Dieci anni senza Lucio Dalla, dieci anni con Lucio Dalla. Perché i grandi non muoiono mai. Ancora non sembra vero, questo uomo “peloso fuligginoso gradevolmente deforme”, simile al dio Efesto come lo vede Giorgio Bocca in una memorabile intervista su l’Espresso, altro che intervista, fu un duello fra due primedonne. “Ciao Dalla, sei l’intervista più difficile che mi sia capitata”, chiudeva Bocca dopo due ore di finte, controfinte, scarti, “i bolognesi sono degli amabili figli di puttana”. Ognuno aveva il suo Lucio. Renato Zero, che ai tempi girava con una gallina al guinzaglio, lo ricorda chiuso nell’ascensore della RCA, seduto accovacciato per ore, un pazzo vero, di quelli destinati a sbocciare dopo lunga inevitabile gavetta perché ai folli ci vuole di più per farsi capire. Oggi non ne fanno più così, oggi ci sono i succedanei e pretendono di essere originali. Ma i disadattati veri li riconosci perché sono contagiosi, mandano vibrazioni stralunate anche dall’aldilà, a me capitò di vivere la morte di Dalla in condizioni surreali, ma è meglio dire bizzarre: ero andato a trovare Piero Pintucci, il direttore d’orchestra, il compositore del Carrozzone, tra le altre, per Renato Zero, ma anche per Gabriella Ferri, Mia Martini, Mina (Tutt’al più) e tanti altri e Piero era strano, diceva non lo so ma non mi sento bene, sento qualcosa di cattivo, di triste; non voglio vedere i messaggi, non rispondo, temo qualcosa.
Finché ci mettiamo a tavola, gli spaghetti già fumano nei piatti, quando piomba la notizia. Pintucci abbassa gli occhi sul piatto, scuote la testa: “Lucio, Lucio…”, come se teneramente non gli perdonasse quella partenza a tradimento. L’aveva incontrato a Sanremo solo pochi giorni prima: Dalla, dirigendo l’orchestra, aveva pure suscitato qualche astrusa polemica da chi non gli perdonava quel suo eterno entusiasmo di artista. Il destino sa infierire: i telegiornali mandano di tutto, la notizia è sconvolgente, e fra i tanti spezzoni di repertorio ne affiora uno, rarissimo, di Dalla a Sanremo, nel ’71: tre chitarre, le altre due sono di Claudio Mattone e di Piero Pintucci. “Lucio, Lucio…”. E ci vuole tanto, troppo silenzio prima che i ricordi di si sblocchino, cominciando a gocciolare su un desco desolato. “C’era questo enorme montacarichi alla Rca, talmente grande che ci trasportavano gli strumenti, perfino i pianoforti. Lui andava a nascondersi in fondo ed era capace di starsene lì dentro anche due o tre ore mentre l’ascensore andava su e giù. Non lo si notava nemmeno, pareva in camera sua. Diceva che lo aiutava a pensare”. Stralunato, senza dubbio. Ma capace, dote non comune in quegli adorabili egocentrici che sono gli artisti, di telefonare per il puro piacere di congratularsi: “Era appena uscito EroZero, che per Renato avevo prodotto e arrangiato insieme al povero Ruggero Cini, un disco del quale andavamo davvero fieri”: un giorno mi arriva una telefonata: ‘Che bell’album, Piero, che capolavoro avete fatto!’. È stato l’unico, capace di un gesto così. Ma lui era anche quello che veniva a presentarsi, a darti la mano come fosse stato un perfetto sconosciuto anziché l’artista che era. Sai, quando si dice una persona vera, di una modestia autentica? Tutti, quando entrano in una stanza dove c’è gente, cambiano atteggiamento. Lui no. Tutti, quando si ritrovano al centro di una occasione pubblica, una intervista, una ripresa, si trasformano in qualcun altro. Lui no, non l’ho mai visto reagire così”.
Nessuno ricorda un gesto arrogante o scostante di Lucio Dalla, che ancora si fermava a parlare di tutto con tutti nel centro di Bologna, come un bambino che si era volutamente perso. Al massimo, se la pigliò con Carlo Verdone ai tempi di “Borotalco”, qualcosa di vanitoso, di nomi sulla locandina, ma poi tutto rientrò, Dalla andava fiero di quel film per il quale aveva fatto la colonna sonora.
Il cordoglio non è mai passato, insieme al rimpianto: a 70 anni Dalla, dopo dischi anche sbagliati, controversi, sembrava aver ritrovato la vena migliore, si congedava con Angoli nel cielo, che è tutto bello dall’inizio alla fine, roba da classici. Poi la solita ondata di raccolte che non finiranno mai. “Non può essere vero” e invece era vero, un concerto a Montreux, un risveglio, un infarto, e non resta che scuotere la testa e resta solo un ciao. Torno a quella giornata così difficile e così bella, a Piero Pintucci che d’improvviso si alza, va al piano elettrico, si mette a improvvisare. Sta suonando il suo rimpianto, il suo sentirsi solo. Più solo. Quando smette ha gli occhi velati di lacrime. Lì io ho visto il dolore farsi musica. Ho visto la musica accendere altra musica. Gli dico di registrarla, quella melodia, che poi la pubblichi o se la tenga per sé non è importante, ma deve vivere, perché quella vibrazione che adesso il suo amico è diventato si metterà in sintonia, la musica chiama musica, da percorsi misteriosi. Pintucci sorride tristemente come solo chi ha perso un amico, un piccolo grande amico, può sorridere.
Ma Lucio Dalla diceva che la morte è solo la fine del primo tempo. C’è un angolo nel cielo fatto apposta, quel centro di Bologna lì, dove si perdono i bambini e gli uomini piccoli pelosi fuligginosi è senza confini e quando scende la sera dei miracoli c’è il beat, c’è tutto il ritmo che si vuole, ma il tempo no, quello è stato sconfitto per sempre. Resta solo la musica. Quale allegria, grondante quella sofferenza che ti fa bene, ti fa felice, con quella coda disperata, quello sgomento che sale al cielo, cerca un Dio, vorrebbe chiedergli, spiegargli, vorrebbe solo che ci fosse. Eppure Lucio Dalla non lascia malinconia, non lascia cupezza, c’è sempre come un sorriso, una luce intorno al suo ricordo, sono passati dieci anni che non c’è più, adesso ne avrebbe ottanta ma è sempre qui con noi, quel piccolo, pazzo, fuligginoso figlio di puttana di un bolognese.