All’inizio di Luigi Proietti Detto Gigi Edoardo Leo racconta che quello sul grande attore romano sarebbe dovuto essere un progetto diverso, focalizzato sullo spettacolo spartiacque A Me Gli Occhi, Please, il cui successo travolgente nel 1976 non solo consacrò definitivamente il talento del suo fregolistico, torrenziale protagonista, ma dimostrò la possibilità di costruire un teatro insieme colto e coinvolgente, autenticamente popolare.
La scomparsa di Proietti però, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, il 2 novembre del 2020, ha obbligato a modificare almeno in parte il progetto, che Leo ha trasformato in un ritratto a tutto tondo dell’artista, seguendone la biografia dagli esordi sino all’affermazione, dai successi alle intuizioni a qualche dispiacere. Un ritratto che naturalmente, oltre alle interviste allo stesso Proietti, si arricchisce dell’uso attento di materiali d’archivio, testimonianze non solo di colleghi – Alessandro Gassmann figlio del suo grandissimo amico Vittorio, Paola Cortellesi, Renzo Arbore – ma anche di familiari, con un’affettuosa e informale chiacchierata con la sorella e le figlie di Proietti da cui emerge, con discrezione, il suo lato privato.
Luigi Proietti Detto Gigi è un’operazione giustamente celebrativa ma composta, in cui l’ammirazione di Leo – che con Proietti ha anche lavorato, in un adattamento teatrale del Dramma Della Gelosia di Ettore Scola – non sconfina nell’agiografia, e resta fedele all’impostazione del progetto, offrendo un’indagine su quella straordinaria macchina attoriale che fu Proietti.
Il cui segreto sta probabilmente nella natura molteplice dei suoi interessi e soprattutto della sua formazione, che parte dal night, giovanissimo cantante chitarrista di complessini che tra fine anni Cinquanta e inizio Sessanta s’esibiscono nei locali per guadagnarsi la giornata. Anche se Gigi, che abitava al Tufello, proviene da una famiglia normalissima e senza grilli per la testa che l’avrebbe voluto avvocato. All’università – che abbandonerà a sei esami dalla laurea – Proietti incontra il teatro, al Centro universitario teatrale con Giancarlo Cobelli, che gli farà fare le sue prime esperienze sul palcoscenico. Così di notte si dedica alle pratiche basse dei locali dell’esuberante notte romana – “Cantavo nei night fino all’alba, anche 80 canzoni a sera. Bevevo, sudavo, fumavo e ricominciavo mentre sotto, a un passo da me, tra puttane, avventori alticci e litigi per i conti faraonici, succedeva qualsiasi cosa”, ha raccontato una volta –, dall’altra di giorno prende dimestichezza coi classici.
La gavetta è intensa e veloce, concentrata in pochissimi anni tra il 1964 e il 1970. Il Gruppo Sperimentale 101 diretto da Antonio Calenda, il teatro Stabile dell’Aquila, dove Proietti è protagonista di messinscene di Moravia e Gombrowicz, fino al cinema, in particolare nei film del primo Tinto Brass, L’Urlo e Dropout (ma pure il Monicelli di Brancaleone Alle Crociate). A quel punto Proietti è diventato un attore serio del teatro di ricerca, cui aggiunge un suo approccio maniacale con esercizi sfiancanti per affinare l’uso della voce. E proprio allora il caso vuole, perché s’è sparsa la notizia di questo attor giovane bravo, prestante e ottimo cantante, che gli venga proposto da Garinei e Giovannini – campioni di un teatro agli antipodi, la commedia musicale del Sistina – di fare il coprotagonista di Alleluja Brava Gente accanto a Renato Rascel, dopo l’improvvisa defezione di Domenico Modugno.
È la svolta, un successo inaspettato e improvviso dentro il quale Proietti trova l’altra metà della sua vocazione, mettendo insieme la sua anima colta e quella popolare e inequivocabilmente romana – il rapporto con la città è un elemento essenziale del suo dna d’interprete. Importante è anche l’incontro con un’altra figura con la sua stessa impostazione, Roberto Lerici, commediografo che si muove tra alto e basso, tra La Storia Di Sawney Bean scritta per Carmelo Bene e i testi per la televisione. Insieme a Lerici, Proietti si sperimenta su entrambi i versanti: con Carmelo Bene, che l’aveva folgorato da spettatore nel suo Caligola e accanto al quale adesso è in scena, in una leggendaria Cena Delle Beffe; e poi in tv, con Fatti e Fattacci, quasi la prova generale della rivoluzione di A Me Gli Occhi, Please. Nel quale la sua vena da mattatore, capace con la sua presenza e il fraseggio infallibilmente musicale della sua voce di riempire il palcoscenico, trova la misura – o la dismisura – definitiva. E mette in luce la sua capacità di sintonizzarsi carismaticamente col pubblico, creando un dialogo che non s’è sostanzialmente spezzato mai.
Luigi Proietti Detto Gigi racconta puntualmente come questo spettacolo costituisca, non solo per lo straordinario successo, la matrice del teatro di Proietti, il nucleo della sua impostazione in cui linguaggi e registri si mescolano raggiungendo il punto di amalgama. Attorno ad esso germinano le altre esperienze dell’attore, tra l’amato teatro, il cinema mai amatissimo e che non l’ha mai riamato troppo (a parte Febbre da Cavallo, la cui fama però è postuma, in sala non fu un successo), la televisione, dalle esperienze infelici (la conduzione di una edizione di Fantastico, che non era nelle sue corde) a quelle incredibilmente popolari (Il Maresciallo Rocca).
Dal documentario emerge un’altra vocazione di Proietti il quale, sempre nell’ottica di un teatro comunicativo e vicino al pubblico, oltre che interprete, si fa didatta e direttore artistico. È l’esperienza che lo accompagna sin dalla fine degli anni Settanta della direzione del Brancaccio di Roma, nel quale fondò un laboratorio in cui s’è formata un’intera generazione di attori (l’elenco sarebbe lunghissimo, da Giorgio Tirabassi a Massimo Wertmuller a Tiziana Cruciani), cui si aggiungerà la creazione negli anni Duemila, da una sua idea, del Globe Theatre a Villa Borghese, altro luogo pensato per avvicinare il teatro alla gente.
Nel documentario Proietti ricorda l’incontro emozionante con Eduardo De Filippo, che venne a vedere A Me Gli Occhi, Please. Alla fine dello spettacolo volle complimentarsi con l’attore, felice del fatto che ci fosse qualcuno tra i giovani che continuasse lungo la sua stessa linea. A quel punto della sua carriera in verità non aveva ancora dato inizio al suo “secondo mestiere” di insegnante e direttore. Ma probabilmente Eduardo, che a teatro era stato attore, drammaturgo, capocomico, imprenditore (investendo di suo, e moltissimo, nella rinascita del teatro San Ferdinando a Napoli) aveva colto in Proietti quella passione totalizzante non da attore, ma da “uomo di teatro”. Questo è stato Proietti, un uomo di teatro: la cui dedizione, felicemente disseminatasi anche al cinema e in tv, è sempre però appartenuta alle tavole del palcoscenico, davanti e dietro la scena. Due dimensioni che gli furono entrambe congeniali, per quella vocazione a un teatro popolare per tutti. Questo Luigi Proietti Detto Gigi riesce a raccontarlo, ed è un merito di non poco conto.