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Home Musica

Iggy Pop, 75 anni senza mai raggiungersi

Iggy è stanco, vede morte ovunque attorno a sè e la canta con l'abituale sincerità, brutale sia che s'imbarchi in una parodia disco in 4/4, in un fiotto di rock nostalgico, in un flusso di coscienza jazz, in una brezza sintetica, fredda e impotente come un orgasmo che non viene

di Max Del Papa
21/04/2022
INTERAZIONI: 104

INTERAZIONI: 104

Photo by commons.wikimedia.org - Brenden

Settantacinque oggi e Iggy Pop non demorde. Anzi si prepara per l’ennesimo giro, un nuovo tour europeo che partirà proprio dall’Italia, nella piazza Sordello ducale dei Gonzava e di Virgilio e “Mantua me genuit”. Fa ancora il diavolo su un palco, ma quando è a casa si appoggia a un bastone. “I miei muscoli reggono meglio delle ossa, le ho sforzate troppo, sono logore”. Iggy col bastone, per reggere il peso di un carisma disastrato, anche se è pulito da trent’anni, anche se ha smesso di fumare già nel 1998, quando s’era ritrovato al fondo di una depressione, autorecluso nella Avenue B. Iggy che arranca, lacerato e tetro, portandosi addosso il peso di una folle saggezza. Perché, alla fine, le idee più chiare sull’eterno sciroccato Iggy Pop, le ha sempre avute Iggy Pop: “Sai, io non sono mai del tutto di moda e mai del tutto fuori moda”. Frainteso come uno che non riesce ad essere credibile a dispetto dei santi. Ha precorso il punk, dicono, ma non era proprio punk, era qualcosa di diverso, di più feroce. In tarda età si è dato alla raffinatezza d’autore, ma dicevano che non era da lui, che uno così non poteva. Invece poteva e come. Da ultimo, circa tre anni fa, lo splendido Free, di ispirazione, tanto per cambiare, tardoboweiana, un coacervo di suggestioni mirabilmente spassionate.

“Voglio essere libero… libero… Io voglio essere libero…”. Free non era in programma: Post Pop Depression, con Josh Homme, tre anni prima avrebbe dovuto suonare l’ultima campana, ma Iggy è refrattario al canto del cigno, la sua libertà è oggi quella di afferrare il volo di un gabbiano; e il gabbiano è lui, che sospinto dalle correnti del suo tempo guarda alla vecchiaia, all’amore, alla morte, le private enormità irrisolte della vita. Libero, irredento, bastonato. Sempre sospeso nell’equivoco, appeso a un gancio che lo fa oscillare tra l’essere fuori moda e l’essere altrove. Settantacinque anni e la coscienza di un peccatore: se ti chiami Iggy, può farti paura ogni giorno del tuo passato. E ha ragione lui: mai stato del tutto affidabile, mai completamente accettato, neanche quando trovò, proprio grazie a Bowie, il modo di risalire dai suoi baratri e smise di alternare cliniche psichiatriche, bordelli tossici e fossi nei quali abbandonarsi dopo un concerto mentre tutti lo cercano, costruendo la sua nuova leggenda lontano dagli Stooges, specie all’inizio degli anni Novanta quando si rilanciò definitivamente, e in modo clamoroso, con l’inaspettato American Caesar. A quel punto si è trattato solo di amministrare l’Iggy di sempre, che non c’era più, c’era un vecchio saggio a replicare la pazzia.

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Eppure anche quell’Iggy avviato lungo il sentiero della senilità restava, resta un disadattato, un marginale, il corpo sempre più cadente nella sua palestrata tonicità. Lui è quello sbagliato, da ammirare e compatire, quello mette sempre un po’ paura. Iggy è stanco, vede morte ovunque attorno a sè e la canta con l’abituale sincerità, brutale sia che s’imbarchi in una parodia disco in 4/4, in un fiotto di rock nostalgico, in un flusso di coscienza jazz, in una brezza sintetica, fredda e impotente come un orgasmo che non viene. Proprio queste vibrazioni a stiletto, quest’agitarsi di tende lacere dietro le quali indovini la morte, sono ormai la cifra di un artista che in limitare di vita abbraccia percezioni imprendibili più che furori raggrumati, propone malattie incurabili che non vuoi guarire perché sono parte di te, perché senza quelle sei niente. L’ex studente che si immaginava Presidente e finì per diventare un terrorista sonoro, è vecchio e stanco, ha l’irrazionale paura, confessata spesso, di finire povero e invalido in un ospizio, proprio lui che ha passato la vita a mutilarsi in scena. È un animale dalle zanne che hanno addentato troppe cose, dagli occhi che tradiscono uno stress post traumatico risolto in saggezza: eccomi, sono lo sciamano che forse questa volta vi deciderete a prendere sul serio.

Eppure no, non tutto è stato invano, no, non sarò solo cenere nelle ombre, qualcosa di me resterà pure e il mio spirito, il mio spirito vagherà libero come non era mai stato. Non è pacificato, Iggy, sta solo buttando fuori tutto il veleno che gli resta. Si concede una malinconia furibonda cantando su scenari oscuri, e la quinta è il film di una vita talmente squallida, esaltante e deragliata da non parere vera. Trascendentale e desolato, Iggy si fa largo in una foresta di fantasmi: arranca nella voce tra il ringhio cavernoso e una fragilità bianca, di vecchio. Di vecchio col bastone. Ed è la voce, alla fine di tutto, a marcare l’eroe negativo, a volte crudele. Sfumature per celebrare la paura. Paura di quel che si è vissuto, paura di ricascarci ancora. Paura del distacco con cui guardare il mondo. Paura di un gabbiano, di quel che rappresenta. Paura che non possa più volare. Paura della notte che attende, fino a un’alba che è un tramonto alla rovescia, che consegna quella libertà mai potuta. “Se tutto il resto fallisce, è bello sorridere al buio”. Iggy ha sempre perso, anche quando ha vinto. Solo che non può fermarsi, altrimenti i fantasmi lo prendono. E allora un altro palco e un altro ancora fino a che quel corpo non cederà in scena, sfrollandosi come un palazzo carico di memoria. In questo agitarsi ostinato, da burattino oltre la morte, in questo cantarsi nel grembo del destino Iggy è più violento, più brutale di quando si amputava, brandelli di carne tenuti su con lo scotch. Iggy Pop guarda giù, vede chi era, ne ha sgomento. Sa di non poterlo evitare, chè noi siamo quel che siamo stati e non c’è rimedio. Gli rimane una gigantesca disinvoltura per interpretare in pubblico il suo alter ego, il mr Hyde del seducente James Newell Osterberg, l’amabile studente che si interessava di politica, di letteratura, con un quoziente intellettivo clamorosamente oltre la media. Ma destinato a farsi divorare da Iggy dal sesso sproporzionatamente oltre la media, a zampillare sangue, il suo sangue sulla folla, addormentarsi in un fosso, ritrovarsi in una clinica psichiatrica, fare inorridire tutti. E ripartire, sempre, dal prossimo disastro.

Perché è andata così? Cosa rimane di me? Sarò davvero libero, adesso che non ho più paura? E allora io mi faccio polvere di stelle, faccio un disco vorticoso, di maree vischiose, di risacche urlanti ed echi a spirale e coscienze che latrano e lo lascio come ultimo canto di un cigno mannaro. Io mi squarto l’anima, quel che ne resta, come posso fare solo io, perché nessuno ha i miei fantasmi così zuppi di sangue. Io, 75 anni, ancora irrisolto, contorto, infantile e senile e saggio, sempre più avviluppato nella consapevolezza dell’ineluttabile. È una cosa breve la vita, e così dura.


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