E se si scontrassero i nazisti e la Banda della Magliana chi vincerebbe? Chissà, potrebbero essere partiti da una domanda del genere gli sceneggiatori, Alessandro Aronadio, Andrea Bassi, Renato Sannio e Massimiliano Bruno – quest’ultimo pure regista e coprotagonista –, di C’Era Una Volta Il Crimine, terzo episodio di questa serie cominciata con Non Ci Resta Che Il Crimine e proseguita con Ritorno Al Crimine.
Ora è chiaro che dopo il postmoderno, che ha portato allo sdoganamento di qualunque pratica testuale, invitando alle ibridazioni e ai pastiche di stili all’insegna di un’ironia generalizzata, tutto è diventato possibile. E come ha insegnato lo stesso Tarantino da Bastardi Senza Gloria in poi, è nel legittimo potere del cinema riscrivere i fatti storici in una mescolanza di parodia e gusto dello sberleffo, assecondando un piacere della messinscena ludico e insieme trasgressivo.
Per cui, abbinando questo tipo di approccio ormai canonizzato all’idea del viaggio nel tempo, diventa impossibile resistere alla tentazione di trattare la Storia come un grande baule di storie dal quale lo sceneggiatore può scegliere epoche, vicende e protagonisti tutti intercambiabili, rispetto all’uso dei quali coerenza e logica costituiscono un fattore marginale, tutto dipendendo dalla possibilità di ricavarne una gag o una battuta divertenti.
Ed è per questo che in C’Era Una Volta Il Crimine, i nostri eroi, Marco Giallini, Gianmarco Tognazzi e Giampaolo Morelli (in sostituzione di Alessandro Gassmann), stavolta vengono spediti al tempo della Seconda guerra mondiale, nei dintorni dell’8 settembre 1943, obiettivo trafugare la Gioconda e sistemarsi per la vita (sempre una banda sono).
Da lì parte una vicenda che nell’accumulazione anche di generi cinematografici, a Tarantino e a Ritorno al Futuro e a Non Ci Resta Che Piangere (in una versione che non dimentica pure i vanziniani A Spasso Nel Tempo e, per i lucciconi nostalgici, Torno Indietro E Cambio Vita), aggiunge pure la strizzatina d’occhi alla commedia all’italiana dei primi anni Sessanta del ciclo resistenziale di Una Vita Difficile e Tutti A Casa. Tenendo conto anche de La Grande Guerra monicelliana per quel che riguarda la scena del plotone di esecuzione, che è un film sul primo conflitto mondiale, ma va bene lo stesso.
Per mantenere un minimo di credibilità e verosimiglianza, Morelli interpreta un professore di storia esperto proprio della Seconda guerra mondiale, che parla come un libro stampato e consente allo spettatore di orientarsi nei passaggi principali. Per il resto c’è di tutto un po’, con molta picaresca avventura sulle tracce di una bambina da salvare dalle grinfie dei soliti terribili nazisti, una bimba che è in realtà la madre di Giallini (i lucciconi nostalgici di cui sopra), che ritrova pure la nonna femminista ante litteram (Carolina Crescentini). C’è un Mussolini ridicolo e ridicolizzato, che dice “l’orrore, l’orrore”, ripreso in penombra come fosse il colonnello Kurtz di Marlon Brando in Apocalypse Now, non perché ci sia qualche particolare attinenza, ma perché la pelata si presta alla citazione.
Poi c’è Pertini (Rolando Ravello) con pipa d’ordinanza, che manda in missione suicida i nostri eroi solo perché rosica dopo che l’hanno battuto a scopone. Secondo gli autori di C’Era Una Volta Il Crimine, forse non sbagliando, per l’italiano medio Pertini è il “partigiano presidente” della canzone di Toto Cutugno e quello che al ritorno dal Mundial dell’82 giocò a carte in aereo coi calciatori campioni del mondo. I fascisti cantano a squarciagola continuamente Faccetta Nera, i nazisti naturalmente si sdilinquiscono per Lili Marlene, Morelli parla a telefono con Hitler, Tognazzi in preda all’esaltazione dopo aver falcidiato un po’ di nazisti urla “Beckenbauer”, mentre il romanista Giallini infarcisce di “Rudi Völler” il suo grammelot paratedesco.
In fondo, di C’Era Una Volta Il Crimine si può accettare questo e altro. Nonostante tutto, il film funziona meglio dell’impresentabile Ritorno Al Crimine. C’è una cosa però di fronte alla quale persino la nostra buona disposizione s’arresta. Non possiamo dimenticare infatti che l’altro grande protagonista della saga, sin dal primo episodio, era il famigerato Renatino De Pedis (Edoardo Leo). Infelicissima trovata degli sceneggiatori che, per riandare alla mitologia del romanzo criminale, invece di inventarsi un personaggio di fantasia, ebbero la malaugurata idea di appioppargli il nome di uno dei più rappresentativi banditi della Magliana, forse implicato pure nel caso di Emanuela Orlandi, trasformandolo in un personaggio da commedia.
Già nel secondo episodio diventava una specie di controcanto morale, facendo il panegirico della criminalità dei bei tempi andati. In C’Era Una Volta Il Crimine andiamo oltre. Perché, chiedo scusa per lo spoiler, Renatino – e torniamo alla domanda da cui siamo partiti – dimostra che la gagliarda Banda della Magliana è più forte dei nazisti, che vengono sconfitti sulle note di Grazie Roma di Venditti (cui si abbina con gran disinvoltura La Libertà di Giorgio Gaber, forse per la questione della “partecipazione”. Comunque non è il caso di sottilizzare, coerenza e logica, l’avevamo già detto, non contano molto). Insomma, Renatino veste i panni dell’eroe della Resistenza. Che è un altro bel risultato di questa resistibile trilogia comica. Chissà che l’Anpi, solitamente abbastanza suscettibile, non trovi qualcosa da ridire sulla poco lusinghiera “appropriazione culturale”.