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Ma Esterno Notte di Marco Bellocchio non sarà una Grande Bellezza in salsa eversiva?

A distanza di 44 anni su Moro le cose che non tornano sono ancora più di quelle chiarite; è l'unico evento della storia recente che ancora non si rinuncia a saccheggiare, proponendo continue riletture artistiche, come se l'esigenza di capire fosse, malgrado tutto, più forte dell'oblio

di Max Del Papa
19/05/2022
INTERAZIONI: 102

INTERAZIONI: 102

Marco Bellocchio. Photo by Yasu (talk) - commons.wikimedia.org

Marco Giusti su Dagospia tesse l’elogio di Esterno Notte, il maxifilm di Marco Bellocchio dedicato al caso Moro, in proiezione al Festival di Cannes e in uscita nelle sale italiane, con un entusiasmo inusuale, figlio, forse, di un nostalgismo quasi proustiano per i “formidabili anni”. Nell’impossibilità di assistere all’anteprima, siamo costretti a fidarci del giudizio di Giusti. Con qualche riserva. Par di capire che l’opera, in sei parti, consista principalmente in una sorta di processo etico-estetico alla Democrazia Cristiana, alle sue facce, ai suoi ceffi, che indubbiamente portarono una responsabilità di macigno sulla più efferata, torbida, incomprensibile azione terroristica non solo italiana ma in tutto l’Occidente industrializzato. Del resto, fu Moro stesso, vittima sacrificale, a scriverlo a più riprese, nelle lettere che copiosamente indirizzava ai familiari, ai compagni di partito, al papa, agli ecclesiastici, fino al punto da dimettersi, platealmente, dal suo partito. E sapeva che non lo volevano, e capiva che in nessun modo sarebbe tornato vivo dai suoi luoghi di tortura, che furono diversi. Un capitolo è dedicato alla moglie di Moro, Eleonora, la cui compostezza nella tragedia speriamo non esca inficiata dalla nevrotica Margherita Buy, che la impersona. Quanto a Paolo VI, papa Montini, già compagno di Moro nella Fuci, porta i lineamenti dell’onnipresente Toni Servillo, che forse lo tramuterà da bresciano in un pontefice romano da Grande Bellezza.

E va bene. Bellocchio, avverte compiaciuto Giusti, si tiene lontano da chissà quali rivelazioni, schiva insomma le trappole del cinema politico, avendone fatto parte. È una giustificazione plausibile? Sufficiente? Diremmo di no: Bellocchio qui ha in mente, sembrerebbe, l’affresco di una Roma abbruttita e abbrutita da un terrorismo che tuttavia – e anche questo sarà da verificare ma così pare dalle prime recensioni, dai trailer della mastodontica opera – non è mai davvero stigmatizzato: il volto sensuale della Faranda, che si rivolge al compagno di vita e di sovversione Morucci con accenti d’appendice, “Se mi lasci t’ammazzo”, non dice niente del ruolo di questa opacissima coppia, che si dissocia, sì, dall’operazione Moro, ma dopo averne fatto parte da protagonista, e poi va a comporre un Memoriale che diventa verità di stato in combutta coi Servizi Segreti. Una ricostruzione che più avanti negli anni verrà sbugiardata praticamente in ogni riga delle sue centinaia di pagine (si veda, al riguardo, il meticoloso lavoro di Sergio Flamigni). Ora, ridurre una coppia di intriganti ad una sorta di coscienze rivoluzionarie innamorate, in contrasto col “perito elettronico” Moretti, sarà anche tenersi alla larga da chissà quali rivelazioni politiche, sarà una sorta di equidistanza in un’opera che vuole parlare d’altro: ma è anche ciurlare nel manico: Morucci e Faranda godranno presto di una semilibertà anticipata sconosciuta ai delinquenti “normali”, lei troverà modo di riciclarsi come fotografa alla moda tra Roma e Parigi, perfino per il Corriere della Sera, avamposto di quella borghesia che lei voleva annientare insieme ai colleghi di brigatismo. E non rinuncerà mai a porsi come sensuale svampita ricca di opinioni sempre molto vaporose, evanescenti nelle sue fin troppo frequenti apparizioni televisive: sempre e comunque imprecisa, allusiva, se non menzognera.
Quanto al perito Moretti, era chiaro – non c’era bisogno dei dubbi messi in bocca a Cossiga da Bellocchio – che non poteva essere lui a “dialettizzarsi”, come si diceva in gergo, con uno statista sottile e tortuoso come Moro; difatti molti anni dopo sarebbe emerso quello che nel giro politico-eversivo-poliziesco tutti sapevano, che a fare le domande e poi i comunicati strategici era Giovanni Senzani, che, bruciato Moretti all’inizio di aprile del 1981, all’ombra della Stazione Centrale di Milano, prenderà il pieno controllo delle BR traghettandole nella fase più follemente feroce fino alla autofagocitazione. E Senzani, anche questo è storia, conclamata da plurimi riscontri, è sempre stato uomo dei Servizi. Tutta roba che nel racconto di Bellocchio sicuramente non si trova. Ora, stare alla larga dai facili scoop politici va bene, creare un affresco sociale va bene, ma a patto che le omissioni non diventino comode, non finiscano per confondere le acque restituendo la solita immagine delle Brigate Rosse dure e pure e perfino innamorate (ergo, riumanizzate). Il che non fu, in nessun modo e in nessun caso. Ci sono sequenze nella visione bellocchiana che saranno magari episodiche, funzionali al racconto, ma a loro modo sembrano rivelatrici: come quando, durante un processo, un terrorista grida “Le Brigate Rosse sono qui, sono fuori, sono dappertutto” e ci si sente una sorta di urlo di trionfo, registrato dal regista senza nulla obiettare. Ed è vero che il fenomeno terrorista a un certo punto potè contare su una zona grigia, per dire collaborazionista, a spanne di quattro, cinquecentomila persone, che andavano dagli esaltati, illusi nelle fabbriche, nelle scuole, ai simpatizzanti sparsi tra giornali e magistratura, fino agli opportunisti della borghesia illuminata, che stavano alla finestra ma all’occorrenza erano pronti a fornire un covo, un rifugio, una logistica senza far troppe domande. Non una gran prova di rigore morale per la società italiana, anche se oggi si tende a rimuoverla. D’altra parte, è altrettanto vero che quella polverizzazione non convinse mai il grosso della cittadinanza e non certo per le elucubrazioni a sinistra, fra i partiti della sinistra, tra le frange eversive a sinistra, ma, semplicemente, perché la gente comune non capiva e non accettava lo stillicidio quotidiano, il morto ammazzato ogni giorno, i plurimi gambizzati ogni giorno di cui le lenzuolate di spiegazioni dagli artefici non riuscirono mai a spiegare niente. Fu, e chi scrive lo ricorda con cognizione di causa, un periodo, lunghissimo, di isteria e di tensione insostenibile e illogica ed è per questo che alla fine non attecchì. Anche se molti, a tutti i livelli della piramide sociale, si diedero da fare per diffondere il terrore.
A distanza di 44 anni su Moro le cose che non tornano sono ancora più di quelle chiarite; è l’unico evento della storia recente che ancora non si rinuncia a saccheggiare, proponendo continue riletture artistiche, come se l’esigenza di capire fosse, malgrado tutto, più forte dell’oblio. Però va sempre a finire che l’esigenza di capire si scontra, perdendo, sull’esigenza di offrire un quadro in bella pittura, drammatico, compiacente sotto le mentite spoglie dell’oggettività. L’affresco monumentale di Bellocchio potrà anche essere godibile, ma il sospetto è che si risolva in un monumento per le ragioni sbagliate benché sottaciute; una Grande Bellezza di piombo che, fingendo di stigmatizzare la realtà, finisce per compiacersene, scaricando tutta la responsabilità sul regime, cioè la DC burattino della Nato, e insieme edulcorando le figure della manovalanza sanguinaria con languore più o meno rassegnato, più o meno sentimentale.

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