Il giorno in cui sono morto ho scoperto…
Mhmmmm. Credo che cominciare un pezzo, un articolo, un romanzo, quel che è, indicando come coordinate la data della propria morte sarebbe anche potuta essere un’idea interessante, ma nei fatti oggi è una trovata abusata, logora, talmente tante volte letta da risultare quasi vintage, senza però beneficiare di tutta l’amorevole partecipazione nostalgica di chi nel vintage non fa che rivedere la propria gioventù. Certo, poi far finta di non voler cominciare un pezzo, un romanzo o quel che è, iniziandolo esattamente in quel modo, come dire “non sarò certo io a dirti che sei obeso” mentre dici a qualcuno, magari proprio a me, che in effetti sovrappeso sono, che è obeso, è un’altra trovatella spiccia, di poco conto, una scorciatoia di quelle talmente battute da creare ingorghi, come certe “partenze intelligenti” che poi così intelligenti non sono. E potrei andare avanti scartando ogni volta un po’ di lato, dicendo che anche far finta di prendere le distanze dal prendere le distanze dall’aver fatto qualcosa di scontato diventa un cliché, finendo per inscenare una specie di filastrocca tipo Alla fiera dell’est, tutto bello, eh, ma alla lunga un po’ stucchevole.
Il fatto è che in effetti c’è stato un momento, neanche troppo breve, parlo quindi di minuti, non di secondi, in cui ho pensato che avrei infartuato e quindi sarei morto. E non perché io sia sovrappeso, lo sono ma non così tanto, sono a dieta e ho comunque perso un numero interessante di chili, ma perché sottoposto a una serie di sforzi cui non sono abituato, in un contesto ambientale ostile, con anche il meteo a giocare a mio sfavore, lasciamo perdere la scelta dell’outfit, aspetto che genericamente non prendo neanche in considerazione ma che, proprio per questo mio non prenderlo in considerazione si stava per rivelare fatale.
La cosa buffa, lo dico ora che in effetti ho constatato che tra il credere di stare per infartuare e l’infartuare c’è una notevole differenza, credo a occhio la medesima che corre tra il pensare di essere un talento assoluto e l’esserlo, fatto che spesso ci fa dire che una sorte avversa ci ha remato contro, che il sistema ci ha tarpato le ali, e via discorrendo, ma è molto spesso semplicemente una questione di pragmatica conseguenza meccanica tra quel che si è e quel che si ottiene, niente di dickensiano, la cosa buffa è che tutto questo, il mio star per morire di infarto in terra a me ostile, sarebbe potuto avvenire nel giorno del mio anniversario di nozze, e a causa di una scelta che si sarebbe dimostrata non tanto azzardata quanto proprio mortale da parte di mia moglie, con me cotitolare di quell’anniversario. Il che, per altro, avrebbe dato una mano notevole ai titolisti che avrebbero raccontato la cosa, roba tipo “muore di infarto durante un’escursione in montagna nel giorno del suo anniversario di nozze l’autore di Seppellite il mio cuore sul Monte Conero”.
Lo so, ho spoilerato un dettaglio fondamentale per continuare a reggere il climax di questo raccontino, questo mio posporre all’infinito il punto del discorso, tirandola discorsivamente per le lunghe, ho cioè detto, neanche troppo tra le righe, che il mio infarto sarebbe potuto o dovuto arrivare mentre stavo facendo un’escursione in montagna. E l’ho fatto, ma qui credo di avervi in parte fregati, infilando il titolo di uno dei miei ottantasei libri, Seppellite il mio cuore sul Monte Conero, titolo che mette una a fianco all’altra la parola cuore, oggetto appunto dell’infarto, e una montagna, che tecnicamente montagna vera e propria non è, il Monte Conero, fatto che potrebbe dar adito a retropensieri riguardo al mio essere amante delle altitudini, amore che aggiunto a quello per mia moglie avrebbe potuto essermi fatale. E so anche che aver scritto quanto ho appena scritto è come aver fatto un’inversione a U, indica chiaramente che quella lettura veloce e anche frettolosa del presunto titolo dei giornali riguardo la mia morte per infarto sarebbe in effetti stato fuorviante, perché, evidentemente, è scritto lì tra le righe, qualcosa non è così scontato come sembra.
Ci sarebbe anche un ulteriore aspetto, ai miei occhi, quelli del morto che racconta a ritroso la sua vita iniziando proprio dal giorno in cui ha lasciato questa valle di lacrime, citazione, assai più interessante, cioè quel detto e non detto che vuole mia moglie, che ho lasciato intendere essere in qualche modo responsabile del mio trovarmi in terra ostile, cioè nel bel mezzo di una escursione in montagna, e se non l’ho fatto abbastanza chiaramente lo sto facendo ora, con un altro trucchetto da quattro soldi, avrebbe in qualche modo e per motivi non precisati voluto liberarsi di me proprio nel giorno del nostro anniversario, roba da guerra dei Roses, il suo apparire, non citata, nel titolo che ho ipotizzavo si parla solo di me, anche se nell’occhiello, suppongo, si sarebbe fatto ovvio cenno al suo essere diventata vedova e all’essere diventati orfani di padre dei nostri quattro figli, nessun cenno al mio lavoro, se non per quel titolo di libro, la notizia di una morte nel giorno di un anniversario si sarebbe sicuramente mangiata tutto quel che ho fatto fin qui, sono pronto a scommetterci sperando di non dover mai avere controprova di questo, il suo apparire, non citata, nel titolo che ho ipotizzato in qualche modo una specie di momentaneo scagionamento da qualsiasi dubbio, per altro la morte di infarto di un ultracinquantenne sovrappeso, suppongo, non sarebbe neanche oggetto di una autopsia, storia di un delitto perfetto.
Non sono un grande esperto di scaramanzie, ma se è vero che sognare la morte di qualcuno, questo dicono, gli allunghi la vita, magari anche scrivere della propria morte sortisce effetti simili, o quantomeno stigmatizza la paura della morte, paura che, immagino un po’ come tutti, o di tutti quelli che non sono abbastanza anziani da vederla lì, a pochi passi, e di chiunque abbia convinzione, più o meno fedele alla realtà, di essere in buona salute, vallo a sapere, paura che in realtà non fa parte della mia quotidianità, se non in specifici momenti nei quali interviene una qualche fattore esterno, rischio di essere coinvolto in un incidente in auto, sono in un determinato luogo quando c’è un terremoto, sto facendo un escursione in montagna, sono vestito come se dovessi andare a prendermi un aperitivo in un locale alla moda del centro, fa un caldo becco e io sento che sto per avere un infarto, anche perché ho passato le due settimane precedenti ai fatti, stando ai meteorologi le due settimane più lunghi dalla fine dell’era glaciale, a smontare mobili e montarne di nuovi, se esiste una parte del mio corpo che non si è palesata in quanto dolorante, credo, è una parte del corpo che nel prossimo ciclo evolutiva verrà scartata dal nostro DNA, andando quindi a azionare tutta una serie di muscoli che, in genere, il mio essere uno scrittore e critico musicale, uno scrittore e critico musicale che ha fatto dello stare in casa una sorta di marchio di fabbrica, andando quindi a azionare tutta una serie di muscoli che neanche ricordavo di avere, in alcuni casi neanche sapevo di avere.
Ho chiuso il cerchio, parlo del mio discorso.
Magari, un po’ spiazzati dal profluvio di parole che ho messo su carta, carta virtuale, non ve ne siete neanche accorti, ancora non avete neanche capito bene di cosa sto parlando, ma sono partito dal mio stare per infartuare, o meglio, mentendo sono partito dal mio aver infartuato, anche se è evidente che uno non può essere morto e scrivere poi un pezzo, a meno che non sia uno di quelli che poi parla con Red Ronnie dall’altra dimensione, fatto a cui, si sarà intuito, non credo molto, ho poi messo sul piatto tutti i vari dettagli, e sono tornato esattamente al punto di partenza, come dopo aver compiuto un giro completo di pista, al momento in cui sono infartuato in montagna.
Tutto senza mani, mamma, guarda come sono bravo.
Comunque, torniamo all’incipit, al giorno in cui sono morto, per infarto, mentre stavo facendo un’escursione, non so per quale motivo ma è già la terza volta che nello scrivere escursione, automaticamente, scrivo in realtà incursione, dovendo poi cancellare e scrivere la parola giusta, credo sia il mio subconscio che mi mette in guardia ancora una volta verso le escursioni, sottolineandone gli aspetti bellicosi, indicando i pericoli, è mentre ero lì, sotto il ghiacciaio del Monte Rosa, diretto in mise da cocktail sui Navigli, scarpe da tennis a suola piatta, t-shirt bianca, io che vesto sempre di nero, niente crema solare, niente cappello, niente attrezzatura da trekking, mia moglie con un vestito largo bianco che mette in perfetto risalto i suoi capelli rossi, Tom Wolfe levate, mentre tutto intorno a noi c’erano esseri umani vestiti alla Decathlon, scarponi con para a carrarmato, bastoni da passeggio in entrambe le mani, canotte e calzoni aderenti in colori fluo, a saltare da un masso all’altro sul ghiaione sotto il rifugio Zamboni che un tempo ospitava, si chiama ghiacciaio mica a caso, il ghiaccio, esattamente in quel momento lì, quando ho sentito che stavo per morire d’infarto, nel giorno del mio ventitreesimo anniversario di nozze, lontano da quel mare che così tanto amo, quel mare che mi ha fatto scrivere Seppellite il mio cuore sul Monte Conero, penso che la sola montagna che abbia senso sia quella, il Conero, posta a creare ombra per chi va in spiaggia, non certo per arrampicarcisi su, sudando e infartuando, ecco, in quel preciso momento ho avuto una illuminazione di quelle che gli asceti in genere rincorrono per una vita, a volte anche scalando montagne, o scrivendoci su libri atti a infinocchiare i tanti che poi saltano da una roccia all’altra vestiti come pagliacci, Dio mio, come si fa a andare vestiti color fluo a cinquant’anni, a meno che non si lavori per la nettezza urbana o per l’Anas?, e l’illuminazione che ho avuto è che io, personalmente, nella vita, vorrei rifuggire la fatica. Di più, dovrei rifuggire la fatica, che io voglia o meno. E comunque, per la cronaca, voglio, sempre e comunque.
Lo dico perché, appunto, ho avuto questa illuminazione nel bel mezzo della mia escursione, illuminazione che non esiterei a definire mistica, un Saulo di Tarso che cade da cavallo e diventa San Paolo, roba del genere. Niente che abbia a che fare con voci che compaiono nel nulla, stile Giovanna d’Arco, o fiamme di fuoco che parlano indicando comandamenti da incidere sulla pietra, sia chiaro, benché lo stare sotto il sole cocente senza neanche uno straccio di cappellino avrebbe anche potuto dar vita a tali tipi di manifestazione, senza per questo voler intendere che i dieci comandamenti o la vicenda della paladina d’Orleans siano dovute a colpi di sole, sia chiaro, nel mio caso l’illuminazione è avvenuto per bocca di una signora sui cinquantacinque anni, vestita da perfetta alpinista in completo fluo, originaria di Pavia.
Un dettaglio, questo, non da poco, perché per motivi che mi sfuggono la quasi totalità delle persone che abbiamo incontrato in quel di Macugnaga, è lì che risiedevamo, erano altresì di Milano, addirittura i ragazzi del campo scuola che hanno prima animato la nostra serata, essendo a pochi metri dalla casa che avevamo affittato su Airbnb, e poi la nostra gita al Lago delle Fate, gita un cazzo, perché ci abbiamo messo non meno di tre quarti d’ora, cioè stando ai miei standard di uomo di mare tre quarti d’ora di troppo, sempre in completo più idoneo per un aperitivo in piazzetta a Capri, io che contavo di parcheggiare la macchina con le ruote anteriori direttamente dentro le acque chiare del laghetto in questione, ecco, i ragazzi dell’oratorio di cui sopra erano di una parrocchia a pochi passi da dove viviamo noi, tanti amici in comune col sacerdote che li accompagnava, col quale abbiamo passato del tempo a chiacchierare, lì, stesi su tappeti anch’essi provenienti da Decathlon, unico dettaglio in linea col luogo in nostro possesso.
La signora di Pavia, decisamente atletica, le racchette da passeggio, ai miei tempi si chiamavano piccozze, ma erano di legno con impugnatura a martello in metallo, e servivano più che altro a poterci inchiodare sul busto quegli scudetti in metallo indicanti i rifugi toccati, un po’ come le tacche sulle carlinghe degli aerei della prima guerra mondiale, a promemoria degli aerei nemici abbattuti, la signora di Pavia, dicevo, decisamente atletica, ha chiesto a Marina, mia moglie, se ci stessimo divertendo, così, come se fosse una domanda sensata, “vi state divertendo?”, immagino con quella spocchia mista a curiosità che potrebbe venire a un bagnante sulle spiagge di Lyndos, a Rodi, nel vedere un inglese ubriaco completamente ustionato dopo aver passato l’intera giornata a dormire sotto il sole cocente della Grecia, reduce da una notte brava a suon di birra e pasticche in una discoteca locale.
Domanda cui Marina, candida come il vestitino bianco da lei medesima indossato, vestitino bianco che nascondeva il suo lato oscuro di cui vi ho già messo a conoscenza, compresa l’intenzione di farmi fuori nel giorno del nostro anniversario di nozze, la montagna il suo stiletto di ghiaccio, domanda cui Marina ha risposto con grande entusiasmo, manifestando una gioia di vivere che, confesso, non la conoscessi ormai da quasi trentasette anni, quasi trentacinque dei quali passati insieme, avrei ricondotto assolutamente al sole e alla fatica, ma che nei fatti erano invece tutta farina del suo sacco. Al punto che la signora di Pavia, spiazzata, ha cominciato a chiedere da dove venissimo, e come fossimo mai giunti fin qui, intendendo suppongo, come fossimo giunti vivi fin lì, andando poi a raccontarci che anche lei e il compagno, oltre che uno sparuto gruppo di amici, tutti lì intorno a noi, tutti vestiti come provetti alpinisti, erano stati il giorno prima al Lago delle Fate, solo che, a nostra differenza, si erano fatti tre ore di camminata, scavallano non so che cima, non come noi, che avevamo lasciato, borghesi che non siamo altro, la macchina nell’ultimo parcheggio disponibile, intendendo con ultimo “il più vicino possibile”. Ovviamente non ci ha dato esplicitamente dei borghesi, e dubito che andare a spasso per montagne con indosso attrezzature costose, oltre che ridicole alla vista, possa in alcun modo dar vita a una lotta di classe, o almeno a una lotta di classe dalla quale i camminatori delle montagne escano come la classe vessata, ma il sottotesto era che noi eravamo delle merde, loro no, noi eravamo una sorta di invasori della domenica, loro i titolati a muoversi per quei lidi. Fatto che per altro mi troverebbe anche del tutto concorde, perché anche secondo me in montagna ci dovrebbe andare solo chi è attrezzato per farlo, e non sto certo parlando di andare in luoghi pericolosi, eh, parlo di escursioni fatte comunemente anche da bambini, pericolosità zero in sé, e ci dovrebbe andare soprattutto chi, come la signora di Pavia, non ha evidentemente un cazzo da fare tutto il resto della settimana, per cui va anche bene farsi tre ore di camminata per raggiungere un lago che invece ha un parcheggio a tre quarti d’ora dalla meta finale, anche se credo che le medesime conclusioni cui siamo arrivati partano da presupposti assai differenti, prospettive assai differenti.
Comunque, nel proseguire nella chiacchierata con Marina la signora di Pavia, affabile, ha raccontato che lei, il compagno e la loro piccola compagnia sono grandi appassionati di camminate in montagna, ogni weekend battono differenti cime, sempre e categoricamente a piedi. D’estate come in inverno, e che comunque durante la settimana lei, il compagno e gli altri, corrono, camminano veloce, fanno sport, insomma, si danno allo sport con una costanza che io, per dire, dedico giusto al blastare gli artisti artefici della musica demmerda, da oggi anche gli escursionisti della montagna, sport, quello del blastare, di cui sono campione olimpico con record ineguagliati e ineguagliabili.
Fin qui, direte voi, ha ragione, tutto bene, nel senso, se alla signora di Pavia, il compagno e agli altri piace correre e camminare per monti, beh, saranno anche cazzi loro. Certo, nel suo dircelo, anzi, nel suo dirlo a Marina, io stavo rantolando qualche metro più in là, colto da angina pectoris e nel tentativo di autopraticarmi una tracheotomia con una penna bic, ho visto tutte le puntate di tutte le stagioni di E.R. Medici in prima linea, Grey’s Anatomy, The Good Doctor e New Amsterdam, figuriamoci se non saprei fare una tracheotomia, e quanto alla penna Bic in alta montagna, sono uno scrittore posso non avere scarpe da trekking mentre sono a spasso per un ghiacciaio ma ho sempre con me una penna, tracheotomia atta a farmi respirare, visto l’ipoventilazione cui la fatica mista all’alta quota e alla stanchezza mi stava inducendo, nel suo dircelo era malcelato un certo senso di superiorità, come chi durante una doccia postpartita negli spogliatoi non ha difficoltà a sbatterti in faccia, questo sì metaforicamente, che ha quei venticinque centimetri di cazzo che tu, e buona parte degli esseri umani, non sapresti neanche come gestire, ma ci può anche stare che una signora di Pavia che si fa tre ore di sgambata per raggiungere un lago che, diciamolo, chiamano Lago delle Fate per infinocchiare i turisti, perché seppur bello, anche molto bello, è in realtà un laghetto artificiale che sorge a valle di un ruscello dove un tempo i minatori cercavano l’oro, fatto che ha reso la zona contaminata ancora oggi, questo lo abbiamo scoperto andando a visitare, poche centinaia di metri più su del lago, quella che non a caso è chiamata la “città morta”, le casette che furono dei minatori lì a futura memoria di che fine farà prima o poi tutta la gente come la signora di Pavia, a rompere il cazzo sul loro andare per monti ogni weekend, ci può stare che la signora di Pavia si vanti, come Peppino Tre Gambe, il tipo che faceva bella mostra di sé negli spogliatoi, figura mitologica da contrapporre a Gino con le Mutande, quello che le mutande appunto non se le sfilava neanche se costretto, lì sotto la doccia, perché di centimetri di cazzo ne avrebbe mostrati a stento cinque, ma ovviamente c’è un ma. Il ma è questo, cioè che la signora di Pavia, a un certo punto, andando oltre il consentito, se n’è uscita con questa frasetta, buttata li con nonchalance, e non fosse che eravamo in mezzo al ghiaione del ghiacciaio del Monte Rosa, con relativi echi e silenzi assordanti, tipici della natura, la cosa sarebbe anche potuta passare in cavalleria: “La nostra passione, il nostro hobby è faticare”. Così
Ora, non so come la vediate voi, ma uno può anche essere l’erede spirituale di Gandhi, fare, cioè, della risposta non violenta ai soprusi dei potenti una sorta di legge di vita, può aspirare a una pacificazione totalizzante col creato, ambire a lasciarsi scorrere tutto sulla pelle, come l’acqua fresca del ruscello di cui sopra, poco conta che quell’acqua, con buona probabilità, vi porterà a perdere nelle prossime settimane tutti i peli in corpo, glabri come le palle di Peppino Tre Gambe, trucchetto, quello delle palle senza peli, apprese, ci aveva detto, dall’intervista a non ricordo che attore porno, un albero che ha alla sua base un cespuglio sembra più basso di un albero che sotto ha una radura, e detto da uno che aveva tra le gambe una sequoia gigante degna di Yellowstone è tutto dire, e dopo i peli, probabilmente, anche le stesse palle glabre, uno può non abboccare alle provocazioni dei celerini, diamo alle cose il nome giusto, ma esiste a un certo punto un limite che non può essere superato, o a vederla con altra prospettiva, un limite che, se superato, richiede una risposta violenta di pari portata, di quelle che servono di monito per il futuro.
Sentirsi dire, mentre stai infartuando, a pochi passi, senza neanche arrecare troppo disturbo, che “la passione” della signora di Pavia, il suo “hobby” è “faticare” è qualcosa che credo avrebbe mandato fuori di testa anche un vero asceta in un qualche monastero shaolin dalle parti del Tibet, un po’ perché era evidente che se c’era qualcuno di affaticato, in quel momento, non era certo la signora di Pavia, ma io, sul punto di morire di infarto, un po’ perché, in generale, solo chi non lavora un cazzo di minuto al giorno è così sciocco da dire che ha per hobby faticare, del resto la cazzata che il lavoro nobilita l’uomo l’ha evidentemente detta uno che non lavorava, magari proprio un nobile, sorvoliamo sul lavoro che rende liberi posto proprio in quella porta lì. Avessi avuto un briciolo di fiato nei miei polmoni martoriati, non dal Covid o da altri disturbi respiratori, ma semplicemente dalla disabitudine a camminare in montagna e al camminare in montagna vestito a cazzo e sotto il sole cocente nello specifico, l’avrei indubbiamente mandata a cagare, sottolineando arbasinianamente come in effetti Voghera sia in provincia Pavia, mica per caso.
Invece questa cosa, il sentire una signora di Pavia dire che faticare è la sua passione, così, anche con l’alterigia di chi si ritiene una eletta al cospetto di chi invece è terra terra, mi ha fatto capire, appunto, che la mia passione, purtroppo poco praticata per assenza di tempo libero, è non faticare. Non solo, di guardare con sospetto chiunque inneggi ai risultati raggiunti col sudore della fronte, a forza di tenacia e allenamenti, caparbietà laddove, invece, penso sia sufficiente il talento, anche quello lasciato allo stato brado, ineducato. Come l’ippopotamo, il secondo mammifero d’acqua al mondo, il primo è ovviamente la balena, che vive buona parte della sua vita in acqua ma, tecnicamente, non sa neanche nuotare. Non per incapacità, è un ippopotamo, ma perché non gli serve, gli basta scendere sul fondo e camminare, al limite ogni tanto fare qualche salto verso l’alto per arrivare a pelo d’acqua e respirare, ovviamente non ha neanche le branchie. Vaglielo a dire all’ippopotamo che dovrebbe esercitarsi, faticare, allenarsi fino a imparare a nuotare come gli altri mammiferi che vivono in acqua. Vagli a far pesare il suo essere pigro, che dico pigro?, il suo non voler sprecare energie dietro attività che evidentemente sono evitabili. Certo, in genere dei talenti che non si sforzano di stare dentro determinati cliché, che non educano il loro talento per farsi sistema si dice che sono genio e sregoletazza, che il loro è appunto un talento sprecato. Sulla faccenda dei non talentuosi che se la sudano e che poi ottengono i risultati solo in virtù del loro essersela sudata, a volte, ci ha scritto su un classico Ligabue, Una vita da mediano, uno che evidentemente non è il mediano che ci vuole far credere, ma la storia del rock e anche quella del più innocuo pop, ma anche letteratura e arte in questo danno grandi soddisfazioni, è infarcita di talenti sprecati che, in attesa di fare una brutta fine, hanno comunque tirato fuori perle mica da ridere. In alcuni casi, neanche pochi, anche di talenti sprecati che non hanno fatto in tempo a tirare fuori perle, o che non erano in effetti abbastanza sul pezzo per saperle tirare fuori. Amen. Ippopotami che non sapevano nuotare, ma che rimanevano comunque a galla, o almeno ci provavano, e che in tutti i casi se ne sbattevano di dover per forza star lì a sbattersi al largo, potendo limitarsi a poltrire a riva, un qualche uccello esotico a togliergli insetti e zecche dalla pelle ruvida.
Non so voi, ma io tra una atletica signora di Pavia con racchette da passeggio, scarpe da trekking, canottiera fluo e pantacollant stile ciclista e mia moglie, vestita di bianco, un paio di scarpe inadatte anche a fare gli scalini che separano il portone di casa nostra dall’ascensore, non ho assolutamente dubbi su da che parte stare, poco importa se ha provato a uccidermi subdolamente proprio nel giorno del nostro ventitreesimo anniversario di nozze, in tutti i casi sarebbe stata un’uscita di scena da prima pagina. Io, come Bud Spencer, sto con gli ippopotami.