L’altro giorno, in macchina, coi miei figli piccoli abbiamo optato per ascoltare la radio, invece che un cd. Sì, sono uno di quelli che hanno il lettore cd in auto, costato quasi come l’auto stessa, perché a me lo streaming continua a non piacere e credo che la resistenza passi anche da scelte etiche come questa. L’alternativa, quindi, a parte il silenzio o una chiacchierata, che comunque la mattina, quando li accompagno a scuola, non sarebbe esattamente brillante, è la radio, in genere sintonizzata su RTL 102,5, un po’ perché lì ci ho lavorato per qualche anno, e ci sono a mio modo affezionato, un po’ perché mi piace capire che musica mi gira intorno, quella che in genere definisco la musica demmerda, per intendersi, anche per far sì che intorno rimanga, senza mai avvicinarsi troppo. I tormentoni estivi, per essere chiari, non li conoscerei proprio, non fosse per la radio, il che potrebbe anche essere un bene, chi guarda nell’abisso, Nietzche e quella roba lì, ma credo che il lavoro che faccio preveda anche che mi sporchi le mani, o nello specifico le orecchie. L’altro giorno, comunque, abbiamo optato per la radio, perché i gemelli volevano sentire il pensiero mattutino di don Antonio Mazzi. Lo so, detta così suona buffa, ma ogni mattina, intorno alle 8, arriva in onda una telefonata di don Antonio Mazzi, il quale, col suo modo tutto particolare di parlare recita una massima, spesso frasi piuttosto semplici, quasi elementari, e salutando ripete cinque o sei volte “ciao, ciao, ciao, ciao, ciao, ciao”, divertendoli molto. Dopo la massima di don Antonio Mazzi, in genere, parte un classico, a RTL 102,5 li chiamano Millennium Hit, a ragione, l’altro giorno Wild world nella versione di Cat Stevens, quando ancora si chiamava Cat Stevens. Così, imbottigliato nel solito traffico mattutino, niente di vicino a un ingorgo, certo, ma comunque abbastanza da procedere con grande calma, fatto che mi spinge a uscire di casa qualcosa come mezz’ora prima della campanella, vuoi per coprire i due chilometri che ci dividono dalla strada, vuoi per trovare poi parcheggio nei pressi della scuola, a Milano ormai parcheggiare è impresa degna di un campione olimpico, ma di quelli pluripremiati, dentro la nostra monovolume blu scuro, mi sono ritrovato a canticchiare di questo mondo selvaggio, a distanza di una cinquantina d’anni è sempre lì, tamburellando il ritmo con le mani sul volante.
Chiara, mia figlia, mi ha fatto notare, garbatamente e con la sua vocina vagamente roca, che il testo di Wild world, nella versione di Cat Stevens, è piuttosto ripetitivo. “Dice sempre le stesse parole,” ha detto, aggiungendo poi, “quasi tutte le canzoni che piacciono a te ripetono sempre le stesse parole”, immagino andando a sintetizzare in pochissime parole, e con il linguaggio piano del bravo divulgatore, come la musica di oggi sia cambiata, i canoni compositivi classici, strofa, strofa, bridge, ritornello, strofa, bridge, ritornello, special, ritornello, ritornello completamente esplosi, le strutture sempre più esili, fragili, anche, il range melodico e armonico che si è fatto via via sempre più risicato, meno accordi su cui costruirli, più sciatteria nel cercare soluzioni originali, siete gente di questo tempo, non credo vi servano le didascalie.
Tutto vero, sia riguardo alla ripetitività di Wild world e dei grandi classici, sia rispetto alla deriva presa dalla musica contemporanea, taciuto solo apparentemente da Chiara, mia figlia.
Fatto piuttosto curioso che il sottolineare la sciatteria delle canzoni scritte oggi, quelle almeno che all’oggi sembrano guardare, Adele è Adele anche perché non scrive canzoni seguendo queste indicazioni di massima, sia passato dall’aver sottolineato una ripetitività eccessiva del testo di un grande classico, testo che presenta addirittura dei “la-la-la-la-la-la-la-la-la-à”, senza fortunatamente concentrarsi sul sound della canzone, immagino che ai suoi giovanissimi orecchi una chitarra acustica e i poco altro risulti parecchio vintage, seppur la parola vintage sia per lei solo e esclusivamente ascrivibile al mondo dei vestiti, tipo quelli di cui è appassionata sua sorella maggiore, Lucia. Certe scoperte, a volte, passano anche da percorsi improbabili, inimmaginabili a mente fredda.
Io, per dire, Wild world non l’ho scoperta tramite Cat Stevens. Quando è uscito Tea for Tillerman, album della consacrazione definitiva del cantautore statunitense, nel 1970, io avevo un anno e mezzo, dicessi di averla sentita a suo tempo mentirei. Poi, intendiamoci, magari a suo tempo potrebbe anche essere capitato io l’abbia ascoltata, ma sicuramente non per mia diretta volontà, né per diretta volontà di qualche mio familiare, i miei genitori ovviamente non ascoltavano Cat Stevens, il massimo del loro essere alternativi era ascoltare Domenico Modugno invece che Claudio Villa, e anche mio fratello, che poi mi introdurrà a tutta la musica della west coast, da Jackson Bronwe a James Taylor, passando per Crosby, Stills, Nash & Young e gli Eagles, all’epoca aveva nove anni, un po’ fuori target. Non ho sentito Wild world cantata da Cat Stevens, o almeno non l’ho conosciuta tramite la sua voce, mentre, anni dopo, ho conosciuto Cat Stevens per Father and son, che sempre in quel disco è contenuta, sua massima hit, fattami ascoltare casualmente da un mio ancora oggi caro amico, Simone, il quale la suonava durante uno spettacolo tenuto in parrocchia. Wild world l’ho conosciuta, come parte della mia generazione, per la versione dei Mr Big, nel 1993, quando di anni ne avevo ventiquattro, ero un chitarrista punk che non disdegnava di ascoltare anche del sano hard rock, pure quello figlio diretto dell’Hair Metal tanto in voga nella metà del decennio precedente, roba tutta distorsori, capelli cotonati, canotte e pantacollant col pacco in evidenza. In effetti, a ripensarci, era il decennio precedente quello in cui mi ero appassionato, moderatamente ma con costanza, a quella strana commistione tra pop e metal che rispondeva al nome di Hair Metal, il riferimento al look era preponderante, ma nei fatti la caratteristica principale di tutte le band che intorno a quel genere ruotavano era la capacità di quegli artisti, tutti bellocci, boccoluti e dai fisici abbastanza prestanti, di azzeccare una serie di hit che potevano appartenere a due e due categorie soltanto, i pezzi tirati, radiofonici, da ascoltare in auto con una six pack al seguito, questo è un riferimento specifico a buona parte dei testi delle suddette band, e delle ballad acustiche e strappalacrime, da ascoltare ballando o facendo ondeggiare degli accendini (gli smartphone sarebbero arrivati molti anni dopo). Penso ai Poison, agli Extreme, agli Skid Row, ai Twisted Sister, ai Def Leppard, agli Warrant, agli Hanoi Rocks, agli L.A. Guns, non volendo includere nel gruppo anche realtà più pesanti, parlo di peso specifico, non di durezza dei suoni, quali Mötley Crüe, Van Halen o Scorpions, figuriamoci che qualcuno all’epoca considerò tali anche Aerosmith, Kiss, Alice Cooper e i Guns ‘n Roses, in effetti partiti da quei lidi, ai tempi in cui dividevano la scena coi Faster Pussycat e i già citati L.A. Guns, ma presto approdati altrove, come altrove si muovevano gli Whitesnake di David Coverdale o gli Europe di Joey Tempest, presenti variabili non esattamente memorabili, come gli Enuff Z’Nuff o i Cinderella, che a discapito dei nomi erano davvero poca cosa. Caso a se stante i Bon Jovi, a pieno titolo alfieri del genere, ma comunque destinati a evolversi e rimanere nel tempo. Per me, personalmente, caso ulteriormente a parte i Tesla, il loro 5 Man Acoustical Jam uno dei miei album del cuore, di quelli da portare nella famosa isola deserta, ve ne ho parlato una vita fa qui https://www.optimagazine.com/2019/08/26/five-man-acoustical-jam-quando-i-tesla-decisero-di-eliminare-lelettricita-dal-rock/1556467.
I Mr Big, in questo scenario, erano una realtà non centrale, parte del flusso, non certo protagonista assoluti. Certo, hanno azzeccato qualche hit, penso alla stessa Wild world, ma anche To be with you o la ballad Just take my heart, entrambi tratti dal secondo album della band, Lean into it, del 1991, uscito a due anni dall’album d’esordio, l’omonimo Mr Big, nome ispirato da una cover dei Free di Paul Rodgers, poi contenuta nel terzo lavoro di studio, Bump ahead, il medesimo che ospitava anche la cover di Wild world di Cat Stevens. L’Hair metal, figlio minore del glam rock raccontato sapientemente da Simon Reynolds nel saggio Polvere di stelle, qualsiasi cosa abbia scritto Simon Reynolds andrebbe letto e studiato, dico l’ovvio, è stato poi spazzato via dal grunge, esploso proprio mentre i Mr Big muovevano i propri passi in classifica, un rigore filologico e soprattutto una furia devastante e devastata mista a un giusto grado di depressione cronica laddove era solo divertimento sfrenato e smielate dichiarazioni d’amore. Da amante dell’hardcore, passione iniziata nella seconda metà degli anni Ottanta, già ho raccontato questa storia, grazie all’amicizia di Paolo e Roberto Bartola, quest’ultimo poi bassista degli Epicentro, band punk di cui io ero il chitarrista, gli Hüsker Dü sopra tutto e tutti, ma anche i Minor Threat, i Fugazi, gli Alice Donut, a scandire le mie giornate, ho ovviamente accolto con un certo entusiasmo l’arrivo del sound di Seattle, da Mark Arm in poi mi sono immerso fin sopra i miei lunghi capelli ricci, all’epoca ancora neri, in realtà quali i Nirvana, i Soundgarden, i Mudhoney, i Pearl Jam, gli Alice in Chains, Screeming Trees, Stone Temple Pilots, lasciando che le istanze dell’Hair Metal scivolassero in un angolo buio del mio subconscio, non saprei neanche dire quale, pronte a saltare fuori all’improvviso, così, mentre sto portando i miei figli a scuola in auto, in una mattina autunnale in cui non ci andava di ascoltare nessun cd. Sarà per questo, immagino, che tornato a casa sono andato verso la mia libreria e ho pescato Fargo Rock City, libro di Chuck Klosterman che porta come sottotitolo “Un’odissea heavy metal nel Nord Dakota rurale”, ma che in realtà all’Hair Metal dedica ampio spazio. Chissà quando, mi sono chiesto andandomi ovviamente a riascoltare tutte le band che ho su nominato, ci sarà un revival di questo genere così anche legittimamente bistrattato, in fondo in questo parlare a sproposito di ritorno del rock, Maneskin in testa, un po’ di spazio anche a una sana e effimera full immersion nel rock più tamarro e fintamente machista (le pantacollant, il trucco, i capelli cotonati, dai, non scherziamo) ci potrebbe pur stare.
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