Fu abbastanza sfortunato Gli Anni Più Belli di Gabriele Muccino, quando uscì al cinema nel 2020. Il lancio programmato nella settimana di San Valentino regalò un primo weekend da tre milioni di euro, un risultato ragguardevole per una pellicola italiana. Purtroppo subito dopo esplose l’emergenza Covid, e quando il film tornò in sala a metà luglio per cercare di salvare il salvabile il momento giusto ormai era passato.
In ogni caso, Muccino resta uno degli autori italiani capaci di portare ancora il pubblico in sala, perché si interroga davvero sul tipo di target cui vuole indirizzarsi. Con lo spettatore Muccino dialoga, gli offre dei racconti nei quali riconoscersi, identificarsi, con i quali commuoversi liberatoriamente, e soprattutto attraverso i quali riuscire alla fin fine ad accettarsi e assolversi da peccati e peccatucci, sbandate, errori di (una forse troppo a lungo protratta) gioventù, sempre nel nome di una fedeltà a sé stessi, ai propri sentimenti sogni aspirazioni.
Muccino parla soprattutto alla sua generazione, che ha accompagnato nei decenni. Partendo dai liceali che s’affacciano alla vita di Come Te Nessuno Mai (1999), poi la prima maturità condita di tanta immaturità e insofferenza dei trentenni di un film già definitivo come L’Ultimo Bacio (2001), quindi il peso delle responsabilità e la conseguente crisi dei quarant’anni di Baciami Ancora (2010). In seguito, una volta terminata (definitivamente?) l’avventura americana cominciata con La Ricerca Della Felicità (2006) e conclusa da Padri E Figlie (2015), l’ambizione mucciniana è stata quella di ampliare ancora lo sguardo, passando dalla coralità già caratteristica dei suoi film a una dimensione da affresco.
I risultati sono stati, prima, A Casa Tutti Bene (2018), un altro successo da quasi 10 milioni, che già occhieggiando al modello di Ettore Scola prende di petto quella fondamentale cartina al tornasole dell’identità italiana che è la famiglia, riunendo nonni genitori figli nipoti su di un’isola, in una convivenza che fa detonare conflitti, amori, rimpianti. L’esempio di Scola da dissimulato è diventato esplicito, affettuosamente e rispettosamente citato, ne Gli Anni Più Belli, che sin dal titolo rimanda al tema principale del film, lo scorrere del tempo.
Muccino stavolta ha costruito una piccola epopea, che come il C’Eravamo Tanto Amati che ne costituisce la matrice, racconta quattro decenni, dagli anni Ottanta a oggi, di un quartetto di amici per la pelle che la vita e le alterne vicende uniscono, separano, riappacificano. Li conosciamo adolescenti negli anni di scuola, li vediamo trasformarsi poco a poco. Giulio (Pierfrancesco Favino) è il modesto figlio d’un meccanico che si laurea in legge e fa carriera, abbandonando vecchi legami e ideali (esemplato sul Vittorio Gassman del film di Scola); Riccardo (Claudio Santamaria), coi genitori fricchettoni, aspira purtroppo per lui a diventare critico cinematografico (l’intellettuale inconcludente alla Satta Flores?); Paolo (Kim Rossi Stuart), quello sensibile e introverso del gruppo, segue la trafila del precariato per diventare insegnante a scuola, eternamente innamorato della fidanzatina di gioventù, Gemma (Micaela Ramazzotti), la donna intorno a cui ruotano storie e passioni dei tre amici (a loro toccano quindi i ruoli di Manfredi e della Sandrelli).
Davvero ne Gli Anni Più Belli c’è riassunto tutto il cinema di Muccino, coi suoi non pochi pregi e i suoi limiti. La caratteristica principale del film, restando dentro il parallelismo con C’Eravamo Tanto Amati, è che la Storia con la S maiuscola – fondamentale nel film di Scola in cui nelle vicende dei singoli si rispecchiano le grandi trasformazioni di un paese passato attraverso guerra e resistenza, ideali della ricostruzione e loro tradimento – qui diventa il fondale sul quale i personaggi si muovono, senza che però gli eventi collettivi influiscano più di tanto sulle loro vite.
La storia la vediamo passare magari sullo schermo di un televisore – perché siamo ormai più spettatori che attori protagonisti –, scandita da tappe fin troppo prevedibili, la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli, l’11 settembre. Ma sono cose che scivolano addosso a Giulio, Riccardo, Paolo e Gemma. I quali restano sempre sé stessi, coi loro nomi e le loro biografie individuali. Il film ne ripercorre principalmente gli intrecci sentimentali, ricorrendo – almeno fino a un certo punto del racconto – allo stile a perdifiato tipico di Muccino, coi personaggi col cuore a mille trascinati dalle proprie emozioni.
E però la scelta del regista e del suo cosceneggiatore Paolo Costella non può essere tacciata sbrigativamente di superficialità. Perché la storia dei quattro amici comincia negli anni Ottanta, quella che è stata etichettata come l’epoca del “riflusso”, ossia il tempo in cui, dopo la fiammata del troppo impegno e delle troppe ideologie, si tornò progressivamente a prediligere il privato, rimettendo in primo piano sentimenti, carriera, piaceri. Infatti i protagonisti, da ragazzi, li vediamo uscire da una discoteca, non da una riunione del collettivo. Ed è per puro caso che incrociano una manifestazione di piazza (della quale Muccino non ci spiega nulla, chi protesta contro cosa e perché: non ha importanza), e quando Riccardo viene ferito negli scontri, ripete continuamente che lui con quelle cose non ha niente a che fare.
I protagonisti de Gli Anni Più Belli attraversano i decenni come se non ne fossero toccati intimamente, contano soltanto le loro vicende, in cui il personale non diventa mai “politico”, come si diceva una volta. In questo sono rappresentativi di generazioni, questa la prospettiva di Muccino, che il rapporto col contesto storico l’hanno vissuto in maniera via via meno viscerale. Più che col col proprio tempo diventa importante la relazione con lo spazio, specificatamente una Roma che lungo quarant’anni resta è il teatro accogliente, caldo, vivace delle loro vite, seguite lungo un ottovolante di emozioni, di prendersi e lasciarsi, di perdersi e ritrovarsi, in cui la vera maturità arriva solo grazie a quel passaggio fondamentale in cui da figli ci si ritrova improvvisamente genitori – compito arduo perché, è un altro tema del film, non è semplice essere di buon esempio per una generazione sostanzialmente senza padri e madri.
Alla fine però il bilancio de Gli Anni Più Belli non è nel segno dell’amarezza. Il risvolto dello stile brillante e rapinoso di Muccino, coi suoi movimenti di macchina eleganti e il montaggio ritmato, sta proprio nel riuscire ad andare così veloce da non far percepire le fragilità della sceneggiatura, i ritratti psicologicamente sommari dei protagonisti. I quali sembrano immersi in un avvincente fotoromanzo che spinge sul pedale della nostalgia, magnifico sentimento ricatto in cui le colpe si diluiscono, le sofferenze si smorzano, i rimpianti si accettano. E alla fine lo spettatore, cullato anche dall’epica del quotidiano di Claudio Baglioni – che nella canzone manifesto del film canta di “fughe da ribelli”, “ferite dei duelli”, “anime a brandelli” –, resta coi lucciconi a guardare dei personaggi che pensa gli assomiglino, sul cui volto vede gli stessi segni che il tempo ha lasciato su di lui.