Sono nato in centro. Certo, nel centro di una città di provincia, nella periferia dell’impero. Ma in quel contesto, Ancona, io sono nato in centro. Ho praticamente vissuto anche tutta la mia vita giovanile in centro, giusto gli ultimi anni in periferia, i miei che hanno deciso di cambiare casa per avvicinarsi a mia sorella maggiore. Una casa, forse anche in virtù del mio essere sempre vissuto in centro, che onestamente non ho mai visto come mia. Del resto, superato i venti, a casa ci passavo giusto il minimo sindacale, poi via, a Milano. Ecco, anche a Milano ho sempre vissuto in zone abbastanza centrali, certo non in centro centro, luogo che mi è ovviamente stato negato da status sociale e lignaggio, ma comunque in zone che non potrei definire periferiche, residenziali, l’Università a due passi. Ho lasciato la mia terra natale, la provincia, ovvio che andando in una metropoli volessi prendermene tutti i vantaggi, già svantaggiato dall’aver reciso le mie radici, dalla saudade, dall’assenza degli affetti e del mare. Avessi dovuto optare per la periferia o addirittura per l’hinterland, difficile distinguere l’una dall’altra, in certe parti di Milano, avrete tutti sentiti parlare della grande metropoli, quella che va da Novara fino al Veneto, in barba a Monza e la Brianza che mentre tutto questo veniva ipotizzato si staccava diventando provincia a se stante, sarei rimasto nelle Marche, o magari sarei andato in un altrove altrove, a Londra, a Stoccolma, in America. Quindi no, non conosco la periferia. La conosco per esserci passato, certo, anni fa mi sono anche fatto a piedi tutta la periferia di Milano, con Gianni Biondillo abbiamo percorso il periplo della città, costeggiando le tangenziali, proprio per scrivere il libro che portava per titolo Tangenziali, appunto, credo di poter dire di conoscere abbastanza tutta Milano, dopo ventiquattro anni che ci abito, ma non ci ho mai vissuto, in periferia.
Non sono neanche mai stato agiato di famiglia. Sono figlio di una famiglia piccolo borghese, credo di poter dire, mio padre impiegato in una azienda pubblica, l’azienda dei trasporti locale di Ancona, mia madre a lungo casalinga, a un certo punto impiegata come segretaria proprio nel liceo che ho frequentato io. Tre figli, tutti scolarizzati, io il solo a frequentare l’Università, poi mollata a un esame dalla laurea, la tesi già scritta, vedi a essere artisti che fine si fa. Non ho avuto particolari agi, anzi, almeno nel periodo delle elementari e medie, passato in un quartiere molto centrale, la casa del prefetto di Macerata dataci in affitto dal comune nel momento in cui la nostra casa, nel centro storico, era diventata inagibile per il terremoto che ha devastato Ancona nel 1972, ho sentito abbastanza il disagio di crescere in mezzo a gente con status e economie diverse dalle mie, ma non posso dire di essermi mai visto rifiutare niente, cresciuto e educato a non chiedere il troppo, la consapevolezza che nella vita tocca sudarsela e che comunque, nonostante quel che recita Vasco nella sua Siamo qui, non siamo quello che abbiamo, non tutti.
Quando quindi mi capita di leggere certe dichiarazioni, dichiarazioni che ruotano sempre intorno a un disagio esistenziale figlio di una infanzia e adolescenza passata in luoghi disastrati, come Sarajevo dopo i bombardamenti, Kabul, Beirut, quella roba lì, tendo per mia natura a concedere più del solito beneficio d’inventario, che esperienza ho mai avuto io di devastazioni e affini? Solo che, lasciata la provincia con la metaforica valigia di cartone, quella di Pablo, il personaggio cantato da Francesco De Gregori nel capolavoro Rimmel, con gli anni mi sono in qualche modo affrancato dal provincialismo che dentro quella valigia di cartone era stipato, tra vestiti mal piegati, tanto non indosso camice, e qualche cd masterizzato, e con la venuta meno del provincialismo, una certa bonaria ingenuità è a sua volta spirata nel sonno, come dire, va bene essere boccaloni, ma proprio coglioni no. Così ho cominciato a provare quella che tecnicamente si dovrebbe chiamare diffidenza, certo non spalmata democraticamente su tutto, ma concessa e concentrata su determinati discorsi, quasi tutti concernenti il disagio di chi, partito come un privilegiato si è trovato a doversi confrontare con ostacoli e asperità, figuriamoci chi è ben più che privilegiato. Per dire, per chi come me, figlio della piccola borghesia in una città di provincia, si è trovato a trasferirsi altrove, lasciando gli affetti e le radici, l’idea che il figlio di un notissimo attore e regista e di una scrittrice di grande successo, a sua volta attore, regista e scrittore pubblicato con grande strombazzamento dalla Mondadori, acclamato all’esordio come una delle penne più illuminate di questi tempi, si lamenti della sua gioventù a Roma Nord, non esattamente il Bronx, parlandone come del “proprio Vietnam”, beh, mi inietta gli occhi di sangue, trasformando questo pacioso padre di famiglia in un serial killer di quelli sadicissimi, vittime torturate per mesi, senza un briciolo di pietà. Idema se a parlare della propria giovinezza come di qualcosa vicino alla massima sofferenza concepibile, tra delinquenza, droga, marginalità è il figlio di un magistrato anche di un certo prestigio, come se bastassero esibire poi tatuaggi in faccia e look discutibili per rendere credibili racconti dopati come neanche i muscoli di certi wrestler.
Poi, però, la curiosità di capire esattamente cosa abbia portato i due soggetti in questione a dire ciò, fatta la tara dal sentire intimo, che a volte può portare a ingigantire situazioni al limite della normalità, rendendo tragedia ciò che neanche alterazione della routine quotidiana sarebbe, mi ha portato a leggere le interviste in questione, andando così a scoprire che no, Pietro Castellitto non ha detto che la sua giovinezza, lui che in parte giovane è ancora, è stata un Vietnam, lì dalle parti di Ponte Milvio e dei Parioli, nel senso che ha vissuto situazioni di strada, di violenza, di degrado, semmai il contrario, è andato cioè a stigmatizzare quella modalità di impostare la vita altoborghese che vuole tutto letto in chiave di competizione, di avidità, di esibizione della ricchezza e del proprio o familiare successo, una sorta di gara a chi ce l’ha più agghindato che, in qualche modo, priva la vita stessa di reali valori, vedi come si può travisare un dire, magari eccessivo, magari poco efficace, se solo si commenta così, a cazzo di cane. Nel caso di Achille Lauro, invece, la faccenda è diversa, come per tutto quel che lo riguarda, lui che si autoproclama portavoce del gender fluid e poi incassa cantando canzoncine irrilevanti in compagnia di Fedez e Orietta Berti, ospite di Pio e Amedeo, celebrato dal Mudec, testimonial di Gucci, e qui credo il segreto del suo successo, per il quarto anno consecutivo al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, anche se dopo essere stato il superospite fisso tornare in gara è probabilmente errore di marketing piuttosto marchiano, almeno che non abbia contrattato la vittoria finale, come per tutto quel che lo riguarda, quindi, la realtà è una sorta di suppellettile che può essere spostata da mensola a comò come meglio preferisce, quindi tanto lui è l’incarnazione dello spirito punk, rock, glam etc etc, così disse a Sanremo, tanto è la fluidità sessuale fatta persona, tanto è uno che, nonostante abbia vissuto una vita agiata e in seno a una famiglia altoborghese, possa in realtà parlare di sé come il protagonista, e figurati se non è il protagonista, di un libro di Pier Paolo Pasolini. Si chiama fiction, figuriamoci se ho qualcosa contro la finzione, solo che andrebbe dichiarata in partenza, lasciando da parte la verità.
Mi era capitato in passato, parliamo di quindici anni fa, di smascherare e quindi criticare, con ironia forse poco dosata, la pantomima dei Club Dogo, per due terzi parte dell’alta borghesia milanese, Jake La Furia figlio del pubblicitario Vigorelli, uno dei pesi massimi del settore, quello, per dire, di “Campari, sì” o della pubblicità di lancio di Rolling Stone, che non a caso li aveva esaltati, e Guè Pequeno figlio della caposervizio di cultura di Panorama e di un giornalista del Sole 24 ore, vado a memoria nel secondo caso, alla faccia della vita di strada, la periferia, la delinquenza. Lo avevo fatto sulle pagine di Panorama, ignaro che la madre lì lavorasse, strumento di mobbing, io, da parte dell’allora direttore del magazine Mondadori nei confronti della sua dipendente (io ignoravo questa situazione, lui no), e di questo mi sono poi incazzato. E se mi ero impegolato in quella querelle non era certo perché io sia uno strenuo paladino della verità, il me stesso che leggete ogni giorno dentro i miei testi è un avatar, non è che io sia esattamente un libro aperto, l’autofiction è auto, sì, ma anche fiction, se mi ero impegolato in quella querelle era più che altro perché i nostri perculavano in dei versi Tiziano Ferro, ancora lontano dal coming out, dicendo che faceva ridere il suo parlare d’amore rivolto alle donne. Premesso che Tiziano Ferro non nutre alcuna simpatia da parte mia, che con me si è comportato in almeno un paio di occasioni da persona davvero disdicevole, quindi lungi da me il volerlo difendere a oltranza, farsi paladini della verità per la verità e mentire, credo, era cosa da mettere in risalto, evidenziandola con uno Stabilo Boss fluo, tendenzialmente giallo.
Sempre rimanendo nel campo dell’autofiction, quando anni dopo io e Guè Pequeno abbiamo avuto più di un catfight su Twitter, da parte mia piuttosto divertiti, lui ha tirato in ballo proprio sua madre, non ho mai capito se realmente lei o sua invenzione narrativa, pubblicando uno screenshot di uno scambio su Whatsapp nel quale lei in qualche modo mi insultava, cui ho risposto con uno screenshot di uno scambio, sempre su Whatsapp tra me e mia madre, quello del tutto inventato, nel quale la mia gli rispondeva, letteralmente, per le rime. È così, credo, che certe faccende andrebbero affrontate, con ironia, non con ferocia. Tornando però alla questione Castellitto, credo che pretendere dal tribunale dei social di andare oltre stupide citazioni estrapolate ad hoc sia ovviamente troppo, l’analfabetismo di ritorno è una faccenda seria, far finta che non esista sarebbe sciocco, mi aspetterei però che chi invece ha gli strumenti di analisi, le voci autorevoli, si soffermassero a contare non dico fino a dieci, ma almeno fino a due prima di sentenziare a caso, evitando così di prender parte a un gioco al massacro onestamente avvilente. Parola di chi ai bordi di periferia non c’è nato, non c’è vissuto e a cui Eros Ramazzotti, nella quasi totalità della produzione, fa anche abbastanza cagare.
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