Nel maggio del 1987 ho assistito al mio primo Festival rock. Non era un vero e proprio Festival rock, in realtà, quanto piuttosto il concerto degli U2 a Modena, in una delle due tappe emiliane del The Joshua Tree Tour, un concerto che però era quanto di più vicino a un odierno Festival, aperto dai Lone Justice di Maria McKey, dai The Pretenders di Chrissie Hynde e dai Big Audio Dynamite di Mick Jones, sì, proprio il chitarrista dei Clash. Un concerto incredibile, allo stadio Braglia di Modena, che vedeva un me stesso ancora non maggiorenne, per pochi giorni, avrei fatto gli anni la settimana successiva, cantare a squarciagola canzoni che sapevo ovviamente a memoria, in buona compagnia con qualche altra decina di migliaia di persone. Il programma che avevo organizzato nei dettagli col mio amico di vecchia data Luca prevedeva prima una tappa a Bologna, dal nostro altro amico Paolo, anche lui di Ancona, qualche anno più grande di noi, di stanza nel capoluogo emiliano in quanto studente universitario. Lì avremmo poi dormito finito il concerto. L’arrivo allo stadio lo avevamo fissato per il primo pomeriggio, poco prima, cioè, dell’inizio dello show. Infatti, per questo nostro essere così coscienziosamente precisi nel calcolare orari e spostamenti, abbiamo assistito alle prime canzoni dei Lone Justice praticamente da sotto il palco, a poco più di un metro dalle transenne, lo ricordo bene perché la cantante Maria McKee venne letteralmente sommersa di provocazioni di carattere sessista, con gente che provava, a volte con successo, di palparla mentre cantava vicino al bordo del gigantesco palco, e così è stato anche per la band della ex moglie di Jim Kerr, e so che dicendo questo passerò a mia volta per sessista, ma ai tempi per questo la conoscevo, avevo solo diciassette anni e venivo dalla provincia, abbiate pietà di me, moglie di Jim Kerr che fermerà l’ondata sessista infilandosi il microfono tra le gambe, a mo di cazzo eretto, invitando i più scalmanati delle prime file a attaccarcisi, amen, e poi anche del gruppo dub di Mick Jones, i peggiori del terzetto col loro suono circolare e sintetico. Un’esperienza per me, giunto lì direttamente dai banchi del classico, incredibile, musica sparata a volumi altissimi, su un palco gigantesco, in mezzo a un mare di persone. Mare di persone che, questo il punto, appena sul palco è salito Bono coi sui tre soci, ha iniziato a muoversi esattamente come il mare, ondeggiando. Io mi ero premurato di non mollare la posizione, anche quando Luca o Paolo si erano allontanati per andare a pisciare, perché avevo sentito che la sera prima, la tappa cui assistevamo era la seconda a Modena, Bono aveva invitato uno del pubblico a suonare la chitarra di The Edge in un brano, mentirei se dicessi di ricordare quale, e contavo non poco di godermi la stessa esperienza, chiamatela ingenuità giovanile. Quella sera, in realtà, Bono avrebbe fatto salire sul palco una ragazza, cui avrebbe intonato una canzone a mo di serenata, quella mia ritenzione idrica si sarebbe quindi dimostrata inutile, oltre che immagino non proprio salutare per le mie reni. Sia come sia, anche se Bono cioè avesse deciso di invitare un chitarrista anche per quella sera, non avrei avuto affatto modo di essere scelto perché quando gli U2 hanno iniziato a suonare io mi trovavo sempre in mezzo alla folla, ma a una ventina di metri dalle transenne, trasportato senza neanche poter toccare terra coi piedi, dalle onde giganti di quel flusso di umani. Qualcosa che, a ripensarci oggi, da adulto, mi fa davvero paura, l’idea di come una folla gigantesca possa essere ingestibile, potente sopra la natura, quindi pericolosa. Se ripenso che ho passato una intera giornata al parco Enzo Ferrari sempre di Modena, tanti anni dopo, nel 2017, in occasione del Modena Park di Vasco Rossi, mi chiedo davvero cosa mai sarebbe potuto succedere.
Oggi. Ho visto Trainwreck: Woodstock 99, su Netflix, miniserie di tre puntate dedicata alla folle tre giorni di musica e rabbia andata in scena nel luglio del 1999, e vedendolo mi è tornata in mente quel concerto del 1987. E non solo quel concerto.
Il racconto parte dall’idea di Michael Lang, colui che nel 1969 diede vita al primo Woodstock, e poi procede in un crescendo allegro, mostrando come stavolta al centro della scena ci fosse più il guadagno che uno spirito di amore libero anti-Vietnam, come allora, alternando punti di indubbio contatto come l’uso libero di droghe e la pratica del sesso libero e del nudismo, quest’ultimo alimentato dalla presenza costante di telecamere della Pay-Per-View, a un allarmante e insistente senso di pericolo, senso di pericolo certo raccontato ex post, quindi consci di quel che sarebbe successo, ma comunque presente.
La sera del primo giorno, quando a salire sul palco saranno gli headliner Korn, quelli erano tempi di hard rock, misto a funky e rap, vedi alla voce crossover, la folla è letteralmente impazzita, ondeggiando assai più che a Modena, erano presenti duecentocinquantamila persone paganti (per evitare l’esperienza suicida del Woodstock 94, quando la rottura delle recinzioni fece entrare un numero pazzesco di spettatori non paganti, stavolta la location scelta era una ex base militare, enorme e con alti muri a difenderla da portoghesi). Una musica, quella dei Korn come dei Rage Against the Machine, dei Metallica, dei Red Hot Chili Peppers o dei Limp Bizkit, previsti in cartellone, che aveva nella rabbia e nella violenza, sonora e verbale, un punto di forza, forse il cuore vero e proprio della poetica. L’arrivo sul palco dei Bush, subito dopo, votati a un rock decisamente meno di impatto e spigoloso, ha in effetti avuto tutto altro effetto, come ben a raccontato Gavin Rossdale, leaderd della band (per dire, lui me lo ricordo più che altro perché stava con Gwen Stefani, vedete che non sono sessista?). Calmare i bollenti spiriti deve essere stato quasi impossibile, ma a quanto pare, almeno per il momento, ci riuscirono, parzialmente, perché finito il concerto la festa, chiamiamola così, si trasferirà all’hangar dedicato al rave, dove sessantamila pazzi scatenati e nudi avrebbero dato vita a una vera e propria bolgia infernale a base di pasticche e sesso libero. Bolgia che l’indomani mattina avrebbe avuto i lineamenti di bagni chimici intasati di merda, di uno strato di liquami e immondizia che ricopriva praticamente tutta l’area e di gente strafatta buttata in terra, seminuda e a volte incosciente, incurante del cartellone del Festival che per il sabato presentava Kid Rock, Fatboy Slim e i Limp Bizkit. Spazzatura che, quando Wyclef Jean intonerà alla chitarra l’inno americano, ricoprirà anche il palco, certo l’aver invitato il pubblico a lanciare lì bottiglie di plastica non ha aiutato a mantenere l’ordine. Come non ha aiutato il caldo infernale, sempre lì, forse meglio della pioggia e il fango che aveva caratterizzato l’edizione del venticinquennale, ma comunque qualcosa in grado di contribuire al malumore della folla, letteralmente arsa viva da tutto quel cemento.
Tutt’altra situazione nel backstage, dove stavano gli artisti, dove tutto era pulito, servito e riverito, con le band e i cantanti coccolati da sponsor e organizzatori. Niente a che vedere con lo spirito di appartenenza, o con una comune matrice ideologica, uno show fatto per soldi e dai soldi guidato.
Metti sullo stesso tavolo una folla incazzata e vessata con chi ostenta la glamourness del successo e ecco che succede il patatrac, i primi a farne le spese saranno i tipi di MTV, presi d’assalto dalla gente accaldata e affamata (la gestione delle ristorazione è scandalosa, come del resto anche oggi in quasi tutti i festival in Italia). Vedere Michael Lang, bello e apparentemente ancora giovane nel 1999, invecchiato al momento dell’intervista per il documentario, morto di lì a tre mesi, che si muove sereno e sognante anche in quel delirio, lui che trent’anni prima aveva avuto una visione, rende bene l’idea di cosa il mondo dello spettacolo sia diventato nel volgere del Novecento, da una emanazione concreta della controcultura a una macchina per fare soldi sulla pelle dei ragazzi, indicazione che per altro mi sembra di poter dire nessuno ha tenuto in conto, visto come siamo finiti oggi, ventitré anni dopo.
Il passaggio in cui un allora giovane reporter racconta, alternando le immagini a quelle dei Limp Bizkit sul palco, come Fred Durst abbia letteralmente incitato duecentocinquantamila persone alla rivolta, a tirare fuori tutta l’energia negativa, a distruggere tutto, è qualcosa che da una parte impressiona, come certi documenti di guerra, dall’altra affascina, perché la violenza e la rabbia, diciamolo, non è meno fascinosa dell’amore, forse a volte lo è pure di più. Che la rivolta sia partita dai Limp Bizkit, detto en passant, impressiona ulteriormente, perché in line-up c’erano gruppi decisamente più credibili nei panni del capipopolo, ma tant’è, le parole di Fred sono state prese alla lettera e tutto distrutto, pezzo dopo pezzo. Caos, così lo descrive poi Fatboy Slim, protagonista suo malgrado di uno degli episodi più brutti di questa tre giorni, lo stupro di una ragazzina dentro un furgone portato nell’hangar rave durante la sua performance ai piatti. E in effetti, stando alle immagini, caos era.
Dal punto di vista organizzativo un vero disastro, la prova provata di una Armata Brancaleone andata allo sbaraglio e travolta dalla rabbia di una generazione lanciata senza freni in corsa contro un muro bello duro.
Muro che prende la forma del fuoco, senza neanche dover star qui a sprecarsi troppo con le metafore. Durante la performance dei Red Hot Chili Peppers, con Flea completamente nudo sul palco, a Michael Lang viene in mente di fornire al pubblico centomila candele per ricordare i caduti di Columbine e concentrare l’attenzione degli astanti sull’uso scellerato di armi negli USA, del resto Lang era pur sempre quell’hippie che aveva inventato il Woodstock del 1969, quello dell’amore e del rock. Parte Under the Bridge e la folla accende le candele, spettacolo emozionante, dopo tanta rabbia e violenza. Tutto bello, se quella folla non fosse fuoriosa per essere stata trattata per tre giorni come bestie, nella merda, letteralmente, affamati e assettati, bruciati dal sole, nella sporcizia. Dal manifestare contro le armi a dar fuoco a tutto è stato un attimo, e solo un folle non poteva capire come sarebbe finita. Un incendio in mezzo alla folla, durante il concerto di Chili Peppers. Chili Peppers che invitati dagli organizzatori a calmare la folla pensano bene di tornare sul palco e intonare un loro omaggio a Hendrix, eseguendo una infuocata versione di Fire. Ecco spuntare fuochi ovunque, incendi tra la folla che si propagano, dando vita a altri incendi, a cartellone ormai concluso, l’attesa di un superospite a sorpresa tradita dagli organizzatori. Come si dice in questi casi, la scintilla che ha acceso definitivamente la miccia, e non è neanche questa una metafora. Da quel momento è stata solo distruzione e violenza, rabbia esplosiva lasciata in libera uscita, odio puro contro gli organizzatori e, a occhio, contro tutto e tutti, mentre sullo schermo viene proiettato l’Hendrix del 1969 che suona la sua chitarra mancina. Scene degne di un film apocalittico, perché, a suo modo, di apocalissi si trattò. Distruzione e violenza, al suono di chitarre distorte e bassi pulsanti.
Non ho memoria di questi eventi, benché fossi già un giovane adulto che scriveva di musica. Non ne ho perché in quei giorni ero in viaggio di nozze in Messico, senza internet, allora, e senza troppo interesse a stare aggiornato.
Un plauso a Netflix, quella stessa Netflix che, Sandman a parte, ultimamente latita abbastanza con le buone nuove uscite, per averlo prodotto e proposto. Se nel 1969 si celebrava, inconscientemente, la morte della Summer of Love, nel 1999 si chiudeva nella devastazione un secolo come nessun altro attraversato da guerre e violenza, sancendo anche la fine, così si diceva ai tempi, del rock come musica di riferimento delle nuove generazioni. In realtà è stata solo una resa di conti tra ragazzi spremuti come limoni dall’avidità degli organizzatori e gli organizzatori stessi, e sappiamo bene come è andata a finire.
Non che quello che è arrivato dopo, a livello di Storia e anche di musica, sia anche vagamente stato meglio, ma Trainwreck: Woodstock 1999 resta un gran bel documentario, preciso e assolutamente equilibrato nell’indicare responsabilità senza nascondere niente.
Quella che però è la vera domanda che la visione delle tre ore di documentario mi lascia dentro, senza risposte, è perché oggi come oggi, in una situazione globalmente decisamente peggiore che nel passaggio tra millenni, tra crisi economica, pandemia, guerre, problemi legati al surriscaldamento del pianeta, con una panoramica disastrosa sul futuro la musica non sia in necessità o volontà di esprimere quella medesima carica di rabbia e violenza, come se il passare degli anni abbia letteralmente portato gli autori di canzoni a estromettere sentimenti come l’odio, il rancore, appunto, la rabbia, la voglia di rivendicazioni, l’indignazione dal menù del giorno, lasciando che a occupare militarmente la scena siano ben più consolatori sentimenti quali l’amore. Peggio, che a occupare la scena arrivi il disincanto, e quindi una forma neanche latente di disperazione e depressione. Parlo da boomer delle nuove generazioni, forse, ma un po’ di sana violenza, credo, sarebbe proprio quel che serve a defibrillare chi continua insistentemente a parlare di No future, slogan non a caso del punk, senza però provare una benché minima opposizione al tutto.