Nel mio quartiere vive una strana fauna. È decisamente un quartiere di famiglie, molte qui da generazioni. Lo so perché la parrocchia, che frequento, è animata da nonni, figli e nipoti. Ci sono dunque tante famiglie e tante famiglie che si sono trovate talmente bene in questa fetta di Milano da decidere di rimanerci anche una volta abbandonata la casa dove sono cresciuti. Però ci sono anche tanti giovani di fuori Milano, vista la vicinanza con l’Università. I locali sono sempre pieni di giovani, alcuni talmente tanto da trasformare radicalmente certe vie, semideserte di giorno, bolge infernali fino alle due o le tre di notte. Su tutti ci sono gli anziani. Non che siano la maggioranza assoluta, ma come spesso capita, sono quelli che vedi più spesso in giro, o almeno che vedevi più in giro finché non è arrivata la pandemia.
Uno di questi anziani, è di lui che voglio parlarvi adesso, abita esattamente di fronte a casa mia. Con questo intendo dalla parte opposta di una piazza sulla quale si affaccia una parte del mio appartamento. Non lo conosco, nel senso che non ho idea di come si chiami, ma lo vedo praticamente tutti i giorni, perché seppur lui sia un pensionato, non so da che lavoro, e io un libero professionista, abbiamo gli stessi orari. Questa cosa dovrebbe farmi riflettere, ma lo farò in altra occasione. Adesso è un po’ che non lo vedo, perché mi è impossibile vederlo, ma resta che è uno di quelli che se esco, anche una sola volta alla settimana per andare a fare la spesa, capace che lo incontro, siamo sintonizzati sugli stessi orari, sempre.
Questo signore anziano, il fisico un po’ tozzo, i capelli completamente bianchi, è convinto che io sia Stefano Bollani.
Questa storia di Bollani l’ho raccontata spesso, fin quasi alla noia. Ci somigliamo, sembra. Me lo dicono in molti. Abbiamo lo stesso tipo e taglio di capelli, la barba incolta, un naso importante, siamo grandi pianisti. No, questo magari no, lui è un grande pianista, io suonicchio, ma senza eccellere. Siamo simpatici, dai, questo passatemelo. E ci somigliamo. Tecnicamente è lui che somiglia me, visto che è più piccolo di me e quindi sarei io l’originale, la matrice. Però lui è più famoso, quindi succede che la gente mi confonda con lui e si senta in dovere di dirmelo, magari pensando proprio che sia lui, o che ravveda una somiglianza e, pur sapendo che sono io, me lo dice, come fosse una cosa che ignoro. Per dire, quando fa uno dei suoi programmi in tv è tutto un ricevere messaggi, su Whatsapp, da parte di chi ha il mio numero, su messenger, commenti off topic sui social, da parte di gente che mi manda foto della tv con dentro un fermo immagine di Bollani e la solita didascalia “ti sto guardando in televisione”. Sempre. Come quando ai tempi del famoso secondo concerto di fila di Laura Pausini a San Siro, prima donna a averne fatti due, il concerto in cui lei mandò a quel paese il giornalista che aveva predetto sarebbe stata una data senza pubblico, accompagnando il tutto con un dito medio, una intera serata, e anche il giorno dopo passata a ricevere sui social, i fan della Pausini non hanno il mio numero di telefono, la foto di lei che mostra il dito medio. Questo perché tutti pensavano, per motivi che mi sfuggono, anche se non del tutto, che fossi io quel giornalista e quindi io il titolare di quel dito medio. Così non era, fatto che però anche oggi fatico a far passare per vero. Diciamo che mi sono preso un dito medio che era rivolto a un altro, altro che ha preferito tacere. E così come non era mio quel dito medio non è mia la faccia che i tanti fotografano in tv per poi mandarmi lo scatto via messaggio, non sono Bollani. So per certo, ma è poca cosa, che anche a lui è capitato qualche volta di essere confuso per me. Cioè qualcuno è andato da Bollani e gli ha detto “Uellà Monina, allora quel dito medio della Pausini”. No, scherzo, qualcuno lo ha salutato con un “Ciao Michele”, “Ciao Michele” che lo avrà lasciato quantomeno perplesso, visto che immagino ignori della mia esistenza, se non come di uno dei suoi sette sosia presenti al mondo. Conoscete tutti quella faccenda dei sette sosia, immagino. Ecco, uno dei miei è Bollani. E una volta Selvaggia Lucarelli, che di lì a poco sarebbe andata a fare la sua direzione lampo del sito di Rolling Stone, lampo perché è durata tre mesi, direzione che vedrà me come firma musicale al suo servizio, una volta Selvaggia Lucarelli, che non mi aveva mai incontrato di persona mi ha mandato un messaggio piccato su Whatsapp, lei ha il mio numero, in cui mi diceva “Dobbiamo ancora cominciare e già non mi saluti?”. Il dobbiamo ancora cominciare era riferito appunto all’imminente collaborazione su Rolling Stone, il resto sulle prime non l’ho capito. Infatti le ho risposto “A meno che tu non sia seduta di fianco a me sul divano di casa mia, mimetizzata coi cuscini, non vedo come avrei potuto salutarti”. Per farla breve, lei lo racconterà proprio nel post che userà per dire del mio ingresso nella sua squadra a Rolling Stone, era sul treno diretta a Roma, e a bordo con lei c’era anche Bollani, di ritorno dal concerto di addio, addio poi reiterato, di Elio e Le Storie Tese al Forum di Assago. Lo vede seduto, lo scambia per me e lo saluta. Lui, evidentemente piccato dal vedere Selvaggia Lucarelli che lo saluta “Ciao Michele”, non le risponde. Di qui il messaggio. Quando saranno capitati almeno un centinaio di episodi del genere, forse, avremo pareggiato i conti. Nei fatti c’è questo signore anziano che abita di fronte a casa mia, cioè dall’altra parte della piazza su cui si affacciano parte delle finestre del mio appartamento, che è convinto che io sia Stefano Bollani, e quando gli capita di incontrarmi, o meglio, quando capita che ci incontriamo, non manca mai di salutarmi calorosamente, accompagnando il tutto con un “Saluti maestro” e magari anche un qualche riferimento a qualcosa che io, cioè Stefano Bollani, ho recentemente fatto in tv. Dico questo, pentendomene mentre lo dico, lasciando trasparire una vergognosa spocchia. Perché sottintendo, e sto qui a dirvelo come forma di pentimento, avrei potuto tranquillamente far finta di niente sperando in una vostra distrazione, sottintendo che lui, l’anziano che mi scambia per Bollani, sappia chi è Bollani perché lo vede in televisione. Magari è un grandissimo appassionato di jazz, e Bollani l’ha visto chissà quante volte dal vivo, vallo a sapere, e in tal caso i fatti sono due, o io assomiglio davvero a Bollani, al punto che uno che lo ha visto chissà quante volte dal vivo arriva a confondermi con lui, o con gli anni il signore che abita davanti a casa mia ha perso parecchia vista, e gli basta incrociare uno col nasone e i capelli ricci e lunghi raccolti in una coda per pensare di aver incrociato Stefano Bollani, e fortuna che ho la barba, se no capace che pensava che fossi Kim Kardashian. Del resto, sempre nel quartiere, c’è o forse c’era, non lo vedo davvero da una vita, un signore anziano che è convinto di aver scritto in realtà tutti i testi degli album nei quali Lucio Battisti lavorava con Mogol. Un signore, per intendersi, che non è Mogol. Cosa buffa, perché è noto che Mogol sia cresciuto in questo quartiere, so bene dove stava il campo di grano citato in esergo di Pensieri e parole, so un sacco di riferimenti al mio quartiere nelle sue canzoni, e sempre qui vive tuttora suo figlio, Cheope, anche lui autore di testi di non saprei dire neanche quante hit. Lui, il signore che un tempo incrociavo spesso e che non vedo da tempo, mi ha detto che in realtà ha scritto tutti i testi lui, e lo ha detto con una tale convinzione che, non sapessi che li ha scritti appunto Mogol, gli avrei quasi creduto. Non so se l’ha detto perché sa che scrivo di musica, dubito, ci siamo incontrati più volte da un cartolaio amico mio che sta a pochi passi da dove abito, mentre ero in incognito, ma tutte le volte ha fatto questo discorso.
Detta così, lo so, sembra che il mio quartiere sia frequentato o fosse frequentato, da signori non proprio lucidissimi, chi mi scambia per Bollani, chi si crede Mogol.
Io so solo che saperli da qualche parte, forse, soli e impossibilitati a raccontare i loro aneddoti buffi e singolari, a fantasticare su qualche vip che di colpo è arrivato a vivere in zona, impossibilitati troppo a lungo negli ultimi anni a coprire palmo a palmo le strade del quartiere come in genere facevano tutti i giorni, perché non potevano uscire, c’era il lock down, o perché magari sono stati tra le migliaia di anziani che hanno trovato la morte nel Coronavirus, mi immalinconisce.
Abbiamo a lungo sorriso dei passi incerti degli anziani, ce ne siamo lamentati quando ci passano avanti in coda al supermercato dicendoci tra noi e noi che loro potrebbero pur fare con calma, tanto non hanno nessun lavoro o impegno che li aspetta dietro l’angolo. Sapere che sono stati letteralmente in balia degli eventi è qualcosa che stringe il cuore. E anche parecchio. Al punto che mi riprometto, quando tutto questo sarà davvero finito, di fare un concerto proprio nella piazza dove si affacciano parte delle finestre del mio appartamento e casa del signore che pensa che io sia Bollani. Magari è la volta buona che mi sente suonare e capisce di aver preso fischi per fiaschi, o si convince che in fondo Bollani è simpatico e tutto, ma a suonare il pianoforte non è che sia un drago.