Anni fa, davanti alla scuola dei miei figli, c’è stata una rissa tra due mamme. Qualcosa di epico, non fosse che era real life, ancora più epico a partire dal fatto che una era vestita completamente di bianco, bionda, l’altra di nero, mora. Ying e Yang, insomma. Le due mamme si sono picchiate, con tanto di capelli tirati e insulti vari, a partire a un episodio accaduto ai loro figli, nello specifico una cosa accaduto al figlio di una delle due, la mamma vestita di bianco, a causa di qualcosa fatto dal figlio della mamma vestita di nero. In sostanza, e so che la cosa raccontata fa molto meno effetto che vista dal vivo, le due si sono picchiate e insultate perché un bambino di prima elementare aveva fatto vedere a un altro bambino di prima elementare un film horror, o meglio, glielo aveva suggerito, poi il bambino se lo era visto da solo, causandogli non so bene che tipo di incubi, di terrore, di angosce.
La cosa, di per sé, poteva anche essere sensata, lo stigmatizzare la visione di un film horror a quell’età, i modi, temo, hanno mandato un po’ tutto a puttane.
Quando ero piccolo io, parlo degli anni Settanta, non si poneva questo tipo di problema. Non c’era internet, quindi nessuno di noi avrebbe potuto vedere quel che gli adulti non volevano vedessimo, per vedere le prime tette ho dovuto aspettare che un ragazzo più grande della compagnia che frequentavo per giocare a pallone, rigorosamente in strada, ci mostrasse un giornaletto porno, e per altro confesso che tutto quel florilegio di cazzi, mi ha anche piuttosto infastidito, credo imprimendo una sorta di fastidio nei confronti del porno, prima estetico, poi anche ideologico, e non c’erano neanche le tv private, che in qualche modo avrebbero allentato le censure e consentito un minimo di ampliamento del panorama ottico, è lì che in seguito avrei visto i primi film horror, per dire, e anche altri paio di tette, ma nel mentre mi era capitato anche di vederne dal vivo, al mare, eh. Comunque, quando ero piccolo, di film horror più che altro se ne parlava, e già solo questo spaventava abbastanza, ricordo alla perfezione una domenica pomeriggio passata in una casa in campagna a Poggio San Romoaldo, casa di miei zii, durante la quale i grandi raccontarono con dovizia di particolari le trame dei film di Dario Argento, top di gamma all’epoca, roba da far rizzare i peli sul collo, vi garantisco, e ricordo, soprattutto, come un certo ciarlare indotto dal marketing, questo sì, provo a farci terrorizzare anche solo all’idea di andare a fare un bagno al mare, il film Lo Squalo a sbancare ai botteghini di mezzo mondo.
Sarà che ai tempi ero solito frequentare prevalentemente tre posti di mare, la Seggiola del Papa, al Passetto, la spiaggia di Marinella, a Marina di Montemarciano, e qualche rara volta Palombina, la sabbia mi faceva cagare già in giovane età, direi che di morire divorato da un gigantesco squalo tigre non se ne parlava proprio, di fatto degli squali non ho mai avuto particolare paura. A dirla tutta neanche dei barracuda, al punto che durante il viaggio di nozze, anno 1999, viaggio di nozze che si è svolto tra Messico, Guatemala e Cuba, ho fatto un lungo bagno proprio in compagnia di un barracuda, mentre mia moglie Marina e gli altri partecipanti a una gita in barca se ne stavano a fare snorkeling sulla barriera corallina. Certo, che fosse un barracuda l’ho scoperto solo in seguito, risalito sulla barca, e anche che i barracuda siano particolarmente attratti da oggetti luccicanti, come una fede nuova di zecca, ma il fatto che io sia qui a raccontarlo digitando con entrambe le mani su una tastiera, una che sfoggia ancora la medesima fede nuziale, attesta come il barracuda si sia limitato a fare il bagno con un me stesso più giovane di ventitré anni, decisamente più magro e spensierato del me stesso odierno. Sarà quel che sarà, io di fatto non ho mai avuto paura di squali e barracuda, titolari di film dell’orrore, nel primo caso, anche di notevole successo. Diversa è stata la faccenda quando al cinema, un paio di anni dopo Lo Squalo di Spielberg, è approdata L’orca assassina. L’orca, giuro, mi ha fatto letteralmente cagare addosso. Non perché il mare Adriatico ne fosse infestato, non esistono Orche assassine da quelle parti, ma proprio perché a vedere quell’Orca gigantesca, ovviamente meccanica, ma ero un bambino, che ne potevo sapere, saltare in aria, uscendo dal mare con tutta una manovra ginnica degna di nota, mi ha davvero terrorizzato. Chissà se il mio evitare di fare il bagno per qualche tempo, e il mio regredire dal ruolo di nuotatore a ruolo di, non so neanche tenermi a galla, ruolo che a fatica ho invertito da ragazzo, sia dipeso anche da quello.
Di fatto io sono stato letteralmente terrorizzato dall’Orca Assassina. E di conseguenza, almeno a livello di immaginario, l’Orca Assassina è diventata il mio Moby Dick, anche se la protagonista metaforica del capolavoro di Melville, è noto, era una balena (la mia prima casa editrice, per la cronaca, è stata la PeQuod, nome dell’imbarcazione a bordo della quale il protagonista di Moby Dick inseguiva la sua ossessione), nello specifico una balena bianca, dettagli che giustificano forse un’ossessione. Volessi giocarmi la carta della modestia, parlo di epicità e, di conseguenza, anche di calibro, potrei dire che l’Orca Assassina è diventata il marlin alla cui pesca avrei dedicato la mia vita, non fosse che all’epoca ero un bambino e non un vecchio, che di tutta la bibliografia di Hemingway Il vecchio e il mare è uno dei libri che meno mi ha appassionato, e che, diciamolo apertamente, non ho idealizzato così tanto quel mio terrore da farne una metafora della mia futura sconfitta, né l’incarnazione della mia ostinata volontà di non mollare mai, sono sempre stato dell’idea che ostinarsi a combattere i mulini a vento sia impresa degna dei folli idealisti, ma poco pratica nella vita di tutti i giorni. Credo non sia del resto un caso che proprio l’orca, anche se suppongo che non esattamente di orca si trattasse, magari più un capodoglio, o un tonno, è al centro delle narrazioni massimaliste, iperletterarie e assai pretenziose, a ragione, dell’Horcynus orca di Stefano D’Arrigo, romando mondo, ma che dico mondo, universo, che affronta il tema della vita e della morte, della guerra, del ritorno e quindi dell’assenza, mettendoci dentro qualsiasi tipo di stile e genere letterario, sommando le trame, infilandoci la poesia, i neologismi come il dialetto, i dialetti, lì, più che un’ossessione, una vera e propria contropartita all’essere se stessi. L’orca si presta a questo tipo di ossessioni, è un animale evocativo già dal nome, aspro, gutturale, mentre la balena ha un nome a suo modo rassicurante, tondo, senza spigoli, quasi simpatico. Certo, noi siamo tutti cresciuti con l’immagine della balena di Pinocchio, che in realtà nel libro di Collodi era un tonno, talmente gigantesca da ospitare Geppetto con un lettuccio e la sua scrivania illuminata da una candela, gabbia vivente dal quale lui e suo figlio riusciranno a scappare solo a causa di uno starnuto, ovvio che anche la balena abbia avuto una quale rilevanza nel nostro immaginario orrorifico, Walt Disney in questo ha fatto danni davvero notevoli.
Chi alla balena, non solo alla balena ma anche alla balena, ha dedicato un suo album è Vinicio Capossela, cantautore unico e anomalo per il panorama musicale italiano assai appassionato di animali e di bestiari, specie di quelli marini, così a occhio, viste, tanto per fare qualche esempio, le citazioni di calamari e capodogli in Canzoni a manovella, contenute nell’album eponimo, Capossela autore dell’album “Marinai, profeti e balene”, doppio cd del 2011 nel quale il nostro si lascia definitivamente andare a un massimalismo mai troppo contenuto, per altro un massimalismo assai vicino a quello di D’Arrigo, costruendo una sorta di enciclopedia mittica, dove il neologismo è a metà strada tra mitica e ittica, una prima parte dedicata agli oceani, la seconda al Mediterraneo, in una Marina Commedia, per dirla con parole sue, densa di citazioni, suoni e parole. Dentro di tutto, dai cori angelici alle Sorelle Marinetti, suoni irlandesi come strumenti tratti dalla nostra tradizione o da quelle di altri meridiani, i Calexico come il fior fiore dei turnisti italiani, la seriosità greve di brani come La bianchezza della balena, mobydickiano come non mai, e la leggerezza infantile di brani cantati in sirenese, la lingua parlata, appunto, dalle sirene, almeno quelle che abitano la testa del cantautore nato in quel di Hannover. Un disco universo, un universo marino, è evidente, che sembra voler recidere una volta per tutte, ma farà poi in tempo a tornare sui propri passi, le radici che lo volevano di volta in volta troppo tomwaitsiano, troppo legato a certa nostra tradizione meridionale, troppo gigioneggiante. Un lavoro imponente, assolutista, massimalista nel senso più ampio del termine, dove trova asilo un’idea di canzone che nulla ha a che fare con la contemporanea idea di pop, ma al tempo stesso si ascoltano melodie orecchiabili e motivetti che sarebbero potuti andar di moda nella prima parte del Novecento, il tutto in un continuo citare Omero, la Bibbia, Melville e tutta una serie di storie e leggende marinare riviste e corrette alla caposselliana maniera.
Citare Capossela e non sottolineare come in seguito la sua discografia avrà modo di confrontarsi ancora una volta col mondo animale, reale o figurato, penso all’album del 2019 Ballate per uomini e bestie, dove il continuo ricorrere a maiali o lupi, giraffe o lumache, con citazioni letterarie che vanno da San Francesco a Pietro Di Donato, le bestie citate nel titolo molto più spesso gli uomini, i poveri Cristi, almeno nelle intenzioni letterarie, un lavoro decisamente risolto, antico nei suoni e nelle melodie, contemporaneissimo nel tratteggiare il mondo dei derelitti, gli ultimi, chiamateli come volete, e penso soprattutto ai quattro componimenti, chiamarli canzoni mi viene difficile, di Bestiario d’amore, lavoro del 2020 che vede il cantautore confrontarsi con un testo di Richard di Fornival del tredicesimo secolo, il mondo degli animali tirato in ballo proprio nel titolo a rappresentare l’umanità e l’umanità a confronto col sentimento più cantato di sempre, l’amore, un poema in musica che vede Capossella affiancato dalla Bulgarian National Radio Simphony diretta da Stefano Nanni, la musica suonata e anche cantata come parte integrante del racconto, la voce a impersonare anche fisicamente le bestie messe in scena, i loro comportamenti, le loro movenze, un confronto con la tradizione trobadorica che dimostra come l’essere pop-olari a volte significhi staccarsi dalla contingenza per affondare gli stivali nella terra, tanto quanto altrove era stata la salsedine del mare a avvolgere cantante e canzoni.
Chiudo citando un passo del brano La bianchezza della balena, tratto dal lavoro del 2011, e neanche troppo nascostamente ispirato a Moby Dick, perché in quattro versi Capossela riesce a spiegarci bene come a volte quello che diamo per scontato non sia esattamente così definito e radicale come crediamo, si pensi a come nella nostra tradizione ci siamo abituati a indicare il male col nero, si tratti del lutto, del buio dell’inferno, della notte senza stelle, associando giocoforza al bianco il compito di rasserenarci, familiare e luminoso. “La bianchezza della balena, niente è più terribile di questo colore. Una volta separato dal bene, una volta accompagnato al terrore”. Sarà mica un caso che ho sempre provato paura pensando all’Orca, laddove bianco e nero convivono assai poco pacificamente?