Il biopic di artisti del mondo della canzone è un genere sempre più frequentato dalle nostre parti in questi ultimi anni, tra toni e stili eterogenei. Si va dai ritratti più didascalici e assai puntuali dello specialista Giorgio Verdelli (su Pino Daniele, Mia Martini, Ezio Bosso, recentemente Paolo Conte), fino al raffinato lavoro sui materiali d’archivio di Pietro Marcello, che su Lucio Dalla ha realizzato con Per Lucio un affascinante lavoro tra poesia e sociologia, raccontando attraverso il divo della canzone un pezzo corposo di storia d’Italia.
La storia e il contesto sono invece fin dall’inizio messi da parte in Senza Fine, che Elisa Fuksas ha dedicato a un personaggio singolare come Ornella Vanoni, iconico, ingombrante, e anche ironicamente e volutamente col passare degli anni sempre più sopra e fuori le righe. L’incontro tra le due, con la Fuksas a svolgere un ruolo da coprotagonista del suo stesso film, avviene in un incongruo autogrill. E poi, da lì, si dirigono verso un ulteriore “altrove”, la struttura termale che diventa il set del documentario, in cui la Vanoni di oggi più che raccontarsi, si mostra, tra massaggi, bagni in piscina, esercizi fisici consoni all’età.
Che non ci sarà una vera e propria storia lo si capisce quasi subito, quando a porre le prime domande alla cantante è un fisioterapista, che le chiede di abitudini alimentari e comportamentali, e lei è ripresa dietro un paravento, solo una sagoma, un’ombra sfuggente. E tale resterà, un enigma senza risposte in Senza Fine, che procede lungo una durata che potrebbe essere indefinita, tra brandelli di conversazione, molti tempi morti nei quali, semplicemente la Vanoni è, ripresa mentre dice pochissimo di sé e del suo percorso d’artista – i nomi di Strehler, Gino Paoli, Vinícius de Moraes sono anch’essi ombre che appaiono fuggevolmente.
I filmati d’archivio sono pochi e riguardano quasi solo le canzoni più celebri, mentre le comparsate di Paolo Fresu, Vinicio Capossela, Samuele Bersani risultano ornamentali, non aggiungendo nulla di sostanziale alla vicenda. Che sembra voler ostinatamente seguire la radiografia della sua impasse, visto che sempre più emerge la difficoltà di realizzarlo, il documentario, con la Fuksas e la troupe – a un certo punto compare anche il produttore Malcom Pagani – che attendono inutilmente una Vanoni che lamenta una stanchezza e una frustrazione crescenti.
Nel mezzo c’è qualche piccolo lampo. Come quando la Vanoni dice che “un film su di me fino a un certo punto è reale. È bello finire la vita come una fiaba”. E a qualcosa di fiabesco, e poetico, la Fuksas cerca di aspirare, cominciando Senza Fine con un’inquadratura subacquea in piscina in cui la protagonista si muove vestita come fosse un essere mitologico e anfibio – e infatti talvolta si sorprende per la comparsa sul suo corpo di alcune squame, come stesse mutando in sirena.
Ma sono solo accenni, evocazioni di una narrazione in cui a prevalere è il senso di frustrazione. Non solo quello esplicitato dalla vocazione metacinematografica della regista, consapevole della mancanza di direzione di Senza Fine. Ma anche, purtroppo, quello dello spettatore che, pur catturato dal magnetismo fisico e in questo senso sì “animale” della Vanoni, la cui sola presenza si fa racconto carismatico, fatica a ritrovare il bandolo della matassa in una messinscena eccessivamente rapsodica, ferma all’eterno preambolo del documentario da fare, sempre al livello di abbozzo, di raccolta di appunti molto disordinati e fintamente poetici.
Una sorta di conclusione, in un film Senza Fine e senza finale, la Fukas la trova mettendo la Vanoni in una sala cinematografica a guardare la sé stessa di molti anni prima cantare Domani è un altro giorno. Si coglie nella serenità di quel momento la verità di un’altra affermazione della protagonista, quando dice di star vivendo “una vecchiaia per niente angosciante. Mi sono liberata di tabù e paure, mi diverto e cerco di far divertire anche gli altri”. Non ha perciò una natura marcatamente senile Senza Fine e insieme, e questo è un pregio, sfugge al ritratto agiografico. Ma lascia inevitabilmente l’impressione dell’occasione perduta, nell’assenza di una prospettiva forte attraverso cui raccontare l’artista, rifugiandosi nel piccolo cabotaggio della dimensione “meta” del documentario sul documentario, di cui non si sentiva la mancanza.