Non ho affatto memoria. Men che meno sono un fisionomista. Posso incontrare qualcuno che conosco da anni e faticare a riconoscerlo, da sempre, da ben prima che arrivassero la mascherine a complicarci la vita. O meglio, a volte le mascherine mi hanno salvato da immense figure di merda, proprio perché posso sempre dire che non ti ho riconosciuto per la mascherina, nonostante io e te si sia giocato a calcio insieme per anni e anni, una volta la settimana.
È successo, credo abbia funzionato. Mi spiace, amico, non è colpa mia.
Non sono fisionomista, e credo che il non esserlo sia colpa di mio padre, oltre che del fatto che per lavoro mi capita di conoscere un sacco di persone. Mio padre, Learco, infatti, a sua volta non è affatto fisionomista, riguardo la memoria non saprei dire.
Quando ero piccolo, non ho memoria ma alcune cose me le ricordo bene, era capace di parlare anche per un quarto d’ora con qualcuno che palesemente non aveva riconosciuto, rimanendo lì, sul vago, in un crinale pericoloso, pieno di strapiombi e burroni, ma saldo come un eroe greco, a dimenarsi su discorsi di circostanza, senza mai entrare troppo in uno specifico che avrebbe sancito il suo dover dichiarare la resa. Erano tempi, per altro, quelli, in cui tra adulti ci si dava spesso del lei, fatto che complicava ulteriormente il suo muoversi tra gente di cui non riconosceva il volto. Perché se non riconosci qualcuno non sai se ci sei o meno in confidenza, quindi se devi usare il tu o il lei, dovendo quindi imbastire un discorso degno di chi, oggi, vuole essere inclusivo senza usare la schwa, un neutro talmente vago da essere credibile. Già a partire dal saluto, all’epoca, capivo che eravamo di fronte a qualcuno che mio padre non aveva riconosciuto, in quel “Uellà” o in quel “Salve” che gli avrebbe poi dato modo di rimanere in terra di nessuno, roba da maestro di comunicazione, campione assoluto del salto a ostacoli tra sconosciuti o presunti tali.
Credo di aver ripreso questa sua capacità di rimanere sul vago, e di averne un qualche modo fatto tesoro, al punto da aver sviluppato una mia versione del suo “Uellà”, a volte lo uso anche io, aggiungendoci l’immancabile “Beppe”, citazione di Lupo Alberto che immagino quasi nessuno coglie, mia versione del suo Uellà che mi spinge, a volte, neanche troppo raramente, a portare avanti discorsi con gente che si prende confidenze ai miei occhi inspiegabili, senza riuscire a capire chi siano anche dopo averci parlato anche approfonditamente. Nel senso che, non riconoscendo i miei interlocutori, che non solo mi riconoscono, ma palesano un grado di conoscenza verso di me molto alta, al punto da non dirmi “ti ricordi di me?”, mi capita che questi comincino a parlare di progetti e situazioni specifiche così, a secco, lasciandomi in balia del mio destreggiarmi nell’arte retorica.
Arrivare a fine chiacchierata, a volte anche dopo un’ora, senza aver capito chi fosse di fronte a me tradisce da una parte il mio essere un fine oratore, dall’altra il mio essere un pazzo furioso, che preferisce tenere una posizione orgogliosa più che dichiarare subito la propria mancanza di memoria. Credo sia una pazzia giustificata dall’imbarazzo, siccome mi vergogno di questa mia mancanza ci metto una pezza muovendomi a zig zag, come a voler schivare i colpi di un cecchino. Fino a qualche tempo fa la faccenda aveva anche una sua assai più scomoda versione telefonica. Arrivava la telefonata da parte di qualcuno il cui numero non avevo in rubrica ma che palesava un grado di confidenza altissimo, al punto da non dirmi chi fosse. Anzi, un tale grado di confidenza da consentirgli di partire subito con un discorso evidentemente lasciato a metà, non fosse che io non ne conservavo alcuna traccia visibile. Parlare con qualcuno che non conosci, o che non hai riconosciuto, di qualcosa di cui non hai memoria, o che non hai identificato, converrete, è piuttosto complesso, ma ce l’ho sempre fatta. Finché non ho deciso di non rispondere più a numeri di telefono che non ho in rubrica, perché spesso sono rotture di palle, finendo per perdere queste occasioni di esercizio di retorica.
Chissà quanti lavori ho perso così, mi domando spesso.
Grazie ai social, o per colpa dei social, a seconda di come la vediate, la situazione è cambiata, in parte. Se infatti da una parte c’è tanta gente con cui siamo in contatto di cui, nei fatti, nulla sappiamo, gente che ci chiede l’amicizia magari perché segue il nostro lavoro, parlo per me, usando un plurale del tutto inspiegabile, gente che se poi ci incontra pretende che noi la riconosciamo, o quanto meno se lo aspetta, dall’altra la scusa che i social abbiano allargato così tanto il campo delle nostre conoscenze ci agevola nel palesare la nostra scarsa capacità di riconoscere qualcuno, e torno a parlare al singolare perché a continuare con questo noi mi sento davvero un pirla. Certo, i social ci sono d’aiuto nel saltare preamboli quando dobbiamo sentire qualcuno per lavoro, qualcuno che sentiamo di rado e di cui, in buona sostanza, non ci interessa altro che quel che ci facciamo per lavoro: non siamo tenuti a chiedere come va a casa, come sono andate le vacanze, cosa fa il figlio, i social sono lì già per farcelo sapere, poco importa che non li useremmo per sapere i cazzi suoi neanche se ci puntassero una pistola alla tempia. Ma nei fatti è davvero tutto complicato. Chi come me ha poca memoria e non è affatto fisionomista deve davvero barcamenarsi tra una supercazzola e un Uellà, esattamente come faceva mio padre negli anni Settanta (e fa tutt’ora, immagino, anche se ora ha la scusa dell’età).
Giorni fa ero in giro per il mio quartiere. Abito in una zona residenziale, che è però vicina all’Università, quindi capita di incontrare di tutto, da anziani con il carrello per la spesa a studenti con plastici o risme di fogli A4 sotto braccio. Non ricordo dove stavo andando, ovviamente, figuriamoci se immagazzino certi dettagli irrilevanti. A un certo punto, però, mi è capitato di incontrare una ragazza, tra i venti e venticinque, potrei essere più preciso ma è irrilevante, che ben conosco. O che ben credevo di conoscere. Nel senso, la conosco, so come si chiama, conosco la sua famiglia, la sua gemella, anche lei è gemella, come due dei mie quattro figli, e la conosco perché è stata l’animatrice del gruppo di catechismo frequentato appunto da uno dei miei quattro figli, quello mediano, oggi sedicenne. Di quel gruppo, ma non è questo il tema che voglio affrontare, quindi butterò lì la cosa e, nonostante immagino potrebbe darmi agio di approfondire non lo farò, io ero il catechista, unico catechista uomo in un gruppo di catechista donne, unico con un aspetto giovanile, i capelli lunghi e il chiodo, unico a non essere facilmente inquadrabile nei canini del catechista, e non sto certo parlando di quel che scrivo, anche se, pure lì.
Lei, Aurora il suo nome, era una delle animatrici, io, Michele, il catechista, Tommaso, mio figlio, uno degli alunni. Quando avevo cominciato quell’incarico, durato quattro anni, tutti gli animatori si erano scontrati tra loro, perché tutti, ma proprio tutti tutti, volevano stare nel mio gruppo. Immagino per la faccenda della novità, o perché, presumibilmente, davo l’impressione di essere uno nel cui gruppo ci si sarebbe comunque divertiti.
Aurora ci era in effetti finita, anche se poi, a un certo punto, aveva mollato causa motivi di studio. Avevo comunque continuato a incontrarla, in chiesa o nel quartiere, e so che aver di nuovo citato la chiesa avrà ulteriormente indotto alcuni a una sorta di stupore morriconiano (riferimento chiaro, spero, all’intro di Se telefonando), ma ripeto, oggi parlo d’altro, poi da un po’ di tempo l’avevo persa di vista, sapendo da sua madre le notizie relative al suo iter universitario, e dai social altre amenità.
Vederla, lì in strada, con una amica, intenta a chiacchierare, mi ha fatto piacere, come può farci piacere incontrare qualcuno che si conosce sommariamente ma che comunque ha condiviso con noi una qualche esperienza piacevole. Il tempo di riconoscerla, eravamo tutti senza mascherina, in quanto in giro per strada, che lei ha alzato gli occhi da terra e ha riconosciuto me. Io ho sorriso, indeciso se fermarmi a farci quattro chiacchiere o meno, un uomo di mezza età che incontra una bella ragazza, mi sono istintivamente chiesto, la cosa potrebbe mai essere fraintesa, vedi tu a cosa ci ha portato la faccenda del #MeToo e la visione degli speciali di Dave Chappelle, parlo per me, ma lei ha reso questo mio interrogarmi del tutto vano.
Mi ha infatti guardato e mi ha salutato così: “Salve!”, inducendomi a proseguire diritto, dopo averle risposto con caloroso “Ciao, Aurora”.
Intendiamoci, non ho neanche per un istante pensato che quel salve fosse del tipo usato da me e mio padre, nel senso che dubito Aurora possa non avermi riconosciuto, diciamo che ho una immagine abbastanza forte, sono facilmente riconoscibile, almeno tra gli adulti. Quel che mi ha indotto a proseguire è stato piuttosto il fatto che quel “salve” nascondeva altro, cioè da una parte il suo essere passata dall’essere una ragazzina che dà del tu a tutti quelli coi quali intrattiene un qualche rapporto di conoscenza non relativa al mondo della scuola, vedi gli insegnanti, all’essere una giovane donna che capisce che a un uomo adulto bisogna dargli del lei, per deferenza, dall’altra il fatto che quella sua percezione vacillasse di fronte a uno cui in effetti ha dato del tu per un numero cospicuo di anni, come se di colpo l’identificarmi con un adulto fosse sconveniente. O più semplicemente come se di colpo il gap generazionale che evidentemente ci divide fosse diventato evidente anche ai suoi giovani occhi.
Ecco quindi un saluto neutro, un salve, usato, questo sì, esattamente alla stessa maniera di mio padre e quindi mia. L’incertezza che si fa certa, concreta, visibile, anzi, ascoltabile attraverso un “Salve”. Mi avesse detto “Uellà”, immagino, sarei scoppiato a ridere, perché le avrei dovuto pavlovianamente rispondere “Beppe!”, passandoci per un completo idiota.
La faccenda del dare del tu o del lei, specie in questi tempi di discussioni sulla neolettera schwa (il lei è uno strano pronome, chiaramente femminile ma usato per trattare con deferenza anche i maschi adulti), è apparentemente vintage, specie per chi, come me, lavora in un campo come quello dello spettacolo, da sempre oggetto di un grado di confidenza tra tutti anche eccessivo: tutti amici, tutti a pacche sulle spalle, tutti a darsi sempre e comunque del tu, anche tra sconosciuti. Ovvio che chiunque ti chieda, domande spesso retoriche fatte tanto per, se può darti del tu preveda che tu gli risponda di sì, del resto negare quella confidenza risulterebbe snob, se non addirittura maleducato. Non è del darsi o non darsi del tu che voglio parlare. Ma voglio partire dal concetto di dare o non dare del tu, o del lei, per affrontare un tema che con l’educazione, in senso lato, e il rispetto, in senso stretto, ha molto a che fare.
Giorni fa ho incontrato in un hotel di Milano, zona Cimitero Monumentale, i tre ragazzi de Il Volo. Li chiamo così, solo stavolta, i tre ragazzi de Il Volo, per sottolineare, da qui siamo partiti, come di ragazzi di età decisamente giovane si tratta, ventisei anni, come è venuto fuori durante la nostra chiacchierata, un’età che potrebbe tranquillamente farmeli essere figli, mia figlia grande ne ha venti, ma è arrivata che ero già oltre i trenta. Conosco Ginaluca, Ignazio e Piero da tre anni, quando sono venuti a trovarmi a Attico Monina, ma come chiunque si occupi di musica li seguo dal momento in cui sono venuti alla luce come gruppo, vero fenomeno musicale uscito da un talent, quello di Antonella Clerici, spesso ci dimentichiamo di loro quando si tratta di stilare le famose liste di chi ce l’ha fatta, forse perché, appunto, loro ce l’hanno fatta davvero e in un contesto in cui l’essere usciti da un talent non ha giocato nessuna carta a loro favore, il pubblico cui si sono rivolti adulto e spesso anche straniero. Pur avendo sin da subito inquadrato il loro progetto musicale, tutto è sempre stato molto chiaro, anche a che pubblico intendevano rivolgersi, il top la loro partecipazione al Sanremo contiano con Grande amore, una vittoria telefonata che in effetti è arrivata, pronta a spalancare loro una carriera ulteriormente mainstream, confesso che ho provato nei loro confronti una iniziale ostilità. Intendiamoci, nulla a che fare con la musica, parlo proprio di pelle. O meglio, parlo di preconcetti. Non capivo questi giovanissimi cantanti che si atteggiavano da uomini maturi, dai modi classici tanto quanto la musica che andavano a interpretare. Non capivo neanche il perché venissero indicati come eredi dei Tre Tenori, loro non tecnicamente tutti e tre in quel range, se non per aprir loro una qualche scia dietro la strada che i Tre Tenori avevano percorso, e la cosa, in realtà piuttosto naturale a guardarla sotto il profilo promozionale, mi infastidiva, rendendomeli respingenti. Ho sempre riconosciuto loro il talento che in effetti hanno, tecnico e interpretativo, ma sulle prime li ho un po’ perculati, come in effetti io stesso mi sarei aspettato da me. Conoscendoli però, e so quanto conoscere gli artisti sia spesso un errore per un critico musicale, come certi killer cui la vittima designata fa sapere il proprio nome, umanizzandosi ai suoi occhi, so che paragonandomi a un serial killer, ancora, finisco nel campo delle macchiette, ma checché ne dicesse David Foster Wallace, anche a postmodernismo archiviato continuo a guardare all’ironia con compiacenza, è una questione di imprinting, immagino, conoscendoli ho capito alcuni passaggi che, nel mio guardar loro con pregiudizio, mi erano sfuggiti, mea culpa. Innanzitutto il fatto che, Gianluca, Ignazio e Piero sono in effetti tre ragazzi, giovani, ma essendo stati proiettati nel mondo del lavoro giovanissimi, e proiettati in quel mondo direttamente a altissimi livelli, concerti in tutto il mondo, un ambito di adulti da frequentare, anche a livello di colleghi, su tutti viene spesso citata Barbra Streisand, mica a caso, essendo in pratica dovuti crescere presto è normale che abbiano mutuato da quel mondo un comportamento sociale, quel modo di muoversi e comportarsi da uomini maturi, che io consideravo una posa ma che nei fatti è un vero e proprio modo per stare al passo con il proprio ambiente e il proprio pubblico. Poi ho capito che l’essere giovani, seppur trattenuti dal dover tenere ritmi vorticosi, dall’essere sempre sotto stress e allenamento, li ha resi indubbiamente più adulti, ma non ha sortito una sorta di aborto riguardo la loro giovinezza, sentirli parlare con entusiasmo di quando hanno inciso in riva al mare The Ecstasy of gold nulla ha di quel che ci si potrebbe aspettare dai tre tipi in doppiopetto che siamo soliti riconoscere come i tre ragazzi de Il Volo. Perché, sì, il motivo per cui ho incontrato Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone nel roof di un hotel di lusso di Milano, zona Cimitero Monumentale, è la promozione del disco, fate usare anche a me un po’ di sano vintagismo, Il Volo sings Morricone, album tributo al massimo campione di musica da film, oltre che molto altro, Ennio Morricone che i tre giovani artisti hanno deciso di incidere dopo il fortunato live andato in onda su Canale 5. Un tributo, attenzione, nato da una comune passione per la musica del maestro recentemente scomparso, e chi non rientra tra gli appassionati da Morricone, verrebbe da chiedersi, ma che ha poi incontrato il plauso della famiglia Morricone stessa, con Andrea che ha collaborato al progetto andando a firmare per loro l’inedito I colori dell’amore, presentato in anteprima proprio durante il concerto evento tenuto all’Arena di Verona. Un lavoro che raccoglie, immagino che la cernita sarà stata difficile, vista la mole di grande musica composta da Morricone, il meglio del maestro, stando ai gusti dei tre giovani cantanti, da Se a Your Love, passando per Metti una sera a cena e E più ti penso, con un tocco di pop tutto italiano cristallizzato nella stupenda Se telefonando. Proprio quest’ultima incisione, dove le tre voci, a parere indiscutibile di chi scrive, danno prova di sapersi cimentare anche nei confronti di certo pop d’autore, potrebbe lasciare un qualche spunto per il prossimo lavoro dei nostri, non fosse, di questo abbiamo parlato nel roof dell’hotel di Milano dove ci siamo incontrati, che i prossimi due anni li vedranno in giro per il mondo, tra promozione internazionale e un tour che toccherà ogni sponda del globo. Già pensare che sia il pianeta il campo da gioco dei nostri, seppur con un pubblico specifico, adulto, appassionato di bel canto, tutto quel che si vuole, mette una certa impressione, io a ventisei anni passavo le giornate strimpellando una imitazione dalla Stratocastor e scrivendo quelli che di lì a poco sarebbero diventati i miei primi racconti pubblicati, figuriamoci se potevo pensare a una programmazione così su lunga gittata della mia vita. Giocavo anche a pallone, a ventisei anni, cosa che, incredibilmente anche i tre ragazzi fanno, chi ha seguito le gesta della Nazionale Cantanti ben lo sa, e il fatto che serissimi professionisti come loro, pronti a dare del tu a un critico musicale assai più vecchio di loro ma con un rispetto d’altri tempi, e al tempo stesso pronti a dare del lei alla musica, nel senso di trattarla con la accondiscendenza e estremo rispetto che la musica, specie quella di un maestro come Morricone o i classici della nostra tradizione che fanno parte del loro repertorio richiede, il tu presente solo in quanto a loro già molto familiare nonostante la giovane età, il fatto che questi tre giovani grandi professionisti si scalmanino come tutti i loro coetanei davanti a un pallone, lascia intendere quel che volevo dire prima, quando parlavo di maturità che non necessariamente uccide la giovinezza. Del resto, sottolineando come la scelta di cantare Morricone sia assolutamente azzeccata, come sarebbe potuta esserlo cantare Burt Bacharach, per dire, ma forse anche di più, e come spostare il proprio baricentro sempre più sul Bel Canto, in epoca come questa che vede l’etere satura di musica demmerda, tutta schiacciata nei suoni, autotune usato per necessità e non per scopi artistici, sia la mossa giusta, perché quando tutti si concentrano da una parte, assembrandosi, trovarsi i propri spazi per giocare attesta acume, non certo quel paraculismo che molti, un tempo me compreso, gli ha imputato.
Chiudo con un piccolissimo aneddoto, che credo serva a certificare una volta per tutte quel che ho voluto a mio modo raccontare, rispetto al crescere, all’invecchiare, al maturare, all’avere sempre e comunque la propria età anagrafica. Arrivo al roof del già anche troppe volte citato hotel di lusso di Milano, zona Cimitero Monumentale. Da quassù si ha una vista imponente sul cimitero stesso, bellissimo, e su alcune delle torri/grattacielo che negli ultimi anni hanno cominciato a ridisegnare lo skyline di Milano. Vedo Gianluca, Ignazio e Piero seduti all’aperto, di fronte a una mia collega che, come un po’ tutti quelli che animano il mio ambito lavorativo, non vedo da un paio di anni. Sono seduti su poltrone di pelle, seppur con sembianze di poltrone da giardino, a bordo di una improbabile piscina con ancora l’acqua, nonostante si sia a novembre e faccia decisamente peggio. Immagino, non frequento in genere questo tipo di alberghi, sia acqua riscaldata, vedi come ti fosse la provenienza sociale. A bordo piscina, non posso non notare, c’è una ragazza che si sta facendo fotografare. Indossa un bikini dalla forma strana, forse un trikini o qualcosa con un nome che non rientra nel mio bagaglio di conoscenze, un bikini composto dallo stesso quantitativo di stoffa con la quale si potrebbe fabbricare una marca da bollo da due euro, forse anche meno. La ragazza, posso asserire come testimone oculare, ha quelle che si potrebbero patriarcalmente definire come tutte le cose al posto giusto, Dio e Michela Murgia mi perdonino. La guardo con la coda dell’occhio, ben attento a non concentrarmi troppo su di lei finendo magari in piscina, come spesso capita di vedere nei reel di Instagram, che poi credo siano il corrispettivo della home di Tik Tok. Per farsi fotografare, in questo di originale credo ci sia poco, la ragazza assume pose provocanti, non che fossero poi così necessarie. Rivolgo lo sguardo verso i ragazzi de Il Volo, torno a chiamarli così perché sul fatto che siano ragazzi è incentrata questa chiosa di questo mio pezzo, e noto un dettaglio che non può che farmi sorridere. Sono tutti e tre fintamente rilassati, parlando con la mia collega, ma nei fatti hanno tutti lo sguardo rivolto proprio verso la piscina. L’intervista finisce e i tre vengono verso di me, salutandomi calorosamente. “Hai visto che accoglienza ti abbiamo preparato?”, mi dicono. Da quando ormai sei anni fa ho regalato al mondo i “pool guys” ho uno strano rapporto con le piscine, ma almeno stavolta confesso che mi sono messo a ridere con loro. Canteranno con la benedizione degli eredi Ennio Morricone in giro per il mondo, anche piuttosto bene, ma restano tre ragazzi, non ci sono dubbi a riguardo.