È durata troppo, un decennio, ma alla fine la farsa a 5 Stelle evapora così come si era raggrumata: senza un refolo di dignità da parte di nessuno. Dice il giuda azzimato, Di Maio: il movimento si è radicalizzato. Una setta nata dai latrati di un comico con gli occhi fuor dalle orbite e un paio di slogan assassini: vi facciamo fuori tutti, vi veniamo a prendere arrendetevi. E poi le liste di proscrizione, i dazebao alla cinese con le facce dei giornalisti da abbattere. Forse Di Maio vuole dire: il movimento si è radicalizzato nel non saper stare al mondo, io invece ho imparato e mi metto dalla parte di Draghi, che definivo lo sgherro della finanza mondiale, e del suo protettore Mattarella di cui volevo l’impeachement. Senza imbarazzi, come chi non ha una faccia, del resto la stampa attendista, che tira avanti coi sussidi governativi, l’ha subito perdonato o meglio esaltato; a difendere quell’altro, l’avvocato vagamente effemminato, è rimasto solo il suo Rasputin Travaglio, uno convinto di avere doti di stratega, come Montanelli, mentre chissà come tutti quelli nel suo raggio finiscono nell’oblio.
In otto milioni la avevano votata questa setta che non può aver tradito nessun ideale e nessuna idea, perché non aveva né l’uno né l’altra: unico collante il vaffanculo, unica trovata in dieci anni il reddito di cittadinanza che è una forma lottizzatoria, di controllo elettorale del territorio, vecchia come il mondo, al Sud appannaggio di pregiudicati e malavitosi senza che il giornale di riferimento, il Fatto Quotidiano degli esagitati e dei moralisti, se ne accorga.
Di questo assurdo movimento la stampa conformista si è sforzata nel fornire giustificazioni teoriche, quanto a dire leccare il culo al contropotere che si fa potere. Ma, volendo stare al gioco, c’era solo un orrendo pateracchio di elementi scippati da diverse dottrine in pretesa di illuminismo e rivoluzionarismo. Senza un ordine, una logica, una coerenza, da cui le continue contraddizioni, l’impossibilità di raggiungere una sintesi omogenea, la mancanza di un programma organico. Chi imboccava Grillo, gli metteva in bocca di volta in volta i presocratici, Platone, il comunitarismo egualitario seicentesco, Hobbes, il giusnaturalismo inglese, l’indipendentismo americano, il separatismo basco, il razzismo biologico, il roussoianismo al pesto, il socialfascismo, la critica alla liberaldemocrazia da destra e da sinistra, i francofortesi, il kulturpessimismus, in una maionese postideologica impazzita (e inutilmente scomodata). Si poteva pescare tutto e il suo contrario dai vaneggiamenti di questo squilibrato. Ma il Leviatano di Grillo si divora, come tutti i Leviatani, per amor di libertà. Il suo contratto col popolo era più farsesco di quello di Berlusconi, e più truce perché inteso a sottovalutare le umanissime forze, perverse e insopprimibili, che la mancanza di libertà alimenta ancor più della sua concessione, e che si chiamano opportunismo, realismo, ambizione. Con una differenza fondamentale, che ne ha accentuato la matrice farsesca: il Leviatano riportava la trascendenza all’immanenza, la setta a 5 stelle faceva il contrario. E Giuseppe Piero Grillo, da Genova, non era un improbabile epigono di Rousseau, a dispetto di una sgangherata (e menzognera) allusione quale “uno vale uno” o dello svilimento del ruolo del Parlamento in luogo di una democrazia di cittadinanza diretta. I grillini mandati alle Camere questi risvolti li ignoravano, a loro bastava ubriacarsi dei concetti di un Mangiafuoco fuori controllo, che ha messo in piedi una colossale buffonata. Fin che è durata.
Nell’ignominia muore questa setta di ossessi, questa nave dei folli affidata a un guitto passato dalla pubblicità delle automobili alle ossessioni green all’idrogeno, dallo sfasciare i computer ad esaltarli come la nuova normalità; sotto di lui una pleatora di lunatici, di fissati, di rancorosi buoni a nulla ma capaci di tutto. Parola d’ordine: noi siamo diversi, poi subito le prime ruberie come tutti, i rovesci da taverna, gli “era un altro momento”, la forca aprioristica che diventa garantismo pro domo, il Parlamento da aprire come il tonno che si taglia con i grillini, la metafisica degli honesti, l’invenzione di un premier di laboratorio, il contrordine cialtroni, i cortei di auto blu, i viaggi in executive, la mutazione ogm che li rende un corpo e un’anima con la poltrona, i voltafaccia su tutto, tav, vax, mask, Benetton, le delizie della dolce vita romana, la voglia feroce di non uscirne, di non tornare al bighellonaggio da bar, i disastri del premier-pipistrello e della sua congrega agghiacciante, gli Arcuri, i Borrelli, l’abbraccio laido col potere piddino, il regime sanitario più infame a memoria d’uomo e se Dio vuole l’implosione, la scissione dei fessi, la faida Grillo – Conte e siamo oltre la farsa: i corifei che si scornano, i Toninelli che si impallano, i Di Battista che levano barricate di panna montata, i compromessi anni ’50 su tutto, sulla Giustizia, in vago afrore di conflitto d’interessi che si legge Ciro, Ciro, il figlio vitalistico, e la campana di vetro lascia il posto alle segrete stanze, ai silenzi, agli intrighi, e tutto quello che puoi pensare è vero, e tutto quello che non sai è vero e quello che sai è falso.
Nata come farsa, la parabola dei deliranti finisce in fondo al grottesco, nella feccia di un calice che si alimenta di ogni miseria che la setta attribuiva a chiunque non fosse dei loro: falsità, disinformazione, corruzione non solo morale, svendita dei valori al mercato dell’usato, familismo, opportunismo, carrierismo. Tutto in meno di un decennio. Il potere logora chi non ce l’ha e lo sogna, poi chi ce l’ha, quindi chi non lo vuol mollare, infine chi lo rimpiange. Questa roba qui, questa miseria totale globale qui, aveva convinto un italiano su tre. È vero che la storia non insegna niente, che gli uomini sono dei pazzi, il guaio è che non imparano niente, al prossimo che sbava, vi faccio fuori, vi inculo, lo votano in massa. Per allegria, per disperazione, per analfabetismo, non cambia niente. La cosa più ignobile in questa fine di una farsa ignobile, sono quelli che dicono: ah, io non li ho votati ma soprattutto non li rivoterò. E hanno pure il coraggio di lamentarsi della Roma della Raggi, di cui quella di Gualtieri è la fisiologica continuazione, e dei cinghiali e dei ratti e dei monti di monnezza, delle targhe sbagliate, Azelio, Morirono anziché Morricone, un governo col T9, a scorrettore automatico, una capitale infetta per una nazione corrotta, una città eterna nel peggio, dove giri, giri e ti senti sempre fuori, mai incluso, mai compreso, eppure quel che resta di questo incubo di Hyeronimus Bosch la rivuole, la difende la sindaca ossuta, che pare la personificazione scarnificata di un movimento che non c’è mai stato ma ha divorato l’impossibile e anche adesso, che agonizza sotto al sole e evapora qual medusa, non si placa, maledetto, condannato a far ridere e disperare anche dopo morto. Ma non preoccupatevi, va a finire che tutti si rimettono d’accordo, compreso qualche saltafila di complemento, “basta che ci sia posto”. Magari alla corte di Berlusconi, perché “era un altro momento”. È sempre un altro momento.