C’è un vuoto esistenziale, una mancanza di senso, un dinamismo vitale solo apparente al centro di Generazione Low Cost, il film d’esordio della coppia di registi Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre, passato alla Settimana della Critica del 2021 a Cannes. Un titolo che in italiano diventa da un lato programmaticamente generazionale, e dall’altro però più morbido, rispetto alla disillusione nichilista dell’originale Rien à Foutre (qualcosa come “me ne fotto”, reso anche nella versione inglese Zero Fucks Given).
La cadenza del racconto è iterativa, fondata sulla continua ripetizione degli stessi gesti della protagonista Cassandre (Adèle Exarchopoulos, convincente), ripresa con uno stile semidocumentaristico debitore dei canonici fratelli Dardenne che ritaglia in brevi sequenze porzioni della vita di un’assistente di volo di un compagnia low cost, con base a Lanzarote e una vita perennemente girovaga.
Scali, aeroporti, brevi momenti fuggevoli tra un viaggio e l’altro, discoteche, incontri più o meno occasionali di brevissimi durata, alcool, chiacchiere distratte. Fino alla nuova destinazione, in un lavoro con target rigidamente definiti, secondo i quali ogni passeggero ha un valore da tradurre in prodotti di ogni tipo da vendere loro durante le trasvolate, sempre con un sorriso trasparente stampato sul volto, che va costantemente allenato.
“Non pensare alla tua vita personale, non pensare a niente che possa disturbarti. Non c’è passato, non c’è futuro, ci sei solo tu come responsabile della cabina”. Questo spiega a Cassandra un suo superiore, e lei cerca per quanto possibile di rispettare le direttive, restando nei confini di questa dimensione che implica efficienza, disponibilità assoluta (“posso diventare bionda”, dice a un colloquio di lavoro), focalizzazione sul lavoro e sul presente (“non so nemmeno se sarò viva domani”, ribatte al sindacalista che vorrebbe spingerla a ragionare in termini collettivi e non solo individuali e individualistici).
Generazione Low Cost è fin troppo paradigmatico nel suo fotografare il disagio inconsapevole di un’intera generazione incatenata a un oggi senza prospettive, in cui l’idea dei rapporti umani di una ragazza come Cassandra è filtrata da app come Tinder, sulla quale non a caso il suo nome utente è Carpe Diem. Il film di Lecoustre e Marre ha come suo limite quello di presupporre e dar per scontate troppe risposte, e allora il racconto ha più il sapore del referto sconsolato che quello dell’indagine esplorativa su di un mondo ancora da conoscere.
Così in sostanza lo spettatore, in un percorso che dal punto di vista dell’immedesimazione coi personaggi può essere sicuramente sconfortante, finisce probabilmente per trovare tra le immagini ciò che già conosce. Espresso, e qui Generazione Low Cost è efficace, attraverso la sintesi di uno stile puntuale e meticoloso, che sottopone a un pedinamento discreto e sfiancante la protagonista, ritratta mentre osserva in volo il panorama ingannevolmente sterminato delle nuvole, che confligge invece con la sua realtà minimale priva di orizzonti.
È meglio se visto in originale Generazione Low Cost, perché emerge ancora di più la dimensione spersonalizzante della lingua franca del lavoro, un inglese gommoso composto di un lessico manageriale standardizzato e burocratico che suona ancora più fasullo, perché impiegato solo da persone per le quali non costituisce la lingua madre, e dunque sa ancora di più, tra pronunce traballanti e vocabolario minimale, di qualcosa di imparaticcio e mandato controvoglia a memoria.
Convince meno semmai la seconda parte in cui emerge maggiormente il privato della protagonista, che pare suggerire, esplicitando vissuto e i traumi familiari, le ragioni che avrebbero condotto Cassandre a scegliersi la vita a bassa intensità che vive adesso. Che è comunque un tentativo di riannodare in una disposizione emotivamente coerente il passato al presente. Quando invece ciò che colpisce di più nel film è proprio la capacità di restituire l’impressione di episodicità di un’esistenza (e un mondo) in cui il prima e il dopo sembrano irrelati, momenti puntuali di biografie dolorosamente incoerenti.