Ma ve li ricordate quei bei tempi vintage in cui l’EuroVision Song Contest Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare era semplicemente l’Eurofestival, propaggine frigida di Giochi Senza Frontiere? Vi partecipavano oscuri gruppuscoli moldavi, finnici, scartine italiche e nessuno se ne accorgeva, in una polvere di stelline opache. Chi l’avrebbe mai sospettato che il baraccone sarebbe diventato rutilante, tonitruante, anteprime, eliminatorie, finalissime chiamate dal telegiornale, la Pausini formato Carrà, sempre così schiva, il Cattelan che più floppa e più lo spingono, Mika pizza e fichi. E il meglio, ohibò, del cantautorame nazionale in una Babele di 40 nazioni canterine, Armenia, Estonia, Malta, Italia con Mahmood e Blanco, le enclave con Achille Lauro, furbetto di San Marino, favorito: il gruppo dell’Ucraina, e perché? Perché è ucraino.
Comunicazione, cosa non si fa per te. E cosa non facciamo tutti noi per la Comunicazione, maiuscolo, please. Di musica si parla poco, e a ragion veduta, di gossip anche troppo, e gli scazzetti fra conduttori, e le prurigini degli artisti in cerca di arte, e lo sfondo della guerra e che palle. È il Festival che non c’è, che Cattelan sogna da anni ma poi c’è sempre qualcosa, qualcuno che glielo sfila dalle mani giudicandolo ancora acerbo (a 42 anni, roba che i presentatori veri a quell’età avevano già una carriera mitologica). Una faccenda a metà fra Sanremo e X Factor, che testimonia l’omologazione di tutte le proposte musicali, in senso più che lato, ad un format, un pensiero unico televisivo: ormai non c’è più distinzione tra Concertone sindacale ed EuroVision, tra mainestream e “indie”, i conduttori girano come ospiti di talk show, le chiacchiere si rifriggono. Il trionfo del trash brillantante, droni che svolazzano, Puccini a braccetto con le solfe orientaleggianti ma sintetiche, fumo dappertutto, fumo, fumo, e poco arrosto.
Guardare, lo si guarda: cinque milioni e rotti di teleannoiati, per la serie stasera c’è questo, ma così, senza tensione, senza emozione, nessun dolore. La Pausini è una cantante? Una che se la tira da star un po’ ai ravioli? Di sicuro non è una conduttrice. Cattelan con quell’approccio in scarp de tennis anche se mette lo smoking, da ragazzone che mai crescerà, finirà per invecchiare direttamente, sempre un po’ ac-celerato, a forza di precorrere i tempi della diretta il tempo gli sfugge, gli va in testacoda, lui è quello dell’ “auaiù”, per dire sempre, a tutti, come stai, come la va. L’EuroVision è una visione, qualcosa di vagamente irreale, si è allucinato il giusto, è diventato format unico, ma del vecchio Eurofestival mantiene come una pelle originaria, un po’ squamata, come una polvere di tempo e di stelline oggi europeiste più che europee. Qualcosa che “veicola” i suoi messaggi, che poi son sempre quelli dell’agenda bruxelliana, l’inclusione, la fluidità, la trasgressione alla panna sulle fragoline del politicamente corretto, niente che sia davvero interessante, niente di notevole, di dirompente: cosa potrà mai uscire da questa dispendiosa sagra continentale e oltre? “Diodato” da pelle d’oca, ha volonterosamente scritto un giornale: ma è sempre la canzone ormai vecchia, per l’occasione riproposta in salsa eurovisionaria. Però c’è anche il “momento sexy con l’Albania”, evviva, mentre la Svizzera “fa dormire” e qui ci si spenzola pericolosamente sul cornicione del singing shaming. Sarà che la Confederazione Elvetica è sempre dannata da quel crisma di neutralità e ricorda le telecronache gessate anni ’70 di Giuseppe Albertini, “Ecco. Il Grasshoppers. Si spinge in avanti. Passaggio. Tiro. Rete”.
La Norvegia, che ha un gruppo chiamato “Subwoolfer”, che spiazzante, frizzante, eccitante, ha un brano che si intitola “Dagli una banana a quel lupo”. Sembra un po’ una parodia da fumetto, e difatti Topolino è uscito con i tre conduttori formato paperi. Sai, le sinergie. Ma è palese lo sforzo immane di parlare di qualcosa che non c’è, la musica, le canzoni, e alla fine tutti si rifugiano nel pettegolezzo leggero. Con qualche lapsus che nessuno coglie ma è prepotente: la vera notizia, da tutti colta con sollievo, è che questo gran casino di droni, di suoni, di fumi, finisce alle undici di sera dopo “appena” tre ore. Poi c’è un curioso effetto collaterale: dovrebbe essere il festival, la rassegna, fate vobis, dell’Europa e oltre, senza confini, senza frontiere, ma finisce per alimentare i localismi di ritorno, c’è questo Dardust, che poi sarebbe Dario Faini, uno che sfrutta il suo momento e sta dappertutto, produttore, autore, che essendo di Ascoli Piceno esalta i concittadini, vanto e orgoglio di piazza Arringo, un ascolano alla conquista del mondo. Insomma il solito gran parlare per parlare di niente, tipo Draghi da Biden. Allora perché se ne parla? Perché tutto è Comunicazione e perché per una volta l’ha detta giusta Cattelan, forse senza avvedersene: “Qui è tutto un grande Erasmus”. Siamo alla propaganda, non russa, non ucraina, non americana ma eurounita, da eterni studenti in gita.
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