidio profondissimo, lo dico pubblicamente, ma non ho amici anziani ricchi e burberi con cui parlare nell’oltretomba, mi limito a scriverne, quando proprio non riesco a farne a meno.