Parte subito con una sassaiola, spintoni e inquadrature a mezzobusto che ritraggono gli scontri, il film in proiezione nelle sale italiane in questi giorni, Il Legionario.
Si sente la fatica fisica degli agenti della polizia che scudi alla mano respingono i manifestanti. Un uomo non respira, si toglie imprudentemente il casco, gli altri gli fanno scudo, poi la carica e la folla, che per la verità sullo schermo è composta da poche persone, si disperde.
Capiamo subito che il protagonista di questa storia è Daniel (Germano Gentile) agente della celere, italiano di seconda generazione che ha lottato per farsi accettare e riconoscere come un membro di quella che Aquila (Marco Falaguasta) a capo del reparto definisce l’unica famiglia che conta. La stessa che continua a soprannominarlo in maniera razzista “Ciobar”, ma non l’unica con cui il protagonista dovrà aver a che fare.
A casa, infatti, ha una moglie incinta che lo aspetta e che Daniel cerca di tener lontana dalle preoccupazioni che riguardano il suo lavoro. Poi c’è la famiglia di provenienza che vive in un palazzo occupato al centro di Roma: È qui che lo aspettano la madre, il fratello minore e il suo nipotino ed è proprio di questa famiglia che Daniel nega l’esistenza quando è con i suoi colleghi.
L’equilibrio precario si rompe definitivamente quando tocca al suo gruppo sgomberare la palazzina occupata dal 2005 dove risiede sua madre. Per la prima volta le ragioni del diritto all’abitare e quelle del suo appartenere al reparto si scontrano a muso duro. La sua volontà vacilla; aveva promesso a se stesso che se mai avessero attaccato la sua famiglia, avrebbe lasciato la celere, ma ora qualcosa è cambiato. Ha un figlio che sta per nascere, un lavoro a cui si sente di appartenere e colleghi che non intende deludere: è il momento di decidere.
Il perché della scelta del protagonista e l’indagine dello spettatore sui sentimenti di timore o quelli di vergogna, sono al centro della sceneggiatura del film ad opera dello stesso regista insieme a Emanuele Mochi e Giuseppe Brigante.
La tensione del film Il Legionario, al cinema in questi giorni, è assicurata dai sotterfugi del protagonista e dalle soluzioni del regista che quasi vediamo lottare per un consapevole utilizzo del ristretto budget a disposizione.
Il Legionario (2021) è un film molto diverso da Diaz – non pulire questo sangue (2011) e più sulla scia di ACAB (2011), ma ha le sue peculiarità e sembra voler citare Pasolini sugli scontri di Valle Giulia del 1º marzo 1968 tra universitari e polizia. Riecheggiano, infatti, nelle orecchie dello spettatore le parole di Pier Paolo Pasolini “Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti, perché i poliziotti sono figli di pover (…)”
Il personaggio di Aquila a capo del reparto, esponente di un non meglio identificato gruppo politico di destra, non è sviscerato fino in fondo, così come non lo sono le vicende legate al fratello minore. La figura del parroco poi, che riattacca la luce al palazzo occupato, l’avevamo visto anche in tutt’altro genere di film “Come un gatto in tangenziale – ritorno a Coccia di Morto”.
Il regista Hleb Papou, nato in Bielorussia, vive in Italia dal 2003 è al suo primo lungometraggio. Il film ha un buon ritmo e funziona nonostante gli attori non convincano in tutte le scene. Uscito in sala solo un mese dopo la consegna delle 155.000 firme presso il Viminale da parte di Amnesty International Italia per la campagna a favore dell’introduzione di una legge sui codici identificativi per le forze di polizia impegnate in operazioni di ordine pubblico, il film non vuole affatto avere funzione di denuncia.
Il Legionario funziona perché resta un film intimo che racconta una storia di costruzione\riconoscimento di identità e appartenenza in una Italia che continua ad essere un paese pieno di contraddizioni e conflitti.