L’ho raccontato diverse volte, forse anche troppe. Ho cominciato a scrivere di musica per quello che in apparenza potrebbe sembrare un caso. Scrivevo romanzi e racconti, quello pensavo sarebbe diventato il mio mestiere, nella vita. Sicuramente pensavo che scrivere fosse il mio talento. Un talento scoperto, quello sì, per caso, quando durante il servizio civile, a causa di una aggressione violenta da parte di un ex utente della struttura per senza fissa dimora nella quale prestavo servizio, mi sono ritrovato a passare troppo tempo in un ufficio, solo io e un PC. Io che fino a pochi mesi prima pensavo nella vita sarei stato un musicista, la musica era sempre stata più o meno una costante della mia vita, prima con gli studi classici, poi con esperienze vissute in prima persona in diverse band della mia città, l’ultima delle quali una band hardcore dal nome Epicentro, ho scoperto che scrivere mi piaceva parecchio, e, non starebbe a me dirlo, mi riusciva decisamente meglio che suonare. Non perché fossi poi così scarso con la chitarra elettrica in mano, e sapevo anche dove mettere le mani su basso e pianoforte, gli studi classici in questo aiutavano non poco, specie in quel piccolo mondo antico dell’hardcore, ma proprio per una questione di attitudine, stare solo davanti a un PC a digitare sui tasti, senza dover fare i conti né con i miei compagni di strada né col pubblico mi sembrava una condizione ottimale per esprimermi. L’incontro con Nanni Balestrini avrebbe fatto accelerare le cose, aprendomi in qualche modo al mondo dell’editoria, di lì a sentirmi proporre una collaborazione con una rivista musicale, Tutto Musica, proprio in virtù del mio passato negli Epicentro è stato un passo molto breve.
Quello che però credo di aver sempre taciuto, o quantomeno non sottolineato con la stessa enfasi con cui sono solito specificare come io sia arrivato alla critica musicale su invito e come ci sia arrivato da una posizione già accertata di letterato, fatemela tirare un po’, noi scrittori viviamo già una vita sufficientemente grama, stando solo al mondo delle lettere, è che il mio trovare uno spazio notevole su quella rivista è stato sì figlio di manifesta superiorità rispetto a buona parte delle vecchie firme, la volontà del nuovo caporedattore era quella di fare una sorta di repulisti e puntava su un manipolo di collaboratori preparati e con uno stile piuttosto preciso, penso al compianto Marco Mathieu, a Valeria Rusconi, a Federico Dragogna, oggi chitarrista e autore principe dei Ministri, ma anche per una faccenda, questa sì, legata all’essere al posto giusto al momento giusto. Quando infatti ho iniziato a scrivere i mie primi importanti pezzi sulla rivista, lungo tutto il 2000 e il 2001, prima mi ero limitato a recensioni e pezzi spot, in Italia è sbarcato, pronto poi a esplodere qualche anno dopo, il rap. Il punto di non ritorno, quello cioè che ha sancito un approdo al mainstream, e un conseguente traghettamento nel mainstream anche della piccola scena underground italiana, milanese e romana in testa, è stata l’esplosione mondiale di Eminen, forte di singoli quali My name is, o Stan. Vederlo sul palco dell’Ariston di Sanremo, durante il Festival della Canzone Italiana condotto da Raffaella Carrà, parliamo del 2001, è stato un fatto epocale, come epocale, ma questo è altro discorso, tutta la manfrina fatta prima per impedire il suo approdo su quei lidi, lui accusato di essere un cattivo maestro e quindi un esempio negativo per i più giovani, la Raffa nazionale a rimproverarlo come uno scolaretto per la sua proverbiale lingua appuntita. Bene, esattamente in quel periodo, parliamo appunto degli albori del nuovo millennio, il rap sul punto di diventare il nuovo genere imperante, e abbiamo visto tutti come la faccenda è andata a finire, io ero, casualmente, l’unico in quella redazione a conoscere il genere. E lo conoscevo per un motivo tutt’altro che underground, non ero un b-boy, i capelli lunghi fin quasi al sedere lo attestavano tanto quanto la mia recente esperienza nel gruppo hardcore di cui sopra, sul rap, quello delle origini, americano, e quello che era diventato, cito tra virgolette, la CNN del ghetto, parole di Chuck D dei Public Enemy, avevo scritto la mia tesi di laurea in Storia Moderna, presso l’Università Alma Mater di Bologna. Una tesi che analizzava lo stretto rapporto tra movimento afroamericano e l’hip-hop, questo il titolo, fatta col professor Federico Romero di Storia Americana contemporanea e con la corelazione del professor Franco Minganti, titolare della cattedra in Letteratura Americana all’università di lingue del capoluogo emiliano. So che qualcosa suona strano, come una anomalia che potrebbe lasciare intravedere la matrice, una tesi sull’hip-hop e il movimento che ha avuto in Malcolm X, prima, e nelle Black Panther, poi, le figure cardine discussa per una laurea in Storia Moderna, la storia moderna, accademicamente, si ferma con la scoperta dell’America stessa, è noto. Questo sì che l’ho raccontato anche troppe volte, ho evidentemente sbagliato corso di laurea, o forse ho capito troppo tardi che ero più interessato alla storia contemporanea che a quella moderna, vallo a sapere, tanto non mi sono comunque laureato, mollata l’università con la tesi finita a uno solo esame dalla fine, per uno scazzo avuto proprio col professor Romero, sulla politica economica di Reagan, durante la biennalizzazione dell’esame del mio relatore e per una vessazione da parte della professoressa di Lingua e letteratura inglese, l’ultimo dei ventidue esami che avrei dovuto discutere. Nei fatti nei primi anni del nuovo millennio ero il solo dentro la redazione di Tutto Musica a conoscere le origini del rap, a conoscere buona parte degli artisti rap americani, e anche buona parte della scena italiana, non parlo certo di quelli emersi, penso a Frankie HiNRG MC o gli Articolo 31, parlo della scena underground, fatto che mi ha lasciato agio di diventare, per quella rivista, il referente per tutto ciò che fosse ascrivibile alla cultura hip-hop. Del resto propro Frankie Hi NRG MC aveva scritto la bandella del mio secondo romanzo, aironfric, il primo edito da Mondadori, nel 1999, e l’anno successivo per la medesima Mondadori avevo tradotto il libro di Eminem Angry Blonde, il mio essere “un esperto” era in qualche modo certificato istituzionalmente. La faccenda che avrei intercettato proprio per raccontare il film di Eminem 8 Mile Mondo Marcio durante una rap battle al Chiringuito di Milano, lo avrei accompagnato fisicamente alla sua firma con la EMI, avrei firmato il suo libro con la solita Mondadori, anche Tutto Musica era una rivista di quel colosso editoriale, così come che avrei esordito in Rizzoli col libro GeneRAPzione è lì, a futura memoria. Ho sempre seguito il rap, e per qualche anno sono stato uno dei pochi critici a parlarne nel mainstream, ovviamente non calcolato dalle riviste di settore, un filo talebane nell’approccio.
Dico tutto questo, e so di essere andato come al solito lungo, ma sono giorni di nuove restrizioni, spero che il tenervi compagnia a lungo sia gradito, perché negli ultimi tempi ho avuto spesso modo di esprimere parole non lusinghiere nei confronti di molti artisti di cui un tempo mi sarei trovato a scrivere, penso alla nuova generazione di rapper e anche a tutta la genia dei trapper. Ho certo speso parole lusinghiere per Rancore, di cui mi picco di essere stato tra i primi a parlare, il mio nome campeggia nelle sue note biografiche, a riguardo, di Salmo come di Marracash, per dire, ma molto più spesso ho detto male di chi, a mio avviso, meritava quel mio dirne male, incapace di ricondurre la propria musica a quella storia e quella cultura, quella di cui parlavo nella mia tesi, appunto, e più che altro impossessatosi di uno stile in maniera del tutto asettica, canonica, priva di arte e di vita. Questo, a fianco del mio continuo, legittimo ma a tratti, immagino, pretestuoso e anche un po’ ridondante, di analogico e di musica suonata davvero, potrebbe aver ingenerato in chi mi legge l’idea che io sia un talebano, è la seconda volta che uso questo termine che, confesso, non appartiene affatto al mio linguaggio, oggi sono evidentemente stanco e ricorro a facili scorciatoie, uno di quegli appassionato di rock che fatica a confrontarsi con la contemporaneità, che quindi quando parla di rap o di trap lo fa senza nulla sapere a riguardo, un boomer con una collezione importante di chitarre, in effetti ne ho sette, in casa, che però nulla sa di quel che è accaduto negli ultimi quarant’anni, a prenderla corta. La realtà è un po’ diversa, e il mio prendere decisamente le distanze dalla china che, specie in Italia, il rap ha preso dalle sue origini dovrebbe anzi suonare ancora più violento, proprio perché non è il discorso fatto da un boomer che di quel genere musicale è poco interessato. Del resto, ho scelto di occuparmi di pop, nello specifico, e più in generale di musica mainstream, seppur dando poi ampio spazio alla musica indipendente, specie a quella al femminile, proprio nel momento dell’esplosione dell’electropop in patria, complice e colpevole la dittatura produttiva di un nome come quello di Michele Iorfida Canova, nel tempo sostituito da altri producer quali Dardust, per dirne uno, fossi poco incline a ascoltare la musica che si basa più sulle macchine che sugli strumenti sarei davvero una specie di autolesionista, quasi un succube alla ricerca di una padrona che mi umili in pubblico.
Caspita, quasi diecimila caratteri per dire che ascolto musica che non sia necessariamente suonata con strumenti tradizionali, e che ho un passato che parla per me. È evidente come la situazione, parlo di quel che succede là fuori, non di quel che capita nella mia testa, stia peggiorando, se è vero come è vero che la mia scrittura sta da un paio di anni a questa parte provando a simulare la realtà, seguendo il flusso e riportando su carta, metaforica, quello che succede. Parlarsi addosso, non che io non sia poi piuttosto solito farlo anche in tempi di pace, è stata la caratteristica peculiare del lock down, dei lock down, spero che questo sia solo un giorno storto.
Sicuramente non è un giorno storto per quel che riguarda gli ascolti recenti che ho fatto, quelli che mi hanno spinto a scrivere questa lunga, lunghissima rincorsa, come un rigorista che parta dal cerchio del centrocampo, a rischio di arrivare spompato sul dischetto.
Sono infatti recentemente usciti tre progetti che ritengo decisamente degni di nota, anche se in apparenza, solo in apparenza, si rifanno a un mondo che non rientra nel mio spettro ottico. Almeno in un caso è un nome di cui vi ho già parlato in un passato prossimo, in relazione al suo affacciarsi sul panorama musicale con un EP che porta per titolo il suo nome d’arte, Anna e l’Appartamento, ne ho parlato ascrivendola d’ufficio a una consorteria di nuove streghe in buona compagnia di Veronica Vitale, Kimerica e Mille, sequel di un mio testo in cui iscrivevo al medesimo gruppo Costanza Savarese, Anna Soares e Dalise. Lei, Anastasia in arte Anna e L’Appartamento, torno a parlarne non perché nel mentre sia uscita con altro, quel primo disco è frutto del lavoro di sette anni di ricerca di una propria voce, di studio di un proprio suono, di vita, diamo tempo al tempo, continua a girare nella mia airplay personale, vero e genuino talento pop, nel senso più alto e compiuto del termine, un tentativo riuscito di mashuppare una scrittura che guarda alla tradizione, parlo della tradizione pop, quindi anche a quei capisaldi non troppo antichi che rispondono a nomi quali Madonna e Lady Gaga, gli anni 80, un’apertura verso la melodia che parte dal pianoforte, scrivere con le macchine è comunque altra faccenda, una voce importante gestita con gusto e con stile, un’estetica precisa, i disegnini della grafica da lei stessa prodotti, un look che scivola indietro di altri due decenni, una sorta di geometria dosata, centellinata, assolutamente a fuoco. Ecco, fossi un discografico, e grazie a Dio non lo sono, non esisterei un istante a investire su di lei.
Anna e L’Appartamento, di persona, l’ho conosciuta a Sanremo, poco prima che questo delirio prendesse il via, lei ospite a Attico Monina, dopo che mi aveva lanciato una specie di sfida a gettare lo sguardo anche su una esordiente assoluta. L’ho poi incontrata di nuovo, più con calma, a Aversa, a fine ottobre 2021, la pandemia ancora tra noi, lei finalista della diciassettesima edizione del Premio Bianca D’Aponte, io in giuria. Ho palesemente espresso il mio favore nei suoi confronti, sono sempre dell’idea che nelle giurie i voti dovrebbero essere palesi, così come ho espresso interesse per colei che alla fine andrà a portarsi a casa la vittoria finale, Isotta, all’anagrafe Isotta Carapelli.
A Aversa Isotta si presentava con un brano, Io, che in origine era un brano elettronico, ma che sul palco del Teatro Cimarosa ha presentato in chiave acustica, stessa scelta operata da Anna e L’Appartamento con la sua Provvisoria, ora è uscita con un nuovo singolo dal titolo Bambola di pezza, ancora una volta nel solco dell’electropop. Una canzone forte di una scrittura matura, visto il tema trattato, la violenza non solo fisica nei confronti delle donne, non poteva che essere così, il dominio contrapposto alla levità della voce, trattata coerentemente con l’autotune, forma che si fa sostanza, un parlato a tempo sotto forma di special, rigorosamente al passato, a rappresentare la presa di coscienza. Una canzone che rappresenta la fragilità, emotiva ma anche fisica, attraverso un incedere ipnotico, sottile, vagamente inquietante. Una prova di talento che, se possibile, alza ulteriormente il tiro rispetto a Io, sicuramente rispetto l’altro brano presentato a Aversa, Pornoromanza, più classico nella scrittura, seppur con aperture melodiche interessanti. Un brano che come Bambole di pezza si concentra sulla tossicità di certi rapporti, dando all’electropop, appunto, un peso specifico differente da quello che proprio il corso mainstream dei progetti capitanati a suo tempo da Canova ha contribuito a dare. A questo punto l’attesa per una prova sulla lunga distanza si fa più pressante, come del resto una vittoria al Premio Bianca D’Aponte dovrebbe di suo già comportare, manifestazione tra le più interessanti che si svolgono in Italia.
Anche l’ultimo brano di cui vado a parlare, terza proposta al femminile di tre in coda a un pezzo che è partito da un genere assolutamente maschile e maschilista, il rap, mi arriva da una conoscenza personale con l’artista che ne è titolare, una artista che seguo e di cui ho scritto per la prima volta sette anni fa, dico sette anni fa, ma che arriva giusto adesso al suo esordio, quando si dice prendersela con calma. L’artista di cui parlo si chiama Jessica Lorusso, in arte Jess, e il suo primo singolo si intitola Nulla. Un brano che si iscrive alla perfezione nello spirito dei nostri tempi, il che detto da me potrebbe suonare sinistro, quindi dentro il genere urban con quel tipico modo di cantare che Madame su tutti ha reso popolare, la voce spostata tutta indietro, gli accenti che rincorrono la melodia, la ritmica che si poggia completamente sul cantato, lasciando un piano e un po’ di elettronica eterea a fare da sfondo. Considerando che in passato ho avuto modo di assistere, da artefice, all’incontro tra Jess e Piero Cassano, gigante della composizione pop, si pensi a quanto fatto con i Matia Bazar e Eros Ramazzoti, tanto per circoscrivere il suo raggio d’azione ben più ampio, la sua voce chiara, cristallina, da grande interprete che pensavo perfetta per quel tipo di scrittura, confesso di essermi letteralmente meravigliato nel trovarla perfettamente incastrata in un genere che di suo non prevede la necessità di grandi doti canore, ma che nello specifico contribuisce a metterne in risalto una personalità solida, odierna, a fuoco. Una sorpresa, e Dio solo sa quanto ormai rimanere sorpresi da una canzone mi risulti difficile, una gran bella sorpresa considerando che appunto ne ho scritto per la prima volta sette anni fa, quando la ascoltai cantare sul palco di un parco acquatico estivo, Acqualand del Vasto, mentre dava vita a uno di quegli spettacoli che si susseguono ogni ora sulla falsa riga dei musical, Alex Procacci alla direzione artista, un nome una garanzia. Una scommessa, quella che a suo tempo avevo deciso di fare su di lei, invitando grandi nomi della composizione a mettersi al suo servizio, che col tempo si era persa, ma che invece, improvvisamente, torna a galla, evviva.
A questo punto, immagino, tanto per stupire a mia volta, e rovesciare un cliché che col tempo potrebbe risultare trito e usurato, dovrei chiudere questa carrellata con una artista che giochi proprio col rap, tanto per dimostrare che il tempo è in grado di piegare anche gli stereotipi più calcificati. Oppure, rovesciando uno stereotipo legato a me, potrei spostare lo sguardo su un artista uomo, che giochi nel pop elettronico o nel rap. I titoli stanno lì a rovinare il dipanarsi delle trame, è storia vecchia, quindi è evidente che la seconda via è quella che ho scelto di percorrere, anche se bluffando ho parlato di un uomo, quando in realtà avrei dovuto parlare di un duo, o forse una band, non ho mica capito bene. Il nome scelto, e anche la faccia scelta per veicolare quel nome, è in effetti quella di un singolo, Shefflow, e il marchio di garanzia che si trova a certificarne la qualità è quello della Mirò Music School, e torniamo nuovamente a Attico Monina, ricordate?, vedi alla voce Rosa Bulfaro (per altro già al fianco anche della stessa Jess, proprio ai tempi di Sanremo 2020). Nei fatti Sheffer sono un rapper/cantante e un chitarrista dalle notevolissime capacità in ambito funky, fatto che regala al tutto quel pizzico di originalità e al tempo stesso di zeitgeist che dimostra come le idee siano nell’aria e solo chi ha voglia di esserci riesce a arrivare puntuali sul pezzo, il ritardo è per chi era distratto a guardarsi l’ombelico. Sheffer ha uno stile, forse dovrei dire hanno uno stile, mica l’ho capito, assolutamente attuale, mica è un caso quello che nel resto del mondo stanno facendo gente come Bruno Mars con Anderson Paak, leggi alla voce Silk Sonic, tanto per fare qualche nome. Chiaramente qui stiamo parlando di giovanissimi esordienti, Daniele la voce, Gabriel la chitarra, entrambi a scrivere e produrre, seppur dotati di una personalità vistosa e palese, sentite il modo in cui vengono trattate le sillabe su Caldo & Freddo, per dire, e sentite come la chitarra fa da interpunzione al flow in Pendant e Solitudine, e capirete di cosa stia parlando. Un modo di confrontarsi con un genere, il rap, che ormai è entrato nella sua sesta decade, nato negli anni Settanta a New York ma surrealmente ancora guardato come qualcosa di futuribile da certi minus habens, ma che sembra abbia ancora cartucce decisamente interessanti da sparare, basta solo capire dove andare a mirare.