Fino al giorno prima di morire David Sassoli era considerato uno della nomenklatura. Magari più presentabile di altri ma targato come gli altri, ex giornalista di sinistra passato in un partito di sinistra e da qui proiettato al vertice delle istituzioni europee. Dal giorno del decesso, sono state rimosse tutte le voci critiche, cancellate le accuse più o meno velate di faziosità, di ortodossia, d’incanto non era più un euroburocrate del soprastato che, piaccia o non piaccia, ha isolato l’Italia, lasciandola sola di fronte alle emergenze, imponendole governi graditi al PD, pretendendo mutazioni anche traumatiche nella cultura e nella tradizione del Paese: trasformato in una sorta di santo e i santi sono indiscutibili, si adorano e basta. Chi osava porre dubbi, chi si permetteva l’azzardo di una domanda, subito fulminato come un bestemmiatore in chiesa, una carogna, uno sciacallo, e, ovviamente, “un fascista”.
Ma perché un cittadino, un elettore, perfino un giornalista dovrebbe prendere per buona l’esaltazione del regime, perché non dovrebbe ragionare, chiedersi se c’è o non c’è o in qualche misura ci sia stata una correlazione tra l’immunizzazione e il tracollo di un uomo da tempo sofferente di leucemia, che aveva visto il suo sistema immunitario, già compromesso, andare in pezzi? Si tratta di sapere, di capire, sono preoccupazioni, più che legittime, doverose: investono la collettività. Invece anche il semplice palesarle è diventato imperdonabile, suscettibile di disprezzo e di censura. Non si era mai visto un simile asservimento ai desiderata del potere: oltre lo zelo e oltre la menzogna, con cadute di gusto imbarazzanti perfino per l’abitudine italiana che passa dall’osanna al crucifige e viceversa in un lampo a seconda delle convenienze. Per Sassoli i notiziari hanno grondato tsunami di retorica, il cardinale Zuppi di Bologna, che è uno della sinistra vaticana vicina a Bergoglio, lo ha definito il compagno di scuola che tutti avrebbero voluto, uno che nella sua vita non aveva accumulato se non virtù: disinteressato, altruista, rispettoso, politico trasparente, un martire.
Ma Sassoli aveva le sue convinzioni e le sue militanze, come ogni politico. Era completamente organico al sistema di potere europeista, favorevole ad accoglienze spericolate nel nome dell’umanitarismo anche irresponsabile e, d’altra parte, favorevole alla durezza con cui il governo italiano discrimina gli scettici e gli avversi al lasciapassare inutile. Era uomo di partito, non di paradiso e non c’è niente di strano né di male in questo, ma non facciamone un eroe sociale. Rispettare la sofferenza personale, la prematura dipartita di un uomo ancora giovane è doveroso e gli imbecilli e i miserabili che se ne rallegrano o li compatisci, li lasci perdere, o li elimini: ci sono sempre stati e sempre ci saranno, l’umanità è una pianta dai rami per lo più storti, il virus non c’entra, ci si odia per una partita di calcio come per una pandemia, la politica divide gli uomini e funziona benissimo da pretesto per scatenare frustrazioni, invidie, rancori repressi. Ma da qui a rinchiudere tutti nel sacco degli sciacalli, ce ne corre!
A chiamare sciacallo chi non gioiva per la morte di Sassoli ma chiedeva senza malizia di sapere, osava trattarlo come qualsiasi altro essere umano incappato in una tragedia forse, diciamo forse, accelerata da cure forse, e diciamo ancora forse, intempestive o chissà evitabili, sono stati gli stessi che poi si sono lasciati andare a squallidissimi selfie sulla bara. Immagini incredibili, di gente in posa, tanto più preoccupanti perché sgorgati da gente delle istituzioni, che delle istituzioni ha confermato un concetto affatto privato, fondato sulla convinzione di essere diversi dagli altri, di potersi permettere miserie imperdonabili negli altri, nei normali, ma non sindacabili per loro. Un circo questo sì indecente, un’idea immatura, di narcisismo infantile, di se stessi e del potere, indice di una ipocrisia insopportabile, imperdonabile.
Ma c’è un’altra ragione per l’esagerazione strumentale sulla figura di Sassoli, già presidente del parlamento europeo, anzi ce ne sono almeno due. La prima è che più si montava la retorica e meno spazio restava per dubbi, questioni aperte, insomma veniva soffocata ogni domanda, quanto a dire la censura pura e semplice: la parlamentare ex leghista Francesca Donato avanzava perplessità sull’impatto della somministrazione a Sassoli con repentino peggioramento, e uno scandalizzato Floris le spegneva l’audio; altre figurette ingiallite, irrilevanti sulla scena giornalistica, ne approfittavano per darsi un po’ di spolverlo provocando la sconsiderata Donato. Quasi un sacro terrore che potesse venire a galla chissà quale verità inconfessabile. L’altra ragione è anche più pelosa e investe la recita del potere: le istituzioni europee, mai così in difficoltà, mai così criticate, hanno tutto l’interesse nel pompare la scomparsa di un loro esponente così da fornire una prova di autorevolezza e di forza: muore uno di noi ed è una tragedia epocale, il mondo deve saperlo, era un santo, un apostolo, noi dell’Europa Unita siamo un blocco di potere ma buono, vogliamo cambiarvi la vita, rendervela impossibile ma per il vostro bene; noi vi conduciamo. Lo stesso vale per il PD, partito della vittima nonché fiduciario della UE in Italia, che ha spedito le sue prefiche per televisioni e giornali con sperimentato cinismo. Una faccenda tetra, anche volgare, da Politburo sovietico.
Un commento lucido su questa opaca faccenda. Grazie, Max.