Ci sono storie che non hanno bisogno di degenerare in farse perché ci nascono già. Una è quella degli Oscar, di Will Smith che in versione Muhammad Ali affronta il comico Chris Rock dopo una battuta sulla moglie. Hai visto che sberlone, ma no era un pugno, ma quale pugno era tutto inventato, ma cosa dici era incazzato sul serio, ma era solo una battuta, ma dai era una allusione sulle corna, ma blinda la supercazzola brematurata. Il mondo a quel ceffone s’è fermato, in Ucraina hanno smesso di invadere, Draghi ha smesso di farneticare, Speranza di inventarsi nuovi modi truffaldini per mantenere il greenpass che ormai è un feticcio erotico. Poi l’inevitabile fallout: i social si dividono, chi sta con la stella, chi col conduttore, chi scomoda il femminismo, che veste su tutto, chi il razzismo, che ci sta sempre bene, chi se la prende con la degenerazione dell’Occidente, con la Nato, col riscaldamento globale. Ha fatto bene, ha fatto male il focoso Will? Poteva risparmiarsela l’irriverente Rock, visto che infieriva sull’alopecia che è comunque una brutta rogna? Poi le inevitabili scuse, del sapore: ho sbagliato, ho compiuto un gesto imperdonabile, però hai visto come l’ho fatto secco. E i retroscena, sempre più copiosi: si è saputo che mr Smith era stato caldamente invitato a lasciare la sala, lui invece è rimasto, è tornato a sedersi, ha detto al non troppo bravo presentatore “chiudi quella fottuta bocca”, si è preso il suo Oscar e gli hanno fatto la standing ovation. Gli stessi colleghi che un minuto prima erano rimasti a bocca aperta, Nicole Kidman in modalità “one size fits all”. E l’Academy si mette idealmente sul lettino dello psicanalista: abbiamo sbagliato? Dovevamo intervenire? Cacciarlo a calci in nome della tolleranza? Bestia che figura, avevamo tutti il distintivo dell’Ucraina contro la violenza. Comunque non succederà più, vareremo un severissimo regolamento, appena uno inarca le sopracciglia, magari dopo essersi sentito dare dello stragista cannibale, è fuori. L’America, traumatizzata, si mette in discussione, il Black Lives Matters (fondato da una affarista che si circonda di soli bianchi, vive in un quartiere di lusso che più bianco non si può e in due o tre anni ha messo insieme l’equivalente di un compenso per un film di Will Smith) si spacca, l’ala dura, “ha fatto bene, il mondo è una gang”, deve fare i conti con quella pacifista, “i fratelli non tocchino i fratelli”. E qui affoga sia il senso dell’umorismo, sia quello dell’onore, dell’educazione, dell’ironia, dell’espressione, tutti così sopra le righe, tutti così rozzi, così provinciali, sia pure a Hollywood.
Ha ragione Federico Rampini, questa moda delle superstar cui appaltare i lineamenti della morale ha abbastanza rotto, tanto più che non ci credono: tutto quello che fanno, lo fanno col pensiero al prossimo ingaggio, agli sponsor, a un nuovo villone, a un altro trilione e se postano qualcosa non sono loro, sono le mastodontiche società di comunicazione che si occupano di tutto per farli sempre risplendere; da cui una ossessiva quanto falsa enfasi sui valori buoni e giusti, sul rispetto, sulla tutela delle minoranze, che tanto minoranze non sono più, sull’autodafè dell’America e, di riflesso, dell’Occidente, sempre seguendo la massima di quell’impresario della boxe: non è mai per soldi, è sempre per soldi. E quando una cosa è soffocata dall’enfasi, prima o poi genera rigetto. Questi vivono nell’iperuranio, sai quanto gliene frega di cambiare il mondo: difatti, alla prima occasione sbroccano e così svelano la totale falsità delle loro pose, dei loro discorsetti da Mister Perfettino. Will Smith era talmente contrito che subito dopo è andato a sbracarsi a una festa esclusiva con la statuetta in una mano e la mano della mogliera umiliata e offesa nell’altro: mai visti così euforici; l’altro, la vittima, ma forse più di se stesso, della propria stupidità, ha inanellato una serie di tutto esaurito ai suoi spettacoli (forse così stupido non è); all’ultimo, in segno di pace, ha scatenato il pubblico con una controstanding ovation di 2 minuti secchi durante i quali non è mai scemato il coro “Will Smith fottiti”. Bravi come gli americani, a spremer sangue anche dalla merda… A proposito, ha avvertito Rock: “Parlerò presto di questa merda”. Suona come una minaccia, più che altro per chi ascolterà, ma intanto Smith è subissato di proposte, di richieste, pare gli abbiano perfino proposto un corso di manrovesci. Cinematografici, s’intende. Sono cose che fanno riflettere, forse è proprio vero che, come diceva Franz di Ciccio a Jerry Calà, “l’occidente è fottuto”.
Alla fine della farsa, resta un insopportabile tanfo di cialtronaggine da tutti e per tutto. Will che si finge addolorato e sciala in banalità ghandiane; la moglie che forse firmerà un libro, “la mia alopecia”, e intanto non dà i resti a furia di interviste, è diventata l’equivalente di un virologo da noi e proclama: la cosa più importante è la famiglia, sono momenti come questo che ti fanno capire che tutto il resto è niente. Certo, come i cinquanta milioni per un film e altrettanti per una miriade di pubblicità che la coppia del Mulino Black Smith-Pinkett è pronta a difendere con le unghie e con i denti, preferibilmente quelli di Chris Rock. Il quale, per non essere da meno, regala perle di saggezza come la seguente: non ho ancora elaborato lo schiaffo, non ho ancora battute pronte. Forse no, ma questa è la sua migliore da chissà quanti Oscar a questa parte.