Un Altro Mondo, distribuito in Italia da Movies Inspired, conclude una trilogia che insieme Stéphane Brizé (regista) e Vincent Lindon (eccellente protagonista) hanno condotto in questi ultimi anni sul tema del lavoro, visto attraverso tre prospettive differenti e complementari. Quella del lavoratore precario di mezza età in un mercato sempre più polverizzato (La Legge Del Mercato), il sindacalista che cerca di trovare un punto di mediazione (impossibile?) tra tutela dei dipendenti e massimizzazione dei profitti (in un film inequivocabilmente intitolato In Guerra, il più militante e disperato della trilogia) e, con Un Altro Mondo, un salto dall’altro lato della barricata raccontando un dirigente che, almeno teoricamente, rappresenta le istanze della proprietà.
Brizé sgombra subito il campo da possibili letture “disumanizzanti” del manager: Philippe, il 57enne direttore di una fabbrica francese di proprietà di un gruppo industriale americano, ci viene presentato attraverso le fotografie della sua vita e della sua famiglia, con moglie e due figli, che immediatamente ne definiscono la figura di individuo assolutamente simile a ognuno di noi, con la sua storia privata e, come vedremo, i suoi problemi.
Philippe è al centro di fortissime tensioni. Da un lato l’azienda, nonostante i buoni profitti e la fase di crescita, ha chiesto un ridimensionamento che lo obbliga a licenziare il 10% degli operai. Dall’altro, proprio le difficoltà di un lavoro fagocitante hanno condotto al capolinea il suo matrimonio con Anne (Sandrine Kiberlain), e a una separazione sofferta e, comunque, non recriminatoria. Allo stesso tempo esplode la crisi del figlio Lucas (Anthony Bajon), giovane studente che comincia a manifestare dei comportamenti patologici (forse schizofrenia?) che necessitano di un ricovero.
In Un Altro Mondo Brizé è bravissimo nel restituire la sensazione di un individuo accerchiato e asfissiato da un mondo sempre più performante e competitivo che da uomini come Philippe pretende risposte e decisioni drastiche. La regia costruisce un montaggio quasi senza soluzione di continuità che tiene insieme vita professionale e vita privata, nella quale, sensazione ormai ben nota, è diventato sempre più arduo trovare la linea di separazione tra l’una e l’altra. E sempre, in ogni situazione, la camera si mantiene vicina al protagonista, per radiografarne le reazioni e per indicare anche il senso di solitudine provato all’interno di una realtà che sembra sempre più estranea e irriconoscibile.
Philippe è impegnato in sfiancanti e frustranti riunioni in azienda, sia con dipendenti e rappresentanti sindacali che chiedono di essere rassicurati sui paventati licenziamenti, sia con i superiori, compreso il Ceo americano, che spingono a soluzioni impietose per reggere l’urto di un mercato sempre più competitivo e affamato di profitti. E il protagonista cerca faticosamente un punto di equilibrio tra le due esigenze, volendo rispondere alle richieste della proprietà ma senza sacrificare gli uomini che lavorano con lui.
Il film è ricco di notazioni stilistiche e simboliche da cui emerge, senza bisogno di troppe parole e troppi didascalismi, il punto di vista di Brizé e del suo sceneggiatore Olivier Gorce. Philippe è mostrato mentre si allena sul tapis roulant, impegnato in una frustrante e inutilmente faticosa corsa da fermo. Ed è lancinante il lungo monologo del figlio Lucas quando viene ricoverato: il ragazzo, che studia alla business school, non fa che parlare ossessivamente di numeri e misurazioni, e le sue farneticazioni utilizzano più o meno la stessa lingua e gli stessi dispositivi logici cui è obbligato a ricorrere Philippe nel suo lavoro, svelandone l’assurdità. Significativo è pure l’esercizio riabilitativo assegnato a Lucas, che consiste nel muovere un burattino con dei fili, cosa per la quale però è indispensabile la collaborazione anche di un’altra persona. Il che ricorda a Philippe e allo spettatore che, per rimettersi in movimento – e non continuare a correre da fermi come fa lui – è indispensabile affidarsi alla cooperazione e dismettere le parole d’ordine della competizione e del conflitto.
Un Altro Mondo richiama il bisogno di trovare nuovi comportamenti e nuove parole per non smarrire la dignità e per non ridurre ogni cosa a calcolo, riformulando una scala di valori nella quale si stabiliscano le autentiche gerarchie, distinguendo ciò che è essenziale da ciò che non lo è. In questo senso è esemplare la sequenza in cui, costretti dalla crisi, Philippe e la quasi ex moglie Anne decidono di vendere la casa di famiglia. I possibili acquirenti parlano con entusiasmo della bellissima dimora che sicuramente compreranno. Eppure noi non vediamo mai né loro – ne sentiamo solo le voci – né l’appartamento.
La macchina da presa resta sempre fissa sul volto di Philippe e di Anne: non solo per coglierne l’ovvia delusione e le apprensioni, ma anche perché, forse, la perdita della casa, pur dolorosa, non è così importante. Prima di quel che si possiede vengono l’umanità, le relazioni, quel che si è come persone e come collettività. Ed è esattamente ciò che – ai superiori che gli chiedono per il bene dell’azienda comportamenti contrari alla sua etica – cerca di spiegare Philippe, con parole da uomo e non da suddito che rimandano idealmente a quelle di un altro dei film politici più accorati degli ultimi anni, Io, Daniel Blake di Ken Loach.