Quarant’anni fa moriva la boxe. Spirava in un lugubre esito il pugilato dell’era moderna, incarnato nell’atleta più Grande di ogni tempo: l’ultimo combattimento di Muhammad Ali, nelle Bahamas, una tragedia annunciata, epilogo di una carriera drammatica come nessuna. Ali, nato Cassius Clay, pugile delle imprese impossibili – contro Liston, contro Foreman -, non fu, come disse Gianni Minà, quello che tolse violenza alla boxe, al contrario nobilitò la violenza, la rese bella da vedere. Perché i suoi incontri furono quanto di più violento, di più estremo il pugilato possa ricordare. La trilogia contro Frazier su tutte, 41 round che distrussero entrambi, in particolare gli ultimi 14 a Manila: “Arrivammo da campioni, ce ne andammo da vecchi”, parola di Muhammad. Quello fu il match più selvaggio in assoluto, qualcosa che ancora oggi, 46 anni dopo, fa inorridire: nessuno dei due voleva cedere, e Ali aveva abituato il suo corpo ad assorbire punizioni terrificanti, insostenibili per chiunque. Come l’anno prima in Africa, contro Foreman, il picchiatore più brutale di sempre. Tutta la sua seconda vita sportiva fu all’insegna del martirio, si lasciava massacrare da pugili devastanti come Frazier, Foreman, Lyle, Shavers e li batteva stancandoli. Ma le conseguenze si accumulavano. Ali fu capace di combattere, di vincere già ammalato, sindrome di Parkinson che rallentava gesti, riflessi, che impastava le parole. Eppure saliva sul quadrato e ce la faceva. Dopo il ritiro nel 1978, riconquistato il titolo contro il semidebuttante Leon Spinks, che l’aveva sconfitto otto mesi prima, sembrava davvero storia chiusa. Una vicenda irripetibile, sovrumana, più grande della boxe e della vita stessa: Ali davvero in quei 16 anni di pugilato, interrotti da una pausa forzata di 3 anni e mezzo per il suo rifiuto di arruolarsi nella guerra del Vietnam, era riuscito a deviare l’orbita terrestre: non ci sarebbe stato un presidente nero senza di lui, attivista, uomo di spettacolo, atleta senza confini.
Ma il richiamo della jungla era troppo insistente: tutta quella gloria, tutti quei soldi “facili”: perché non provarci ancora una volta? Forse Ali a quel punto non era più lucido, e si riteneva invincibile anche da ombra di se stesso. Fatto sta che arrivano due appendici, strazianti, patetiche, drammatiche, nell’80 contro l’ex allievo Holmes, e un anno dopo di fronte a Trevor Berbick, destinati a venire massacrati entrambi da Tyson. Comparsate di un sacco prima troppo pieno (130 kg!), poi, al momento di salire sul ring, troppo vuoto, ampiamente dopato, chiaramente menomato. Patetico, per la prima ed ultima volta, nelle sue pantomime, nelle minacce plateali verso l’allievo che, ormai cresciuto, si appresta a maciullarlo. Ali lo sa. Può solo sperare che l’altro abbia una sorta di reverenziale timore. Ma Holmes è all’apice, del rispetto giustamente se ne frega e c’è solo da chiedersi come Ali abbia potuto reggere bene o male 10 round. Larry onora certo la boxe, il suo ruolo di combattente, ma forse non il suo vecchio e ormai malconcio maestro, sul quale sembra a volte infierire con una misura eccessiva, la frustrazione di chi può finalmente uccidere il padre. L’immagine di un Ali che, al termine della decima ripresa, non riesce ad alzarsi dallo sgabello, i lineamenti cancellati dai colpi subiti, è talmente ingenerosa, talmente crudele che vorremmo cancellarla, qualsiasi sportivo l’ha rimossa dai propri ricordi. Alla fine, Larry lo abbraccia piangendo: “Sei il mio maestro, ti devo tutto”. “E allora perché mi hai menato?”, gli biascica un Ali conciato come mai si era ridotto in 18 anni di pugilato.
Dopo questo incontro, Ali comincerà a palesare quell’aspetto intorpidito, quella rigidità meccanica, quelle difficoltà di parole tipiche di un malato di Parkinson che insistevano già da almeno 5 anni, ma che era riuscito in qualche modo a dissimulare. La punizione, non divina ma umana, troppo umana, è già in viaggio.
Ma Ali non cede, per necessità e per vanità. Lo danno prosciugato dai debiti, lui ci scherza sopra: “Dicono che sono braccato, che non ho più un soldo, che sono a pezzi: beh, vedrete un quarantenne diventare Campione e non ve lo scorderete”. Solo che oramai nessuno ci crede più. Non questa volta. Tutti sanno ormai. Ali è un fantasma pesante quando sale sul quadrato, ha la faccia gonfia e immobile di un condannato a morte. Ha i capelli tinti. Non parla, non sfotte, la sua espressione suggerisce l’attesa dell’inevitabile: che passi pure quest’ultima ora, e poi sarà finita, davvero finita, per sempre. A bordo ring pregano per lui, anche la moglie, anche la figlia da casa, come sempre dai tempi di Foreman, ma questa volta è diverso. Ali è malato, non è più un segreto, talmente malato che già fatica a parlare: come si può mandare un fantasma tremante, che fatica anche solo ad allenarsi, che ingurgita, senza contarle, manciate di pillole di tutti i colori, a fare a botte con un colosso di cento chili, di 14 anni più giovane? Ma la Commissione Pugilistica si volta dall’altra parte e il grand guignol può cominciare. Berbick non è un campione, è uno che con il vero Ali sarebbe durato al massimo un paio di riprese. Ma è quanto di meglio la boxe attuale può offrire, avido, cattivo, ha accettato di giustiziare il fantasma facendosi pagare come un boia di lusso: due ore prima di un match squallido, organizzato da un trafficante malfamato persino per i tetri standard del pugilato, rifiuta una cambiale e pretende il saldo, 250mila dollari, in una sporta. Glieli portano, tramite una televisione privata, poi arrivano i guantoni: due sole paia, non c’è altro in quel ring da sottoclou, ricavato da uno stadio di baseball non ancora terminato, dove il gong è sostituito da un campanaccio e l’aria è tetra e pesante: il “drama in Bahama”, poi ribattezzato “Trauma in Bahamas”, può cominciare.
Eppure Ali, il fantasma Ali, l’infermo Ali, si comporta meglio che un anno prima con Holmes. Vince la prima ripresa, dove anticipa sistematicamente l’avversario. Perfino in quelle condizioni, annebbiato, senza più riflessi, trova, di puro istinto, la scelta giusta per anticipare l’avversario. Poi, al gong, stramazza sullo sgabello e si capisce che è finita. Già finita. Ma Ali sopravvive a se stesso, lotta per tutto l’incontro, incassa insulti – “Andiamo, vecchio, fammi vedere quanto sei veloce!” – e mazzate che aggravano la sua condizione e non di meno riesce, come può, a replicare: vince anche la terza ripresa, ed è l’ultima volta che brilla in 20 anni di boxe. Il suo coraggio, il suo orgoglio sono le uniche doti non appassite: si farà uccidere piuttosto che cadere. Finisce in piedi, più gonfio di un’ora prima, i lineamenti alterati come da uno specchio deformante. Ma in piedi. “Niente sangue”, farfuglia, “nessun dente rotto, nessuna foto di me al tappeto. Non male per un trentanovenne. Tutti invecchiamo, Padre Tempo mi ha preso. Contro Holmes non stavo bene, non respiravo, stavolta non ho scuse, è finita davvero”.
Il mondo piange, anche se Ali scende dall’ultimo ring a testa alta. Cinque anni dopo, Berbick conoscerà la più atroce delle Nemesi per mano di Mike Tyson, che in 4 minuti e spiccioli lo costringe, forse con un supplemento di ferocia, a quell’allucinante balletto che il mondo ricorderà per sempre. “Lo aspettavo, per vendicare Ali”, ringhia Mike, che nel mito di Ali è cresciuto, e che ammetterà sempre di “avere paura alla sola idea di poter salire sul ring con lui, perché io ero feroce, ma quest’uomo era disposto anche a morire e non si sarebbe mai arreso”. Dopo Berbick, Tyson punirà anche Holmes, espressamente per vendicare il suo modello, Muhammad Ali, il quale, salendo sul ring prima dell’inizio, gli farfuglia all’orecchio: ammazzalo, Mike, fallo per me.
Trevor Berbick ha perso l’ultimo match nel 2006, ammazzato da un nipote che gli ha sfondato la testa a colpi di machete. Solo un’altra storia nera nel mondo opaco e scintillante della boxe. Ali fino all’ultimo ha continuato a girare il mondo portando il suo messaggio di pace. Trema e tace, ma il suo mito non si spegne. Gli sopravvive e ogni pugile fa i conti con la perennità del Più Grande, stroncato nel 2016 da uno shock settico: talmente logoro da non potersi più difendere neppure da un bacillo. Nel suo tempo migliore, il dottore Ferdie Pacheco diceva: “Se sbarcassero gli alieni alla ricerca dell’umano perfetto, direi loro: prendete lui”.
L’uomo più stoico e più duro sul ring, il più crudele e divertente sotto i riflettori, il più compassionevole e generoso in mezzo alla gente, ha divorato se stesso fino all’ultimo pugno. Quarant’anni fa. Oggi i giovani non lo conoscono, non sanno di dovere qualcosa anche loro al Più Grande. Ali davvero fu oltre lo sport e oltre l’umano. Fedele al suo nome, fu “mandato da Dio”. E da Dio fu punito. E da Dio fu consegnato all’eternità.