Cry Macho – Ritorno A Casa è la 39esima regia di Clint Eastwood, tratta da una sceneggiatura di N. Richard Nash, da cui l’autore trasse anche un romanzo nel 1975. Lo script è girato a lungo tra gli studios, proposto molti anni fa, tra gli altri, allo stesso Eastwood e a Schwarzenegger, prima di ritornare al 91enne attore e regista, dopo la revisione del fido Nick Schenk (che aveva firmato gli script del capolavoro Gran Torino e de Il Corriere).
Al centro della storia, ambientata alla fine degli anni Settanta, c’è un anziano cowboy da rodeo, il texano Mike Milo (Eastwood). Nel suo ambiente è stato qualcuno, ma ormai è giunto alla fine della carriera per ragioni di età e, s’intuisce, per i segni dei terribili lutti che l’hanno colpito. Il suo ex datore di lavoro Howard (il cantante country Dwight Yoakam) gli chiede un ultimo favore, andare in Messico a riprendere il figlio adolescente Rafael (Eduardo Minett), perché, sebbene non abbia rapporti da anni con lui – infatti a Mike è in grado di dare solo una foto di lui bambino – è preoccupato dalle voci che gli giungono relative ai maltrattamenti, se non peggio, che subirebbe dalla madre e dal suo ambiguo entourage.
Intrapreso il viaggio oltrefrontiera, Mike non fatica a trovare Rafael, uno sbandato che si guadagna la vita per strada con i combattimenti di galli – ha battezzato Macho il suo campione da cui non si separa mai –, un ragazzo precocemente sfiduciato e, non è difficile comprenderlo, paurosamente bisognoso di affetto. Il ritorno in Texas si rivelerà però più laborioso del previsto, con vari scontri – gli scagnozzi che la madre di Rafael ha sguinzagliato alle calcagna di Mike – e incontri – la vedova Marta (Natalia Traven), proprietaria di una tavola calda, che aiuta i due malcapitati.
Non è difficile capire cosa della storia di Cry Macho abbia attratto Clint Eastwood, sedotto dall’idea di un western contemporaneo crepuscolare e meditabondo, in cui ricapitolare i temi delle sue opere maggiori, la vecchiaia, la disgregazione della famiglia, il mito della virilità a ogni costo. Certo, va detto subito, il rischio bignami è dietro l’angolo in quest’opera di una linearità piuttosto didascalica e di fattura estenuata – ma tutto il cinema recente di Eastwood ha messo da parte gli assilli formali. E abbondano tanto i clichés – la rappresentazione convenzionale del piccolo paesino messicano dove vive l’appetitosa vedova attorniata da un nugolo di simpatici marmocchi – quanto le inverosimiglianze del racconto – a partire dall’età del suo protagonista, decisamente troppo in là per il ruolo.
Si finisce però per accettare (quasi) ogni cosa. Da un lato, semplicemente, per la forza iconica del regista-protagonista Clint Eastwood, la cui sola presenza prosciuga, o almeno dissimula, gli stereotipi di Cry Macho. Dall’altro perché gli innegabili limiti, se posti nella prospettiva della sua vasta filmografia, acquisiscono nel gioco dei rimandi interni un significato più profondo. Lo smontaggio della retorica del machismo in sé non ha nulla di particolarmente originale, ma acquista spessore dal fatto stesso di essere indossata dal personaggio che Eastwood ha incarnato sullo schermo, che a torto o a ragione (più a torto, in verità) è sempre stato considerato un simbolo esemplare del maschio alfa americano.
Cry Macho propende per un racconto dall’andamento molto libero, che alla ferrea progressione narrativa antepone il gusto dell’avventura picaresca apparentemente inconcludente. Pedinando i protagonisti nel loro capriccioso itinerario da un lato approfondisce le relazioni tra i personaggi, dall’altro permette a Eastwood, come già in altri suoi film, Il Corriere in particolare, di esercitare la sua curiosità verso i luoghi e riti del piccolo mondo della provincia dimenticata, le persone che lo abitano, persino gli animali. E se in Filo Da Torcere (1978, diretto da James Fargo), Clint come compagno di viaggio aveva un orango, stavolta c’è l’inseparabile gallo Macho, che regala immediatamente un tono bizzarro, ironico e affettuoso alla vicenda.
In Cry Macho Eastwood incarna ancora una volta il cowboy fuori tempo massimo che preferisce dormire all’aperto sotto la luna, cullato dalla vastità dell’incomparabile paesaggio americano. Ma il suo non è un eroe senza macchia e senza paura, è un sopravvissuto consapevole tanto dei propri errori e cicatrici – che ha il coraggio di confessare solo nell’istante in cui l’oscurità della notte e il cappellaccio sempre calcato sul volto gli consentono di nascondere pudicamente le emozioni – quanto dell’impraticabilità del modello di virilità con cui è cresciuto e che continua a indossare come una maschera, sebbene abbia smesso di crederci da un pezzo.
Il vecchio Mike, infatti, è tutt’altro che granitico nei suoi intendimenti. Al contrario, sarà lui ad attraversare la trasformazione più profonda, obbligato prima a vestirsi come un messicano per non dare troppo nell’occhio e poi, poco a poco, disposto a lasciarsi cambiare e sedurre da un diverso modo di stare al mondo. Giungendo a una conclusione inattesa che, a proposito di riferimenti alle sue opere precedenti, ha qualche parentela col finale di Million Dollar Baby, in cui l’eroe ha capito e accettato che il suo posto è diverso da quello che aveva sempre immaginato. Naturamente, volendo, ci si può concentrare sulle varie implausibilità di Cry Macho. La verità è che Clint Eastwood si è da tempo guadagnato il diritto di fare ciò che vuole.