La prima sequenza del Miami Vice cinematografico diretto da Michael Mann la dice lunga sul tipo di relazione che il regista intende instaurare tra il celebre telefilm omonimo da lui stesso ideato e prodotto nella seconda metà degli anni Ottanta, autentica pietra miliare nella storia della serialità televisiva, e questo film del 2006 che ne costituisce un singolare remake. La scena è ambientata in una discoteca, un luogo pieno di gente con musiche stordenti, luci acide e accecanti, in cui degli agenti sono costretti a districarsi tra la folla cercando di pedinare dei criminali. Uno dei più tipici luoghi comuni del genere thriller insomma, visto decine di volte. Che però Mann espone con una modalità secca e diretta, senza preamboli, gettando lo spettatore nel bel mezzo della vicenda, senza fornire alcun appiglio che gli consenta di orientarsi nel racconto.
Da un lato, così, il film gioca sulla memoria della serie tv, consapevole del fatto che al pubblico basterà scorgere nel buio le incerte sagome dei divi Colin Farrell e Jamie Foxx per capire che sono loro i nuovi Sonny Crockett e Rico Tubbs, e che quella cui stanno assistendo è senza dubbio una rischiosa operazione di polizia sotto copertura. Allo stesso tempo però tutte le caratteristiche specifiche del telefilm cult, con i personaggi stilosi e griffati interpretati all’epoca da Don Johnson e Philip Michael Thomas, sembrano come abrase via dalle immagini, che invece sono cupe e laconiche, senza nulla dello scintillio vistosamente modaiolo dell’originale.
In questo senso, sebbene s’ispiri a un episodio del 1985 della prima stagione della serie, Contrabbando, il film che Mann ha diretto e sceneggiato da solo non è propriamente un remake, ma un’operazione di riscrittura quasi dalle fondamenta, un omaggio ma anche un tradimento, o meglio un’opera che cerca una sua chiave di lettura per nulla calligrafica. E questo non può sorprendere trattandosi di Michael Mann, uno degli autori più silenziosamente sovversivi di Hollywood il quale, ancor più a partire dagli anni Duemila, quando con film come Collateral e questo stesso Miami Vice ha cominciato a sondare le potenzialità del digitale, ha continuato il sua inesausto lavoro di sperimentazione sulla forma cinematografica – sempre però restando ben saldo su dispositivi narrativi riconducibili ai generi, soprattutto tra thriller e (neo)noir.
Miami Vice quindi non solletica in alcun modo la nostalgia vintage di un pubblico a caccia di brividi anni Ottanta. E però regala allo spettatore che ama il cinema un film straordinario, che in due densissime ore srotola una narrazione priva di pause che vola alto e colpisce basso, in una declinazione del genere action, come ha scritto con acume Franco Marineo ne Il cinema del terzo millennio, che è un “bilanciamento provvisorio tra la geometria euclidea e l’adrenalina più animalesca, tra il sangue freddo e i nervi scoperti pronti a esplodere […], in una zona ibrida in cui coesistono l’energia muscolare e la cerebralità della teoria, il potere dei sensi e la riflessione quasi astratta sul senso di ogni immagine”.
- Li, Gong, Hinds, Ciaran, Theroux, Justin (Actors)
- Mann, Michael (Director)
Sonny e Rico sono catapultati in un’avventura rischiosissima, assoldati dai federali per fingersi trafficanti di droga, così da incastrare il boss internazionale Montoya (Luis Tosar) e il suo spietato braccio destro Yero (John Ortiz). Sonny però s’innamora della donna di Montoya, Isabella (Gong Li), che ne cura gli affari. Così la vicenda si sviluppa su di un duplice binario parallelo. Da un lato c’è il thriller contemporaneo, asfissiante e caratterizzato una violenza che se è quantitativamente contenuta ha delle accensioni brutali che non si dimenticano – Mann si conferma un maestro delle scene d’azione, all’altezza del capolavoro Heat. Dall’altro Miami Vice recupera un romanticismo che sarebbe stato bene in un noir d’altri tempi, confermando il legame profondo che il suo cinema intrattiene con quello della Hollywood classica.
Del noir delle origini Miami Vice ha anche il fatalismo, perché la fuga momentanea a due a L’Avana di Sonny e Isabella – l’unico momento in cui i colori del film, magnificamente fotografato da Dion Beebe, perdono il loro stilizzato gelo notturno e s’accendono – ha tutta l’aria di una parentesi illusoria dalla quale saranno strappati via un po’ per per colpa del destino crudele, e soprattutto per la fedeltà al ruolo che hanno scelto di interpretare nella vita – lei di criminale, lui di tutore dell’ordine –, secondo una logica non troppo distante da quella di Heat.
Non è un caso allora che, nato come blockbuster da 135 milioni di dollari di budget con due star di prima grandezza (Foxx era reduce dall’Oscar come attore protagonista vinto per Ray), Miami Vice sia stato alla fine un mezzo flop, con incassi al di sotto delle attese in patria, 63 milioni, e appena superiori all’estero, circa 100. Questo perché il film è decisamente lontano dalle atmosfere della serie tv e dalle attese spettacolari del pubblico, un’opera radicale che costituisce un nuovo capitolo di quella inesausta interrogazione di Michael Mann sul ruolo e la forza delle immagini, assemblate in un’affabulazione ipnotica in cui la sua vocazione (post)moderna da poeta delle metropoli – l’inconfondibile ritratto d’una città scomposta in cromatismi densi e raggelati – si combina con l’“antiquato” spirito umanista del narratore dedito al racconto di personaggi autentici, col loro grumo di emozioni, valori e scelte inappellabili. Un film, insomma, bellissimo.