Capita, a volte, raramente per fortuna, che mi si chieda di indicare quelle che a mio avviso sono le mie cinque canzoni della vita. Il numero cinque, credo, a parte per una certa rotondità insita in sé, è frutto del lavoro di Nick Hornby, che col suo Alta Fedeltà ha fermato su carta la faccenda delle classifiche personali, se non sapete di cosa io stia parlando, direi, avete un problema piuttosto serio con la cultura popolare dei nostri tempi. Riguardo le canzoni della vita, va detto, a volte ci sono richieste più specifiche, come se essere specifici nel chiedere qualcosa di banale in qualche modo modifichi radicalmente il tutto. C’è chi chiede le canzoni rock, chi le canzoni che mi hanno formato, chi le canzoni d’amore, e via discorrendo. E no, nessuno mi ha mai chiesto le mie cinque canzoni d’amore, a ripensarci.
Come chiunque, visto che queste classifiche nickhornbiane nulla hanno a che vedere col mio lavoro di critico musicale, se non per il fatto che sono classifiche chieste a un critico musicale, tendo a rispondere che è impossibile scegliere solo cinque canzoni, lasciandomi poi andare a quella formuletta anche piuttosto sfilacciata del “se me le chiedi domani potrebbero essere altre cinque canzoni”, lasciando quindi intendere che la scelta è di volta in volta dettata da uno determinato stato d’animo, o da un ripensamento dovuto alla disattenzione momentanea, o al meteo, magari. Sì, il meteo decisamente influisce nelle mie scelte, quando si tratta di mettere su, uso una terminologia analogica, perché io sono analogico e ascolto musica analogica, non lasciatevi traviare dal fatto che lavori prevalentemente in rete, un po’ di musica.
Avendo un approccio razionale e teorico alla musica, chi mi chiede le mie cinque canzoni di Dio solo sa cosa lo fa perché sono io, cioè un critico musicale, o perché sono uno scrittore, magari, e anche lì, come scrittore è indubbio che il mio “core business”, che brutta parola, sia legato al mondo delle biografie, quindi della musica, avendo io un approccio razionale e teorico alla musica, quindi, tendo a lasciare da parte la pancia, il cuore, o comunque qualsiasi parte del corpo atta a indicare in qualche modo le emozioni e i sentimenti, in qualche modo contravvenendo proprio al senso ultimo di quella richiesta, perché è evidente che chi me lo chiede, pur chiedendomelo in quanto addetto ai lavori vuole o vorrebbe sapere che musica io ascolto nella mia vita di tutti i giorni, quella privata. Non che io sia dell’idea di tenere la vita privata fuori dalla portata di chi legge, intendiamoci, si sarà anche vagamente notato fin qui, ma rispetto a questa domanda specifica, una domanda che ovviamente mette un ascoltatore bulimico come me in evidente stato di difficoltà, andare sul teorico è un ottimo esercizio di stile, salvaguardia una sorta di crash intellettuale e soprattutto mi permette di giocarmi sia la carta del guilty pleasure, cioè ciò che ci piace pur sapendo che non dovrebbe piacerci, che quello dell’intellettualismo, stiamo giocando su un piano teorico, mica si parla di sentimenti. Poi, ovvio, se infilo in una qualsiasi cinquina un brano a firma Grant Hurt, specie del periodo Hüsker Dü, faccio esattamente contenti tutti, coloro che si aspettano che io dia una risposta intima, che peschi dal mio personale, come coloro che invece si aspettano che io risponda in quanto critico musicale che esercita il suo ruolo di critico musicale, la razionalità analogica di cui sopra, infatti Grant Hart non manca quasi mai. Come quasi mai manca Marisa Monte, lei sempre e soltanto nella sua veste solista, non me ne vogliano i Tribalistas, ensemble che comunque adoro aprioristicamente. Per mia natura, e se dico mia natura non intendo quindi nulla che abbia a che fare con la diplomazia, il quieto vivere o più in generale il saper tenere saldamente in piedi rapporti personali, tendo a non includere mai in queste liste, in queste mini classifiche, artisti e quindi canzoni italiane. Questo nonostante io scriva, tendenzialmente, molto più di artisti italiani che di artisti internazionali, e quindi per lavoro ascolti molti artisti italiani, sicuramente tanti quanto artisti internazionali. Non lo faccio per assecondare appunto la mia natura, che nello specifico sarebbe messa in un angolo dovendo includere canzoni nelle quali un rapporto personale possa in qualche modo avere un peso sulla scelta. Non tendo mai a mescolare il personale e il teorico, quando scrivo di musica, anche se potrebbe apparire più plausibile il contrario, finire per scegliere una canzone di cui conosco la genesi, o ero presente mentre è stata incisa, o ho sentito una versione non definitiva, mettiamola così, mi lascerebbe col fianco scoperto, almeno verso me stesso.
Del resto al mondo ci sono miliardi di canzoni, escludere i milioni di canzoni italiane è operazione piuttosto semplice, quasi elementare.
Oggi però è su una singola canzone che mi trovo a ragionare, di fatto mandando a carte quarantotto l’idea di Nick Hornby di classifiche basate sul numero cinque. Un singolo non è una classifica, e chiunque dotato di senno risponderebbe a una domanda su quale sia la migliore canzone, o la più amata, o quella del cuore, o quel che sia, con un sonoro vaffanculo.
Proprio per questo, cioè per la carica altamente provocatoria del venire qui a chiedermi una singola canzone, per altro senza costruirci attorno nessun teatrino, niente “la canzone più bella”, niente “la canzone del cuore”, un semplice “scegli una canzone e raccontacela”, non posso esimermi dall’accettare la sfida, ho sempre apprezzato i tipi spavaldi, quelli che entrati in un pub, un po’ come i Bigbie di Trainspotting, mira al tipo grosso e muscoloso e va a attaccare briga, con la voglia irrefrenabile di menare le mani.
Quindi non la più bella canzone di tutti i tempi, secondo il mio inopinabile e insindacabile parere, non la canzone cui sono più legato per quella ineluttabile catena di eventi che potrei racchiudere serenamente in un folder dal nome piuttosto esplicito “cazzi miei”, non la canzone che ha fatto o detto qualcosa di specifico in un determinato o generico contesto, ma una canzone, così, a cazzo, da raccontare.
Scegli L.A. Love di Fergie, ex voce femminile dei Black Eyed Peas. Ovviamente senza un perché che possa essere spiegato a parole, razionalmente, che è un modo vagamente esoterico per dire, senza una ragione specifica.
Se adesso mi addentrassi per il sentiero oscuro e solitario che vuole me qui a spiegarvi che no, in realtà le cose non stanno esattamente come vi ho appena detto, perché è evidente che non sprecherei tempo e parole per andare dietro a una intuizione irrazionale, pur consapevole che, essendo le parole il mio mestiere, se mai mi capitasse di fare una scelta del genere, magari dettata dalla stanchezza, o dalla noia, mai sottovalutare la noia, saprei comunque come cavarmela, in fondo scrivere e scrivere supercazzole sono un po’ il medesimo esercizio intellettuale, e non sta certo a me dire quante supercazzole nascondano verità assolute e quanti testi considerati intellettualmente ineccepibili siano in realtà semplici supercazzole, se adesso mi addentrassi per il sentiero oscuro e solitario che vuole me qui a spiegarvi che no, in realtà le cose non stanno esattamente come vi ho appena detto, perché è evidente che non sprecherei tempo e parole per andare dietro a una intuizione irrazionale, probabilmente il discorso entrerebbe in un loop senza uscita, labirintico e concentrico. Il fatto è che ho scelto L.A. Love di Fergie perché, al momento, intendendo proprio adesso, non in questo periodo, concetto piuttosto vago che però, visto che siamo nel bel mezzo di una pandemia iniziata a febbraio 2020 suppongo per tutti i lettori, o almeno per quelli più distratti, starebbe a indicare appunto questo tempo malsano e anomalo, né, in maniera più asettica e antistorica, intendendo questo lacerto di millennio, andando quindi a iscrivere le mie parole dentro una parentesi graffa che guarda al mondo, ovviamente con particolare al mondo della musica, andando quindi a imbastire una sorta di teatrino metaforico sullo stato dell’arte, il sistema che è pronto a implodere, l’incapacità delle nuove generazioni di mirare all’infinito, l’orrore della musica digitale vs la musica analogica, tutte queste faccende qui, ecco, il fatto è che ho scelto L. A. Love di Fergie perché, al momento, in questo momento in cui sto scrivendo, che nel mentre è diventato un momento fa, ma ancora la faccenda è valida, e non sarà più questo momento nel momento in cui voi starete leggendo, e già il fatto che io presuma che qualcuno starà leggendo, più di uno, uso il plurale, la dice lunga su quanto io ritenga di essere rilevante e su come abbia del rapporto tra chi scrive e chi legge, io scrivo adesso, voi leggerete chissà quando, una idea piuttosto novecentesca, anche se siamo nell’epoca, questo momento in senso lato, dell’iperconnettività, io scrivo ora e voi leggete ora, giusto qualche secondo di delay, ecco, il fatto è che ho scelto L. A. Love di Fergie perché, al momento, in questo momento in cui sto scrivendo, ritengo sia la canzone che più di ogni altra respinge al mittente il senso di morte e di incertezza sul futuro che la morte porta sempre con sé, incertezza sicuramente radicata in tutti noi a causa della pandemia che ci tiene da due anni, poco meno al momento in cui scrivo, agli arresti domiciliari, ma a monte incertezza presente già sottotraccia ben prima dell’esplosione world wide del Coronavirus, pensate a quante serie TV ci siamo visti in questi tanti mesi a casa che ci raccontano di fine del mondo imminente, il surriscaldamento del pianeta, i virus, gli zombie, i complotti, una vera carneficina.
Canzone del 2014, firmata dalla stessa Fergie in compagnia, tra gli altri, col producer Mustard, e con un feat di YG, poi contenuta nel secondo album solista della nostra, Double Dutchess, uscito nel 2017, L.A. Love è una canzone urban sulla falsa riga proprio del genere decisamente orientato al pop e alla dance che ha nei Black Eyed Peas i loro principali alfieri. Un mix di di ritmi sincopati, con su un parlato intonato che non è rap ma potrebbe anche esserlo, Nicki Minaj le deve parecchio, a occhio, non a caso sarà ospite di un futuro singolo, You Alredady Know, bassi a palla e suoni rarefatti, uno schiocco di dita a fare da ritmica, cui si alternano bridge nei quali l’incedere si fa più veloce, un mare di parole che si inseguono in un flow assolutamente centrato, cori da stadio a fare da contrappunto, per poi esplodere in un ritornello leggero leggero, di quelli che ti si incolla alla testa. Una perfetta hit, come già lo erano state London Bridge, Fergalicious e Big Girls Don’t Cry, dal primo lavoro, The Dutchess, e come poi sarà M.I.L.F., per dire. Ma non è tanto sulla canzone che vorrei concentrare la mia narrazione, quanto piuttosto sul video che la accompagna e ne è evidente contraltare. Che Fergie sia una gran bella donna direi che non ci piove. Non esattamente nel mio range di bellezza, ma l’oggettività dice questo. Che la sua bellezza le sia stato spesso imputata come colpa, o meglio, che l’essere bella le sia stato rivolta contro come arma per provare a sminuirne le indubbie doti artistiche è altrettanto un dato di fatto. Come potrebbe mai una donna così bella essere anche brava?, questa la traccia non detta, o a volte anche detta, ma così, en passant. Una modella prestata al pop, questo invece è stato scritto più volte, come se qualcuno si sia mai permesso di dire, che so?, a Lenny Kravitz che quegli addominali scolpiti non possono certo andare di pari passo con un qualche talento artistico, si decida. Fergie non sembra curarsene troppo, stando almeno alla sua iconografia e, appunto, ai video, infatti compare spesso in bikini, o comunque poco vestita, il clima perennemente estivo dei suoi video, la California è la California, il suo modo di cantare è decisamente orientato verso una sensualità esplicita, mettiamola così, quando si tratta di prendere il toro per le corna Fergie sembra non avere tentennamenti. Così è anche in questo video, L.A. Love, che inizia alternando scene da party, notturne, a suo di twerking e balletti vari, a scene assolutamente balneari, un primo piano del culo di Fergie, atto a introdurci al resto del suo corpo, parcellizzato, a stento racchiuso in un bikini turchese, con tanto di palma cui Fergie si appoggia e sdraio e ombrellone. Due facce della stessa medaglia, la notte e i party, il giorno e la spiaggia, come una Pamela Anderson senza il dovere di dover salvare i bagnanti. Che poi il motivo che mi ha spinto a scegliere questa e proprio questa canzone è invece esattamente lo spirito salvifico di cui è involontariamente intrisa, almeno nella versione video, e più nello specifico nei primi ventotto secondi, quelli che ci mostrano le scene scure e sexy del party contrapposte a quelle solari e altrettanto sexy della spiaggia, i bassi a farla da padrone, prima di staccare con un “lallalallalà lallalallalà” atto a introdurre la prima strofa, esattamente nell’istante in cui entra in scena il bus che nel proseguio del video scopriremo essere location proprio di quel party. I bus è una specie di Furthur di kenkeneysiana memoria, ipercolorato, psichedelico, carnevalesco e caciarone, che ha sul muso appiccicato una gigantesca maschera da teschio messicana, bianca e con decorazioni in nero. Avete presente, immagino, di cosa sto parlando, da che Halloween è divenuta parte del nostro corredo genetico, seppur in maniera un filo indotta, la Santa Muerte, il Dia de los muertos e tutto quello che concerne il rito legato alla festa dei morti messicana ci è divenuto familiare, Coco della Pixar e i calavera, teschi di zucchero, ormai reperibili anche nei nostri supermercati a ridosso della Festa di Tutti i Santi ne sono prova provata. Un simbolo legato alla morte, quindi, contrapposto a una sensualità esibita con sfacciataggine, festaiola, certo, ma non per questo meno efficace. La psichedelia, presente nelle decorazioni del bus, nei colori sgargianti delle comparse, in prevalenza ballerine e ballerini, nelle luci che nei passaggi notturni circondano la scena, nei cartoon che ogni tanto arrivano a fare da contorno all’esile trama, un ingrediente sicuramente fondamentale, contrapposti al bianco e nero di quel teschio, teschio che seppur giocoso, carnevalesco, nelle scene notturne impreziosito da luci al led, sempre alla morte ci rimanda. Morte che viene non solo stigmatizzata, ma propria anestetizzata, narcotizzata e lasciata esanime al suono di una canzone volutamente leggera, bassi che vibrano e lallazioni varie. Non è mica un caso che, lasciando sparire proprio il bus con il teschio in faccia nella notte, l’ultima immagine a occupare la scena è quella di Fergie in bikini, il culo in mostra e una palma a sorreggerla, formato cartolina di Los Angeles, i colori accesi del cielo, del costume, della spiaggia a donare al tutto un che di acceso e vivido, l’esatto contrario della morte. Poi, è chiaro, ci saranno milioni di canzoni in grado di cantarci la vita e quindi di opporsi alla morte in maniera molto più articolata e poetica, anche solo rimanendo in area urban avrei serenamente potuto esibire In vein di The Weeknd col featuring di Rick Ross, Stronger di Kanye West, con l’ausilio dei Daft Punk, e andando indietro nel tempo, molto indietro nel tempo, Give it Up dei Public Enemy o 5 on it dei Lunatics, o magari spostarmi più sul pop e citare Hips Don’t Lie di Shakira e Wyclef Jean o Electric Heart di Sia con lo stesso The Weekend, ma mai come oggi credo che un culo, metaforico o letterale, ci possa essere di sollievo per cacciare lontano quell’idea persistente di fine imminente che ci accompagna da troppi mesi.