Il leghista Pillon, quello della sacra famiglia, è scandalizzato: ha visto il ragazzo Damiano, quello dei Maneskin, che Orietta Berti chiamava “Naziskin”, vestito da baldracca a uno di quei premi che si fanno per incrementare il business, e ne ha dedotto che la fine dei tempi è prossima. “Avete visto, finirà che gli uomini metteranno il reggiseno, dove andremo a finire”. Non lo sfiora che il look è l’ultimo dei problemi nel caso Maneskin (sul quale il cronista s’impone silenzio, perché davvero c’è un limite). Pillon ha meno di 50 anni e ignora totalmente la parabola del glam rock, volendo anche quella del post punk, l’iconografia, l’arte che da sempre s’intreccia con la musica popolare, in senso lato: una storia culturale che certo è anche funzione del mercato, ma che solo in Italia si considera minore ed è, viceversa, di tutto rispetto, appassionante, capace di deviare gusti e tendenze di generazioni. Vagli un po’ a parlare di Bolan, di Bowie, del nostro Zero, di mille altri. Il costume del ragazzo Damiano ricalcava, per una volta, non quello dei Cugini di Campagna ma il Frank’n Furter del Rocky Horror Picture Show, ma che ne sa Pillon del Rocky Horror, del suo impatto sull’immaginario, dei suoi presupposti e delle sue conseguenze?
Il livello culturale dei nostri politici alla vaccinara sulla musica è peggio che imbarazzante, è miserabile. Archiviata la stagione cantautorale che dettava legge lungo tutti gli anni Settanta, loro sono rimasti là, anche se all’epoca avevano da zero a cinque anni; quando vogliono darsi un tono, citano invariabilmente i soliti De Andrè, De Gregori, qualcuno anche Vasco Rossi, ma lo fanno per una miserabile captatio benevolentiae. Tutto il resto, per questi, non esiste, non è mai successo. Salvini, che dei leghisti è il leader, si vanta di preferire Iva Zanicchi e Peppino di Capri ai trapper, bella forza, ma così, senza l’ombra di una consapevolezza, di una contestualizzazione. Però è lo stesso che, davanti alla provocazione di Fedez, che si inventerebbe la qualunque per vendere il nuovo disco dopo il flop del precedente, fingeva di voler fare un partito: lo ha invitato a “ragionare dell’Italia”. A Fedez. Il quale, per risposta, gli manda a dire che è un maiale. I nostri politicanti non sono rock e non sono neanche lenti: sono culturalmente spenti, morti, salvo andare a rimorchio di ogni piccola o grande truffa elaborata dal mainstream. Adesso tutti a ripetere stancamente “zitti e buoni”, ad esultare su Twitter: “I Maneskin hanno vinto ancora, viva l’Italia che vince”. Manco fosse la Nazionale dei calciatori. A questa gente, che pensa ad una e una sola cosa, durare, blindarsi, gli artisti, in particolare della musica, importano solo in un’ottica: quella del consenso, della candidatura di facciata, sono bulimici di potere, anemici di curiosità: autentiche bestie.
Ma come si fa a polemizzarci? Come si fa a rispondere a Pillon che la musica rock dei lustrini e degli zatteroni è un momento di una storia infinita che parte dal blues primordiale, passa al jazz, arriva al rock and roll (“Il blues e il jazz hanno avuto un figlio e l’hanno chiamato rock”: chi l’ha detto?), matura nell’ondata britannica, devia nel folk americano e poi europeo, si dilata nel rock da stadio, nel progressive, nel metal e l’hard rock, si avventura nel reggae e nel primo rap, si disperde nel glam, esplode in schegge punk, si rielabora nella foresta dei suoi “post”, nella new wave, nel pop romantic del ritorno inglese, nella musica visiva figlia di MTV, nei suoi infiniti corsi e ricorsi storici, fino al rap del ghetto, quindi commerciale, alla trap, e siamo già a un nuovo inizio, al recupero del cantautorato? E ogni fase, ogni derivazione ha le sue divise, il suo stile che diventa manifesto e insieme conformismo, distinzione e recinto. Come si fa a ragionare con i politici tabula rasa sul citazionismo forsennato dei vari Achille Lauro e Maneskin (sui quali ultimi ha scritto un articolo illuminante Edoardo Frasso sul sito-giornale “Ondarock”)?
Tutto discende dal blues, dal canto straziato degli schiavi, e il blues discende dal tamburo della foresta, il primo suono organizzato, denso di significati e di messaggi che l’uomo seppe immaginare. La musica è storia umana e la musica rock è la storia dell’uomo industrializzato, del Ventesimo Secolo, delle sue conquiste e tragedie, delle sue alienazioni, delle sue automobili e consumi e ribellioni e trasgressioni e menzogne e insomma dell’umanità, della sua pianta storta sempre in bilico tra perdizione e redenzione. È rabbia e poesia di strada, è critica sociale e pungolo: ha fatto più Frank Zappa in 60 dischi che 60 milioni di saggi politologici. Per non parlare dello sport: la vicenda epocale, irripetibile di Muhammad Ali, il pugile capace di cambiare le regole non solo della boxe quanto della società americana e, di riflesso, internazionale, è impensabile senza le sue implicazioni musicali; a Kinshasa, Zaire, nel 1974 quando Ali abbatte l’invincibile Foreman, quel lestofante di Don King s’inventa un festival di musica nera e ci vanno B.B. King, James Brown, Miriam Makeba e gli Spinners, i Fania All Stars… E quando Ali perde il primo incontro con Frazier, l’8 marzo 1971 al Madison Square Garden, la prima a entrare sconvolta nel suo spogliatoio è Diana Ross, che lo accudisce come una infermiera, gli tiene la testa tra le mani mentre piange disperata. Storie meravigliose e tragiche come la disperata fame di vita che divora se stessa.
Per questo la musica rock, colonna sonora del “secolo breve”, è meravigliosa e imprescindibile: non un dettaglio, non un trastullo per chi non ha di meglio da fare. Quella, se mai, è la politica e spiace doverlo dire, ma quando i partiti prendono sul serio, e temono, un Fedez che possa insidiarli, siamo a questo punto. Per questo sarebbe doveroso sospettarla, masticarla almeno per sommi capi, la musica popolare. Ma ai nostri tristerrimi politici polverosi, tutta apparenza e niente consistenza, niente che non sia il loro microcosmo alienante asfissiante interessa, niente altro li riguarda e sì che nascono nella patria del melodramma. Si fa un gran parlare inutile di democrazia, di requisiti minimi per diventare rappresentanti del popolo, ma nessuno azzarda mai una proposta semplice: un test di conoscenza musicale di base, se non lo passi non sei eleggibile per mancanza di credibilità.