Oggi sono trentaquattro anni che sto con colei che poi sarebbe diventata mia moglie, nonché madre dei nostri quattro figli. So bene che definire una persona, una donna tanto più, a partire dal suo essere moglie e madre è roba dei secoli scorsi, sintomo di un patriarcato che non ne vuole sapere di andarsene anche dentro gli ospiti meno accoglienti, ma insomma, credo di aver ripetuto in ogni luogo e in ogni lago quanto io mi ritenga una persona fortunata, proprio per aver incontrato Marina e per averci trascorso insieme la più parte della mia vita, non credo sia necessario ogni volta star qui a puntualizzare la cosa, un po’ come chi, scrivendo un pezzo zeppo di relative e di frasi lunghissime, uno a caso, si volesse incistare sul non ripetere mai una stessa parola, cercando ogni volta un sinonimo o un giro di parole in grado di sostituire la parola in questione, fatto decisamente necessario se si scrive un tema a scuola, su questo i professori tendono a essere poco elastici, ma del tutto inutile quando si fa altro, se voglio scrivere cento volte la stessa parola in un discorso credo di essere libero di farlo.
Quindi evviva, oggi sono trentaquattro anni che sto con Marina, all’epoca eravamo due giovani che facevano le superiori, poi di volta in volta siamo diventati altro, sempre e comunque insieme.
In quel lontano 1988, per dire, ero convinto nella vita avrei fatto l’impiegato in un ufficio possibilmente pubblico, figuriamoci, la vita è davvero imprevedibile se non ti immobilizzi in attesa che scorra via. Di lì a pochi giorni, a fine febbraio, sarebbe partito il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, edizione numero trentotto, quella vinta da Massimo Ranieri con Perdere l’amore, una delle più belle canzoni uscite dalla kermesse in questione. In quella edizione, condotta da Gabriella Carlucci con Miguel Bosè e la partecipazione di Carlo Massarini, erano in gara altre canzoni destinate a rimanere nel tempo, dalla durissima L’amore rubato di Luca Barbarossa, il racconto di uno stupro, classificatasi terza, a Mi manchi di Franco Fasano e Fabrizio Berlincioni, cantata da Fausto Leali, quinta, dall’iconica Italia di Mino Reitano, sesta, alla perla Quando nasce un amore del duo Cassano/Cogliati, interpretata da par suo da Anna Oxa, settima, via via passando per Le notti di maggio di Fossati, cantata da Fiorella Mannoia, inspiegabilmente solo decima, Inevitabile follia di Raf, la posizione seguente, Sarà per te di Francesco Nuti, una vera sorpresa, Io (per le strade di quartiere) di Franco Califano, Nella valle dei timbales dell’anomalo ensemble ideato da Mauro Pagani che rispondeva al nome I figli di Bubba, dove Bubba era il cronista delle partite dal Marassi a Novantesimo minuto, Come un giorno di sole di Zarrillo, Andamento lento di Tullio De Piscopo, Il mondo avrà una grande anima di Ron, prima o poi dovrò prendermi del tempo per scrivere meglio di questo incredibile cantautore e musicista, Ma che idea dei Denovo, Le tue chiavi non ho di Nino Bonocore e a chiudere Alan Sorrenti, esordiente al Festival con Come per miracolo. Secondo, come spesso a quei tempi, Toto Cutugno con Emozioni. Anche tra i giovani c’erano nomi interessanti, alcuni col tempo sarebbero diventati amici, penso a Andrea Mirò, a Bungaro, a Paola Turci, a Mietta, a Fausto Cogliati, dentro una band del giro di Eros, i Lijao, in gara anche due cavalli di razza come Mariella Nava e Biagio Antonacci, oltre che nomi di tutto interesse come Miki Porru, da anni al fianco di Red Canzian, sue le liriche di tutta l’opera Casanova, al momento in giro per teatri in Italia, e Stefano Palatresi, la sua Formula chimica, di quegli anni, una delle mie canzoni pop preferite di sempre.
Ricordo che quella finale l’ho vista a casa di un amico del nostro gruppo, Paolo, un parterre tutto al maschile, ricordo che Marina non c’era, nei nostri primi tempi non sempre la facevano uscire il sabato sera, so che oggi una cosa del genere suona quasi inverosimile.
Ma non è tanto del Festival che voglio parlare, quanto piuttosto di qualcosa che col Festival, con quel Festival, ha a che fare, e che ha anche a che fare col motivo per cui, in fondo, non sono finito a fare l’impiegato in un ufficio, possibilmente pubblico.
Perdere l’amore è stata scritta da due autori in qualche modo destinati a vedere proprio in quella canzone il picco massimo delle loro rispettive carriere, Marcello Marrocchi, autore delle musiche, e Giampiero Artegiani, autore del testo. Entrambi cantautori con una loro carriera e una collaterale carriera di autore conto terzi, Marrocchi, la cui carriera come cantautore era rimasta sempre nell’ombra, aveva azzeccato qualche canzone come Andiamo a mietere il grano, per Louiselle, o Chitarra suona più piano, per Nicola Di Bari, vincitrice di una Canzonissima nel 1971, andando poi a firmare La mia libertà con Franco Califano, la sigla dell’Apemaia e qualche altra canzone estemporanea, tra Minghi, i Collage e altri nomi prescindibili, Artegiani, a sua volta cantautore, aveva scritto un brano divenuto in qualche modo una hit, Acqua alta in piazza San Marco, con la quale aveva partecipato al Festival di Sanremo del 1984, per altro senza arrivare in finale, andando di nuovo in gara, tra i giovani, nel 1986, con …e le rondini sfioravano il grano, a Artegiani piacevano i titoli lunghi e evocativi, è un fatto, andando a tirare fuori un disco molto bello l’anno successivo la vittoria al Festival di Perdere l’amore, Dopo il ponte, andando comunque a firmare canzoni anche per altri artisti, dal Zarrillo di Come un giorno di sole, in gara sempre nel 1988, i due avevano fatto parte della band prog dei Semiramis, suoi i testi di tutti i brani dell’album di quell’anno del cantante di Cinque giorni, a Califano, insieme a Marrocchi, fino a scrivere e produrre i primi anni di quel talento non abbastanza celebrato che risponde al nome di Silvia Salemi.
Una artista dalla voce particolarmente intensa, Silvia, evocativa, che proprio con A casa di Luca, firmata anche da lei oltre che da Artegiani, si imporrà sul grande pubblico, andando poi a dar vita a una carriera di tutto rispetto, seppur piuttosto parca di pubblicazioni, anche di lei dovrei prima o poi scrivere in maniera più diffusa, il suo ultimo singolo I sogni nelle tasche, a distanza di un anno circa da Chagall, brano che vede la firma anche di Marco Masini, oltre che della stessa Silvia e Valerio Carboni, Barbara Montecucco e Marco Rettani, ce a regalava in splendida forma, e del resto è in forma che possiamo sentirla in radio, Il mio campo libero va in onda su Isoradio, a breve dovremmo anche poterla vedere a teatro, anche se il progetto è ancora top secret, Silvia è la dimostrazione che si può maturare rimanendo pop, il passaggio da ragazza a donna è andato di pari passo con una carriera nella quale la qualità ha determinato forse un diradarsi di uscite, ma a bellezza va pur sempre inseguita con tutta la pazienza e la dedizione del caso, mica la si trova così per strada. Tornando alla coppia Marrocchi e Artegiani, e alla loro Perdere l’amore, ho fatto breve cenno al fatto in qualche modo la loro vittoria è entrata, suo malgrado, dentro la mia personale storia, un’idea di futuro prontamente abbandonata a se stessa, qualcosa di diverso ancora tutto da mettere a fuoco lì, da inseguire.
Poco dopo la vittoria di Sanremo, come autore di Perdere l’amore, ho avuto modo di conoscere Marcello Marrocchi. I miei genitori erano all’epoca delegati nazionali del Gruppo Santa Famiglia, un gruppo all’interno della Società San Paolo dedicato, appunto, alle famiglie, nello specifico ai coniugi. Capitava quindi che i miei dovessero andare da qualche parte in giro per l’Italia a incontrare altre famiglie, e a volte io e Marina li seguivamo, così, per dare una mano tenendo i bambini più piccoli. In una di quelle occasioni, mentirei se dicessi quando e dove, c’era un concerto di Marrocchi, da tempo impegnato come cantautore sul fronte della musica religiosa, spesso per altro con la collaborazione di Artegiani ai testi. Me lo ricordo, su questo sarei disposto a scommetterci, invece, con un cappello da marinaio, inspiegabilmente, accompagnarsi con la chitarra acustica, un repertorio di canzoni di chiesa che, confesso, non conoscevo. Da sempre appassionato di musica, in quei mesi avevo cominciato a scrivere canzoni con una certa assiduità, pensando che la scrittura sarebbe potuta diventare la mia vita, il mio lavoro, ma non avendo ancora messo del tutto a fuoco la scrittura applicata a che formato.
Scrivevo e scrivevo, poi, complice un registratore analogico a quattro piste, del mio amico Simone, incidevo, accompagnandomi con chitarra e pianoforte elettrico, e, quando mi capitava di poter incontrare qualche cantante, mi portavo con me una audiocassetta su cui avevo inciso qualche canzone inedita, il mio nome e cognome e i miei riferimenti riportati sulla copertina e anche scritti sulla cassetta stessa, sia mai che la copertina andasse perduta.
La mia idea, credo, non era esattamente qualcosa di pianificato, era di far ascoltare qualche mia canzone a chi di canzoni ne aveva scritte tante, per avere un feedback, vivevo in una città di provincia che non aveva prodotto praticamente nessun artista di rilievo, a eccezione di Michele Pecora, e comunque parliamone, normale che cercassi un contatto con chi passava di lì di sfuggita. Per entrare in contatto, e oggi questa cosa mi fa sorridere, un misto di tenerezza e imbarazzo, povero ingenuo che ero, intendevo anche andare al concerto di un artista e lanciare sul palco la cassetta, sperando che l’artista la vedesse e la prendesse con sé, senza poi gettarla nel cassonetto dei rifiuti. L’ho fatto un sacco di volte, anche con gente che poi ho conosciuto, alcuni sono pure diventati miei buoni amici, penso a Enrico Ruggeri, penso a Red Canzian dei Pooh, a Luca Carboni. Andavo al concerto, e se vedevo, succedeva quasi sempre, che il cantante durante il concerto vedeva la cassetta e se la metteva in tasca o comunque da parte, iniziavo a sperare in una qualche risposta, risposta che non è mai arrivata da parte di nessuno. Questo, ovviamente, ha contribuito a farmi abbandonare la forma canzone, anche se saltuariamente ancora scrivo qualcosa e anche se buona parte di quelle canzoni sono poi finite dentro dischi pubblicati da major, penso alle canzoni delle Bikinirama, in buona parte reperti d’epoca, in uno dei quali, per altro, c’era proprio Rouge, e devo dire che sono ben felice di aver capito che scrivere canzoni non era il mio talento, perché amo troppo la musica per poter pensare di farla male.
All’epoca non lo sapevo e andavo a tentoni, cercando quella risposta che alla fine è arrivata direttamente dal mondo dei libri, sotto forma di chiamata. Tornando a Marrocchi, però, e a quel suo concerto per un po’ di famiglie del gruppo di cui i miei genitori erano i delegati, ricordo che, non essendo in un palasport o in un grande teatro, finito lo show ho approfittato per fare quattro chiacchiere, o per provare a farle. Volevo un feedback sul mestiere, prima ancora che su un mio ipotetico talento, e parlare era sicuramente la via più diretta per farlo. Non credo mi fosse mai capitato prima di stare così a contatto con un artista che aveva comunque scritto qualcosa di importante, so che questo mio dire e non dire, il sottolineare che fossimo in un contesto quasi casalingo, il dire che se aveva fatto qualcosa lo aveva fatto al servizio di altri, potrebbe indurvi a pensare che io ne voglia in qualche modo sminuire lo spessore, e visto che non faccio il cantautore il tutto è facilmente associabile al fatto che, è chiaro, nulla di buono è scaturito da quell’incontro, mi faccio uno spoiler da solo, ma in realtà, giuro, faticherei a fare del bullismo nei confronti di uno che indossa un berretto da marinaio, no, scherzo, questo era proprio uno sfottò, volevo comunque dire che non serbo rancori a Marcello Marrocchi, perché anche se mi ha trattato di merda lo ha fatto perché, credo, voleva mettermi all’erta di fronte ai pericoli che il mondo dello spettacolo hanno insiti, o forse era, è, a differenza di Artegiani, morto nel 2019, è ancora vivo, era e è proprio una persona incapace di intrattenersi con uno sconosciuto senza risultare irritante, fortuna che non ha avuto successo in prima persona e che non lo ha mai assalito una selva di fan urlanti. Comunque, quel giorno venni trattato di merda da Marrocchi, il quale mi trattò come se fossi un pazzo a voler provare a scrivere canzoni, forse troppo vecchio ai suoi occhi per avvicinarmi a quel mondo o magari semplicemente troppo candido, sicuramente sul suo modo di scoraggiarmi, molto efficace, non ha influito il mio talento, perché non ha neanche voluto la mia cassettina, dicendosi del tutto disinteressato a ascoltare il lavoro di altri, ignaro che sono anche io una brutta persona, capace di covare il mio senso di vendetta per oltre trent’anni, la vendetta è un piatto che va servito freddissimo, aggiungerei. Quindi oggi eccomi vestito di nero, tipo ninjia, in un angolo buio della stanza, pronto a giustiziare l’autore di Perdere l’amore, per uno sgarbo subito anni fa. Roba che neanche un elefante. No, non è vero.
Questo è uno dei primi episodi in cui sono stato trattato male da chi in qualche modo aveva la mia stima, la vita me ne fornirà un lungo elenco, molti dei quali sono poi caduti sotto i miei colpi mortali. Ma siccome non mi piace dare di me un’idea così spregevole, ci mancherebbe altro, e oggi è per me un giorno di grande festa, sono trentaquattro anni che vivo al fianco di Marina, colei che in qualche modo è stata non solo testimone di come io abbia a un certo punto deciso di intraprendere una strada assai diversa da quella che pensavo sarebbe stato il viale alberato della mia esistenza, ma che con la sua presenza e il suo spingermi a essere davvero me stesso ha influito più di chiunque altro perché ciò avvenisse, siate felice con me e non versate troppe lacrime per Marrocchi, del resto lui ha scritto Perdere l’amore, e io no.
Chiudo questo mio scritto, però, raccontandovi di un altro incontro che avrebbe potuto segnare la mia vita, magari in altra direzione, con protagonista una artista che poi ho avuto modo di conoscere, la stima reciproca è stata più volte esternata da entrambe le parti, Paola Turci.
Nel 1989, credo, o forse era il 1990, non ricordo bene, alla Fiera della Pesca di Ancona è andata di scena la prima edizione di Note di Pace, un mega evento organizzato dalla Diocesi che chiamava all’adunata tutti gli artisti e i gruppi della zona, volendo anche di oltrezona. Era un concorso canoro a tema, la pace, e in seguito sarei entrato nella storia di questa manifestazione quando col gruppo punk degli Epicentro fummo squalificati perché l’organizzazione scoprì che avevamo intenzione di cambiare parte del testo del brano presentato, non abbiamo mai scoperto chi ha fatto la spia, e che avremmo regalato un bicchiere di vino rosso, vino rosso sangue, a tutto il pubblico presente, non per comprarceli, ma come gesto simbolico a indicare il nostro disconoscimento dell’ingresso in guerra, al fianco della Nato, dell’Italia, parlo della guerra del Golfo. In quella prima edizione, però, io ero in gara non come chitarrista degli Epicentro, ma come cantante dei Nuanda, una band che era nata per portare in scena la riproposizione letterale del disco Fronte del Palco di Vasco e che in questa unica occasione avrebbe eseguito una canzone inedita, un funkettone dal titolo Cosa vuoi, da me scritta in tutte le sue parti. Madrina dell’evento era una giovanissima Paola Turci, la stessa Paola Turci che al Sanremo 1988 aveva portato in gara Sarò bellissima e che, lo confesso, bellissima lo era e lo è davvero molto, una delle donne più carismatiche che io abbia mai conosciuto, oltre che una delle artiste di maggior talento, ma questo già lo sapete. Tanto che, nel momento in cui me la trovai seduta di fianco, durante le prove, nelle poltroncine dell’auditorium, un quaderno con tutti i miei testi scritti in stampatello di mia mano dentro lo zaino, non sono stato in grado di rivolgerle più che un banalissimo complimento per le sue canzoni, per paura di passare per uno che ci stava provando. Il quadernetto è rimasto lì, forse sta ancora dentro qualche scatolone, e non credo di averle mai raccontato questa storia, quando poi è capitato che ci siamo conosciuti e visti, in diverse occasioni. Per altro, la prima volta in cui ci siamo conosciuti è stato quando, oltre un decennio dopo, lei ha posato con tanti altri artisti per la famosa copertina di Tutto Musica contro la seconda guerra del golfo, tutti con una gigantesca bandiera iridata, simbolo della pace prima che subentrasse la comunità LGBTQI+ a farla propria. In quell’occasione, quando Paola entrò nello studio fotografico dove Luca Del Pia aveva allestito il set, percepii il suo ingresso come quando un vampiro entra in una stanza irradiando un’aria fredda tutto intorno a sé, solo che in quel caso non era aria fredda, ma carisma.
Mettiamola così, se sono uno scrittore e non un cantautore, oltre che per una mera faccenda di assenza di talento in quel verso, è a causa delle cattive maniere dell’autore di Perdere l’amore e per il troppo carisma di Paola Turci. Vedi un po’ tu la vita se è strana.