Essere sperimentali. Quando ormai oltre venticinque anni fa ho cominciato a scrivere, a scrivere pensando che prima o poi qualcuno mi avrebbe pubblicato, o a scrivere ambendo che qualcuno mi pubblicasse e quindi qualcuno mi leggesse, credevo che essere sperimentali dovesse far parte del gioco. Credevo, cioè, che per lasciare un segno, questa era in fondo la principale ambizione, ben più di avere un pubblico, men che meno un pubblico mainstream, allora detto più semplicemente di massa, altrimenti non avrei tirato in ballo l’essere sperimentali, fosse necessario esibire un alto tasso di originalità, e l’essere sperimentali appariva ai miei occhi il solo modo per perseguirla. Stare nel flusso, seguire le mode, giocare allo stesso sport cui giocavano tutti in cosa mi avrebbe mai potuto distinguere dagli altri?
Un ragionamento provinciale, lo so, ingenuo.
Riportarlo qui e ora non ha certo lo scopo di farne un vanto, evidenziare una propria debolezza genera sicuramente simpatia in chi legge, ma farlo evidenziando una iniziale volontà a non mischiarsi con la massa, credo, vanifica questa scintilla di empatia: essere snob è sempre qualcosa che sta sul cazzo a tutti, figuriamoci esserlo in quanto ci si ritiene intellettuali, parola col tempo diventata pericolosa, una specie di insulto.
Lo faccio, espongo cioè i panni sporchi in pubblico, diciamo così, perché, credo, giocare a carte scoperte sia parte del patto, poi vai a capire se quello che scrivo sia in realtà vero o falso, se non sia parte di una narrazione, per dirla appunto con le parole modaiole di oggi, e non una finzione pura e dura, in barba all’autofiction e quell’autobiografismo assurto a vero e proprio genere letterario.
Racconto cioè qualcosa, reale o meno non è al momento importante, il tutto atto a allestire un teatrino in cui il raccontare diventa l’oggetto del racconto, il cardine della trama, e tutto il resto diventa contorno. Come la televisione che racconta la televisione, il teatro che sposta sul teatro l’attenzione del pubblico. Una sperimentazione che in realtà è una citazione, quanto di più distante, sulla carta, dalla sperimentazione stessa, a dirla tutta, vedi tu quanto posso cadere in contraddizione se mi applico.
Tornando però a quei tempi, ormai lontani, ho iniziato a scrivere pensando che dovessi assolutamente essere originale, e il modo per essere più originale, vedi a volte il genio, è stato di copiare lo stile di uno scrittore sperimentale, cambiando giusto una impostazione di base, probabilmente invisibile agli occhi del lettore. Sostituire Berio con KRS One e i gli A Tribe Called Quest, se vi sembra poco.
Nei fatti ho sempre guardato con ammirazione a quegli autori che, in apparenza fregandosene del mercato, quindi del pubblico, nei fatti semplicemente spinti dall’ispirazione a confrontarcisi passando altrove, hanno provato a tracciare una propria strada su terreni inesplorati, con le incertezze del caso, certo, ma anche con gli indubbi vantaggi che passare dove nessuno è passato prima comporta.
Facile, dopo, dire che in fondo non ci voleva molto a girare da quella parte invece di quell’altra, dove stavano andando tutti gli altri, il farlo per primi è sempre stato qualcosa cui ho guardato con ammirazione, pur faticando io poi a capire gli esploratori veri, quelli che partivano per terre reali sconosciute, i Roald Amundsen, i Nobile, i Vasco da Gama (l’unico Vasco da Gama che capisco, limite mio, è quello nelle cui file militava Romario).
Quando mi capita, quindi, di incontrare, parlo di incontri non necessariamente di persona, spesso parlo di morti, quindi dovrei essere il Bruce Willis de Il sesto senso per poterli incontrare di persone e non nelle loro opere, artisti che rispondono a tale fatta, in genere, provo un pizzico d’invidia, parlo di quell’invidia bonaria, senza malizia, che si prova verso qualcuno che ha fatto qualcosa che avremmo voluto fare noi, nulla a che vedere con sentimenti ostili, sia chiaro, essendo morti faticherei a volere fare cambio con loro.
È ormai da tempo morto, infatti, Brion Gysin, che sul volgere degli anni Cinquanta formalizza l’intuizione dei dadaisti di Tristan Tzara e crea il cut up, quella forma d’arte che vuole un testo sminuzzato in piccole frasi se non addirittura in singole parole, per poi mescolarlo e tirarne fuori uno nuovo, con un senso ovviamente completamente diverso. Tecnica creativa formalizzata in piena era Beat, e portata ai suoi più alti risultati da William Burroughs, a voler ammazzare metaforicamente la poesia: qualcosa di non troppo distante dai collage.
Brion Gysin, poeta e pittore inglese, a lui si deve anche l’ideazione della DreamMachine, vero e proprio caleidoscopio psichedelico, vissuto con Burrough, Ginsberg, Corso e Orlovsky in quella gabbia di geni che è stato il Beat Motel, a Parigi, leggetevi il bellissimo libro di Barry Miles che porta il medesimo titolo, pari per iconicità al forse più noto Chelsea Hotel di New York, ha avuto una intuizione, certo portata ai massimi livelli da altri, ma è e resta il creatore di qualcosa di rivoluzionario, i suoi lavori col jazzista Steve Lacy a riprova di un talento spigoloso, davvero poco incline a compromessi.
Ho sempre guardato a un artista come Gisyn con ammirazione, come in musica ho guardato alla medesima maniera a artisti quali Mike Patton, Les Claypool, John Zorn, David Byrne, Frank Zappa, Lydia Lunch, Jello Biafra, Henry Rollins, ma anche a un Maynard James Keenan, Jah Wobble, Andy Partridge, per non dire di nomi davvero estremi come Genesis P-Orridge, per fare un nome su tutti.
Non dico che sarei voluto essere uno di loro, o avere lo stesso talento e coraggio, sono sufficientemente contento di vivere dentro il mio corpo e con la mia testa, ma provo ammirazione, e mi piace condividerla con chi mi legge, perché se c’è chi mi legge, penso, è anche grazie all’ammirazione provata incontrando la loro arte, ammirazione che mi ha spinto e continua ogni giorno a spingermi, a mettermi alla prova andando per strade poco battute o addirittura ancora non segnate.
Poi, l’ho già raccontato a proposito della musica, ma vale anche per la letteratura, la parte che mi interessa di più è spesso la parte teorica del tutto, quindi la sperimentazione nella fase precedente alla creazione, perché, per intendersi, le poesie di Brion Gysin come i dischi che ha fatto in compagnia di Steve Lacy mi fanno inorridire, non fosse appunto per l’ammirazione che ho per l’artista avrei detto che mi fanno cagare, sarò io a essere insensibile, non voglio escluderlo a priori, o più semplicemente è nella fase teorica che Gysin ha dato il meglio di sé. Forse è per questo, anche per questo, che mi soffermo così tanto nell’atto dello scrivere, provando a condividere col lettore cosa sto facendo mentre lo sto facendo, andando in qualche modo a svelare i trucchi, mettere le didascalie ai disegni, condividere l’incondivisibile o quasi mai condiviso, come del resto sto facendo anche ora, perché mi appassiono dell’apparato teorico che si manifesta, nel mio caso, proprio nel gesto di scrivere, poco mi interessa della trama, dello sviluppo, di tutto l’ambaradan. Vuoi mettere quanto sia forte l’idea di commistione di linguaggi, non intendo linguaggi esclusivamente letterari, parlo anche di slogan pubblicitari, enigmistica, linguaggio scientifico, vari generi dal fantascientifico allo storico, presenti in certi romanzi postmoderni o avant-pop, rispetto alla linearità dei romanzi mainstream, quelli che si svolgono in maniera così rassicurante, tutto appoggiato sulla trama, sui personaggi, su una lingua piana, quasi di servizio? Poi, che i primi siano quasi illeggibili, cervellotici, ostici, un po’ come certi dischi free jazz, o certi film d’avanguardia, rispetto ai secondi, talmente prevedibili da sfociare nel noioso, è altra faccenda, o forse è proprio la faccenda che mi sta spingendo a scrivere queste parole, oggi, come una confessione a voce alta. Ciò non toglie che io adoro Donald Barthelme, per dire, e ho tutte le prime edizioni dei suoi libri, libri che ogni tanto sfoglio, provo a rileggere, specie Biancaneve, ma che raramente poi raramente porto a termine, certi sforzi atletici me li sono concessi da giovane, quando ancora avevo fiato e muscoli tonici.
La sperimentazione fine a se stessa, è ovvio, non ha però alcun motivo di esistere, alcun senso. O almeno, a volte ce l’avrà pure, ma il più delle volte finisce per essere solo puro egotismo del tutto inavvicinabile.
Per intendersi, di Metal Machine Music, mitico album uscito nel 1975 a nome Lou Reed, una sorta di lunga sequela di feedback, distorsioni e rumori vari, mitico appunto per la sua indigeribilità anche a orecchi particolarmente educati, ne basta e avanza uno, e credo che in quel caso l’abuso di sostanze psicotrope e di oppiacei abbia giocato un ruolo centrale, forse Lou avrebbe dovuto aggiungere in copertina il nome del suo pusher.
Dico questo, è arrivato l’immancabile momento in cui i preamboli convergono in un unico punto focale, dove in teoria tutti i fili si congiungono, gli incastri vanno tutti a buon fine e si svela l’arcano, dico questo perché mi capita spesso di sentirmi dire, sentirmi dire alla maniera in cui si dicono le cose ora, in poche parole, scritte, sui social, nei commenti, quindi in uno spazio poco autorevole e poco credibile, ma comunque esistente e presente, mi capita spesso di sentirmi dire, dicevo, che col mio stile così verboso e complicato, letterario, per certi versi, comunque considerato ambizioso se non pretenzioso, io stia in qualche modo tentando di fare il verso a Lester Bangs o a altri nomi di quel genere, penso a Hunter S. Thompson, altro nome ricorrente, come uno wannabe qualsiasi.
Intendiamoci, massima stima per i colleghi ormai scomparsi, ma ci terrei a fugare ogni dubbio a riguardo, non è certo per spirito di emulazione che scrivo come scrivo. L’ho spiegato, credo, con un numero sufficiente di parole, qui sopra. Non so se fossero entrambi, parlo per ora dei due nomi citati, considerati originali all’epoca, credo di poter asserire serenamente di sì, ma è evidente che non lo sarebbe più nessuno oggi se volesse emularne lo stile, e l’attitudine. Detto questo, non me ne vogliano i cultori di Lester Bangs, se mai volessi seguire pedissequamente uno scrittore altro da me non sarebbe certo la firma di punta di Creem quello cui guarderei armato di carta carbone. Lester Bangs era sicuramente un talento, aveva ottime intuizioni e ha in qualche modo contribuito a scombussolare un mondo stantio nonostante i pochi anni di vita, sorte che in musica capiterà poi al punk, ma dal punto di vista letterario, questo affermo con sicurezza e radicalità, non è che fosse proprio un asso. Tradotto, non mi piaceva come scriveva, non ho mai trovato la sua lingua interessante, anche se ho trovato interessanti i contenuti che quella lingua, spesso incespicante, voleva veicolare, quindi no, non ho Lester Bangs nel mio personale pantheon, non me ne voglia. Aggiungerei anche il fatto che, palesemente e per sua stessa ammissione, Lester Bangs era un critico musicale, attivo nel campo della cosiddetta controcultura, ma sua ambizione primaria era quella di diventare uno scrittore e uno scrittore riconosciuto come tale. Io, volendo proprio essere pignoli, arrivo proprio da quel mondo lì, partito, dal punto di vista di Bangs, dall’alto, cioè dal riconoscimento di critica e accademia, oltre che dall’editoria, e poi passato a occuparmi di musica, perché mai dovrei seguire le orme di chi ha passato la sua breve vita a fare esattamente il percorso inverso?
Per Hunter S. Thompson il discorso è diverso, ma è la musica il terreno di gioco che ho scelto di calcare, terreno che lui ha amabilmente disertato. Se ci mettete che non ho mai molto praticato l’alcool, che ho assolutamente evitato le droghe e che, avendo fatto l’obiettore di coscienza al posto della leva militare, non ho mai maneggiato armi, armi che anche volendo non potrei comunque maneggiare, essere obiettori di coscienza significava, all’epoca, rinunciare a ogni futura possibilità di richiedere il porto d’armi, direi che la faccenda anche in questo caso ha poca ragione d’esistere. Cioè, capisco che in un settore, quello della critica musicale e del giornalismo musicale, è qui che mi trovo al momento, così asfittico e monoliticamente ancorato su standard sciatti e di poco conto uno come me risulti eccentrico, e il mio risultare eccentrico non trovi altra ragione, agli occhi di certi minus habens, se non un mio presunto voler imitare qualche grande firma del passato, ma se proprio volete appiopparmi delle matrici, santo Dio, appioppatemi le matrici giuste, quelle che non sto copiando, oggi, direi che ho uno stile sufficientemente riconoscibile per poterlo definire mio, ma che sicuramente ho letto e studiato, e che in qualche modo possono essere finite nel mio know how.
Poi, ma qui andrei davvero fuori tema, e se dico che andrei fuori tema io, fidatevi, ci sono davvero gli estremi per qualcosa di completamente folle, esiste chi sperimenta non solo e non tanto per sperimentare, per aprire nuove strade, per scoprire nuovi mondi, ma più semplicemente, anche se la parola semplice è spesso poco vicina all’idea di sperimentazione, perché vogliono creare scompiglio, provocare, mettere in scena il caos. Lunga vita anche a loro, alla faccia del premio Nobel per la Fisica Parisi e alle sue dichiarazioni a beneficio di titolisti pigri, a volte il bello è portare il caos nell’ordine, non sempre e solo il contrario.