“Al momento in cui nel pubblico l’emozione arresta il corso del pensiero, il regista ha fallito”, ha dichiarato una volta, riandando alla lezione del suo amato Brecht, il grande Joseph Losey, regista di formazione teatrale e poi cineasta che nel secondo dopoguerra aveva lasciato gli Stati Uniti per sfuggire alla caccia alle streghe maccartista riparando nel vecchio continente, dov’era divenuto uno dei maggiori esponenti del cinema d’autore “europeo” tra tardi anni Cinquanta e Settanta.
Sarà per questo che quando si trattò di parlare della persecuzione antiebraica in Mr. Klein (1976), Losey decise di non raccontare frontalmente la Shoah, di non mostrare dal di dentro lo spazio concentrazionario del lager, così scioccante e carico di emotività da rischiare di diventare ricattatorio e “distraente” sotto il profilo delle comprensione delle autentiche motivazioni del fenomeno. E invece preferì, partendo da una splendida sceneggiatura di sottile ambiguità di Franco Solinas, indagare e smontare il dispositivo ideologico alla base della macchina dello sterminio, mettendo in luce il discorso di classe, il consenso supino della buona società alla causa nazista, l’indifferenza all’orrore montante dei benpensanti, pronti ad accettare qualunque cosa che non scalfisse il loro status e anzi, che consentisse di migliorarlo addirittura.
È ciò che accade esattamente al mr. Klein del titolo, il signor Robert Klein (un Alain Delon glaciale, distante, meschinamente ignavo, almeno fino a un certo punto), un mercante d’arte che nella Francia degli anni di Vichy ne approfitta facendo affari d’oro con gli ebrei costretti a svendere i tesori di famiglia per mettere insieme quanto basta per fuggire dal paese. La sua vita procede perfettamente, ha una bella giovane fidanzata, l’amante, una vita affluente. Fino al giorno in cui gli giunge a casa inspiegabilmente, a lui che non ha origini giudaiche, una copia di un giornale della comunità ebraica. Così scopre l’esistenza di un suo omonimo, un altro Robert Klein, uomo invisibile la cui figura comincia a sovrapporsi inesorabilmente alla sua. La polizia conduce delle indagini sul Klein/Delon, sospettando sia anche lui giudeo; e nel frattempo egli stesso, preso sempre più nelle spire di un’ossessione febbrile, si mette sulle tracce di questo individuo senza volto che diventa il suo doppio, o addirittura il suo autentico sé.
- Delon,Moreau (Actor)
Mr. Klein è un singolare incubo kafkiano sull’identità condotto però nelle cadenze di un teorema matematico, che diversamente dalle ricercatezze figurative di alcuni capolavori del Losey degli anni Sessanta come Eva e Il Servo, sceglie uno stile raffreddato – doppiato dalla recitazione a bassa intensità di un Delon in stato di grazia – che, appunto, si pone l’obiettivo quasi didattico di spiegare il meccanismo psicologico e sociale alla base dell’accettazione del nazismo da parte di un paese, la Francia, che si distinse per un collaborazionismo spesso non richiesto. Al punto che l’evento storico al centro del film, il Rastrellamento del velodromo d’Inverno, la più grande retata di ebrei condotta sul suolo transalpino tra il 16 e 17 luglio del 1942 a Parigi, non la vollero i nazisti, ma fu realizzata su iniziativa della polizia francese.
La parabola di Mr. Klein è quella del passaggio dall’indifferenza alla consapevolezza, dall’estraneità all’implicazione in una tragedia rispetto alla quale è impossibile prendere le distanze e dire che non ci riguardi. Il protagonista, nell’inseguire l’altro Robert Klein – andando nella stamberga in cui vive, incontrando la sua amante (Jeanne Moreau), accudendo il cane che forse era stato suo – è obbligato a interrogarsi non solo sull’identità del suo antagonista, ma ovviamente anche sulla propria.
Mr. Klein è un uomo che va in giro per Parigi distribuendo a destra e a manca il suo biglietto da visita, cosa che gli serve per propiziarsi buoni affari. Ma come accadrà decenni dopo al Tom Cruise di Eyes Wide Shut, non basta esibire la patente del proprio nome e della propria professione per possedere davvero un’identità, che invece costituisce una conquista che giunge solo dopo un severo percorso di autoconsapevolezza. E allora mr. Klein attraverso lo specchio del suo enigmatico doppio, giocoforza si pone domande sulle proprie origini e quelle della sua famiglia, rischiando e anche scegliendo a un certo punto di perdersi, abbandonando le certezze della maschera portata sul volto per decenni per ritrovarsi davvero.
Naturalmente, trattandosi di un film di Joseph Losey, in primo luogo questa parabola individuale non ha nulla di trionfalistico o tonificante. Il personaggio interpretato da Delon è sprezzante, opportunista, per nulla simpatico, non ammicca mai a uno spettatore che possa rinfrancarsi identificandosi in lui e scambiandolo per un eroe positivo a tutto tondo. Se qualche qualità mr. Klein scopre dentro di sé è quasi suo malgrado, come sorpresa che lo spiazza e lo trascina quasi contro la sua volontà – l’ambiguo finale a tal proposito è esemplare – alla verità di sé stesso e della storia.
Della storia, sì. Perché il percorso di Mr. Klein non è individuale, ma riporta sempre a una lucidissima riflessione sull’ordine sociale (ed economico) che ha prodotto quelle mostruosità che sono il nazismo e il collaborazionismo. Non potrebbe essere più chiaro il film nel raccontarlo, attraverso i rituali delle cerimonie degli aristocratici, degli spettacoli di cabaret ferocemente antisemiti in cui, in una rappresentazione che ha la forza deformante delle pitture di George Grosz, Losey mostra nazisti e francesi che ridono oscenamente spalla a spalla, o facendo vedere ristoranti stracolmi di merci e commensali che ruminano cibo come se l’apocalisse non fosse in corso.
È un’intera società al collasso, e soprattutto la sua classe dominante ipocritamente connivente. Il film racconta un rivolgimento storico e una mutazione antropologica, che si coglie ad esempio da sottili e studiatissime allusioni, come la stampa appesa alla parete della casa di mr. Klein, opera di Charles Le Brun, il pittore preferito del Re Sole Luigi XIV, studioso di fisiognomica e di volti in cui l’umanità stinge nell’animalesco, a denunciare una trasformazione e un decadimento strutturale in atto.
Nell’epilogo si giunge ad alludere ad Auschwitz, destinazione degli ebrei francesi rastrellati, sebbene il lager non venga mai mostrato. Ma è chiaro che l’odissea di quest’uomo che ha capito finalmente e dolorosamente chi è davvero ricapitola un’odissea collettiva, nella quale si è coinvolti tanto come individui quanto come società. Ed è per la chiarezza di questa analisi matematica che nel Giorno della Memoria sono opere mirabili come Mr. Klein che devono essere viste, perché aiutano a capire prima che a indignarsi, film che come spettatori non ci rinfrancano, non puntano al raccapriccio fine a sé stesso, ma ci interrogano.