Esiste tutto un immaginario di metamorfosi cui si potrebbe attingere nel momento in cui, è il caso che andremo a raccontare, ci si trova al cospetto di chi torna sulla scena cambiato, molto cambiato.
Lasciando da parte l’ovvio, che sarebbe assolutamente fuoriluogo, i titoli non sempre sono d’aiuto, Gregor Samsa, si potrebbe agilmente passare per il brutto anatroccolo o per la classica maschera della vicina della porta accanto, ma anche qui, temo che si tradirebbe la realtà-.
Per cui mi fermo e cerco di spiegarmi meglio, l’intuizione dell’incipit forse poco a fuoco, succede.
Quando si parla d’arte, e d’arte si sta parlando, capita spesso, non tanto quanto si potrebbe auspicare, di assistere a metamorfosi che rendono quasi irriconoscibile, almeno a occhio distratto e disattento, quindi occhio tipicamente contemporaneo, l’artista quanto l’opera che ha prodotto. Pensate, faccio un esempio estremamente mainstream, a una Miley Cyrus, passata da vestire i rassicuranti panni di Hannah Montana a non vestirne affatto, sulla palla da demolizione di Wreckin Ball, sotto l’occhio lubrico di Terry Richardson, il tutto dopo aver slinguazzato e twerkato a fianco di un infoiato Robin Thicke e pronta a alzare sempre di più la neanche troppo metaforica asticella. Un cambiamento radicale, quantomeno estetico, che ha poi portato a cambiamenti anche formali e artistici, penso alle varie collaborazioni improbabili, prima, sulla carta, da quella coi Flaming Lips alle varie cover anche heavy metal. Certo, dirà qualcuno, è Miley Cyrus, non ha mica bisogno di essere riconoscibile per essere riconosciuta. Anche questo è vero. Ma di esempi del genere ce ne sono eccome, pensiamo a un Robbie Williams, lì a spaziare tra hit pop, brani Aor e swing, ma davvero, mi sembra quasi insultante fare troppi esempi.
Cambiare pelle è possibile, se se ne sente la necessità, e quindi a volte diventa un fatto, non sempre baciato da fortuna, ma questo con l’arte poco o nulla ha a che vedere, non vi fidate di chi dice che il pubblico ha sempre ragione, il pubblico non ha mai ragione.
E torniamo all’incipit, la metamorfosi. Il brutto anatroccolo, lo splendido cigno, quella roba lì.
La storia del brutto anatroccolo che si trasforma in bellissimo cigno la conosciamo tutti. È stata presa e traslata a beneficio di un pubblico teen nei vari film ambientati in college o che comunque hanno i giovanissimi come protagonisti, dove si svolge suppergiù sempre la medesima trama: un giovane, il protagonista è sempre un maschio, e su questo sarebbe da aprire un capitolo a parte, ha una amica fidata, apparecchio per raddrizzare la dentatura, capelli tenuti sempre legati alla meno peggio in una coda un po’ sciatta, vestiario abbondante, a coprire, si suppone, una qualche imperfezione estetica. I due sono molto legati, al punto che il protagonista, maschio e in quanto maschio e teen anche vagamente coglione, le confida di aver perso la testa per la reginetta del ballo, a capo delle cheerleaders, fisico statuario, sempre esibito generosamente, bionda, e cosa se no?, non particolarmente simpatica, vistosamente attratta da chi passa un tempo eccessivo in palestra, come il capitano della squadra di football, che in queste trame in genere veste i panni del villain. La trama, vado giù con l’accetta, prevede che si apra un qualche spiraglio per il nostro eroe, la simpatia o l’arguzia laddove il capitano della squadra di football può contare sui muscoli e la prestanza fisica, poi però la faccenda si mette male e zac, ecco che il brutto anatroccolo, metaforizzo, non sto certo praticando body shaming, anche perché, vedremo, body shaming non è praticabile, viene fuori per essere il bellissimo cigno, sempre lì, alla porta accanto. Tutto è bene quel che finisce bene, verrebbe da chiosare, non fosse che il tutto poggia su fondamenta fallaci, menzognere. Primo punto fallace, la vita non va praticamente quasi mai così, la ragazza goffa e intabarrata, sciolti i capelli e infilati abiti più succinti, spesso apparirà altrettanto goffa e intabarrata, mica è un caso che a vestire quei panni spesso chiamino attrici che anche in tale guisa risultano incredibilmente sexy. Secondo punto fallace, anche le ragazze goffe e intabarrate, in genere, perdono la testa per il capitano della squadra di football. No, non è vero. Sto giocando su stereotipi di una bassezza incredibile. E questo paragone è comunque fuorviante.
Mettiamola così, vi ho intrattenuto per un po’ sproloquiando di qualcosa che con quel che volevo dirvi nulla ha a che fare.
È uscito Marocco Speed dei Leda, secondo album della band capitanata da Serena Abrami, e oltre essere un disco di una bellezza conturbante, è anche un lavoro che tanto scarta di lato rispetto alla carriera iniziale della stessa Abrami, da lasciare letteralmente spiazzati, quasi frastornati. Per questo ero partito dall’idea della ragazza della porta accanto, la metamorfosi, ma cannando del tutto la resa. Anche perché, qui l’ulteriore meraviglia, Marocco Speed dei Leda ci presenta una band, e quindi la sua leader, in splendida forma, ma Serena Abrami, e anche i suoi Leda, nell’esordio Memorie dal futuro, datato 2019, sono sempre stati in splendida forma, in tutte le pelli fin qui mostrate. Quindi un magnifico cigno che si trasforma in un altro magnifico cigno, volessi proseguire per quel sentiero evidentemente per me minato.
Il fatto è che Marocco Speed, uscito un po’ a sorpresa dopo mesi di attesa, prende l’essenza eterea con cui Serena Abrami si è fin qui mostrata al pubblico, evocativa, emozionante, ma sempre e comunque poco carnale, e ce la mostra in una veste assolutamente inedita, tattile, palpabile, fisica. Il lavoro che ha fatto sull’uso della voce, e stiamo parlando di una delle voci più intense e belle del nostro panorama italiano, non dico niente di nuovo, non a caso ha collaborato a inizio carriera con gente come Ivano Fossati e Pietro Cantarelli, mica due di passaggio, è davvero notevole, al punto da aver tirato fuori una cifra assolutamente nuova, conturbane, cifra che ottimamente si sposa con canzoni che risultano apocalitticamente cupe, disturbanti di quella magnifica tipologia di canzoni che ci lasciano addosso un retrogusto a metà strada tra l’ansia e lo spossamento eccitato di chi ha vissuto dalla punta dei capelli a quelle dei piedi un’esperienza totalizzante. Il tutto dentro un suono che è altissimo, parlo di resa, attuale come pochi se ne trovano in Italia, continui riferimenti a certo alt rock britannico, rimandi a melodie arabeggianti, qualcosa che, volessimo o dovessimo per forza allestire paragoni, Dio non voglia, ci spingerebbe a tirare in ballo i CSI, volendo anche i Massimo Volume.
L’essere compiaciutamente disturbanti, credo, sia caratteristica che i Leda ostentano per voler prendere le distanze da un passato pop della stessa Serena Abrami, come la nostra amica del cuore che sfilatosi di bocca l’apparecchio per raddrizzare i denti e il maglione oversize che ne nascondeva il fisico in realtà statuario, non ha alcuna intenzione di tornare sui propri passi, gesto comprensibile, e del quale dobbiamo rendere grazie a Dio, perché questa sanissima inquietudine che ci viene tirata addosso a secchiate brano dopo brano è quanto di più utile per continuare a sentirci vivi in mezzo a tanta apatia, seppur, noi, guardiamo a quel passato con decisamente più affetto di quanto non sembra voglia fare la stessa cantante marchigiana. Nei fatti, e qui continuo a imbastire parallelismi che non sarebbero necessari, posso dire che Marocco Speed è insieme a De-Sidera di Cristina Donà, uscito ormai da qualche mese, il lavoro italiano che meglio di tutti riesce nell’impresa di fermare l’oggi su traccia, e l’oggi è quantomai straniante, converrete tutti con me.
Ora, ho parlato a lungo dei Leda concentrando la mia attenzione quasi esclusivamente su Serena Abrami, ma i Leda sono una band, e anche questa è scelta per certi versi spiazzante, un Jack Frusciante che è entrato nel gruppo provando anche a nascondercisi dentro, non fosse che la voce, stavolta più che all’esordio, è così potente, non parlo di decibel, da rendere questo nascondersi impossibile. Non basta certo dipingersi il corpo di nero, come un ninja, per potersi mimetizzare col buio circostante, quando il petto si alza e si abbassa in un respiro affannato, vitale, la voce capace di accendere riflettori che, si spera, presto arrivino dall’esterno, regalando a questo ensemble il successo che merita.
Magari potrebbe agevolare la cosa il duetto con Paolo Benvegnù, Tu mi bruci il brano, e reggere la scena con una voce così evocativa era riuscito in passato solo a Sara Mazo, negli Scisma, stiamo comunque parlando di un’altra artista gigantesca.
Resta che Marocco Speed è già oggi, a fine aprile, uno dei dischi più belli tra quanti usciti in questo 2022, e difficilmente qualsiasi altra opera potrà scalzarlo dal podio. Provate anche voi un corpo a corpo con i Leda, ne uscirete spossati, come quando ci si accorge di essere vivi.