Lo Chiamavano Jeeg Robot è stato senza dubbio il film spartiacque degli anni Dieci, perché col suo successo ha reso evidente a tutti che il rilancio dei generi è l’elemento che connota il cinema italiano oggi. Un cinema i cui nuovi autori però, e questo è il fattore di discontinuità, attingono a un immaginario insieme locale e globalizzato, di un respiro grande che ci tira fuori dalle secche della commedia media obbligatoria o dei tormenti esistenziali borghesi dentro tinelli angusti.
Il respiro grande è quello che ha cercato il regista Gabriele Mainetti, sempre coadiuvato dallo sceneggiatore Nicola Guaglianone, per il suo secondo film lungamente atteso, Freaks Out, che ha conosciuto pure l’onore del concorso della Mostra del Cinema di Venezia. Lo ha sottolineato lui stesso in un post su facebook inequivocabile, in cui mescola l’ambizione della visione all’amore impenitente per il cinema: “Freaks Out è innamorato dei Cinema. Quando sei innamorato veramente non vedi nessun altro. Perché nei cinema tutto è più grande. Anzi gigante. L’immagine è gigante, il suono è gigante. L’emozione è gigante, perché moltiplicata dalla condivisione con gli altri. Perché questo è il Cinema: pensare in gigante”.
Non si può che provare ammirazione e simpatia per Gabriele Mainetti e la sua operazione prettamente cinematografica, che fa di tutto anche per sporcare la pulizia dell’immagine digitale, per toglierle quel tanto di perfezione asettica. E costruisce un nuovo catalogo di mostri, di diversi, in cui la vocazione del cinecomic prende una piega più evidentemente fantasy, tutti e due contenuti nella cornice di un altro genere fondativo, il film di guerra, in un momento fondativo della storia patria, il Secondo conflitto mondiale.
Freaks Out riparte da Roma città aperta, raccontando la storia intorno al 1943 di una modesta attrazione, il Circo Mezzapiotta in cui, sotto l’ala protettiva di un piccolo Barnum sentimentale, l’ebreo Israel (Giorgio Tirabassi), lavorano quattro prodigi: Fulvio (Claudio Santamaria), forza straordinaria e aspetto peloso da bestia, il nano calamita Mario (Giancarlo Martini), il ragazzo che controlla gli insetti Cencio (Pietro Castellitto), l’adolescente Matilde (Aurora Giovinazzo), che genera una corrente elettrica così potente da essere ingestibile. La loro esibizione viene bruscamente interrotta da un bombardamento che squarcia il tendone. La guerra irrompe nelle loro fantasie, obbligandoli a misurarsi con la grande storia, i rastrellamenti degli ebrei, la resistenza dei gruppi gappisti.
Soprattutto ci sono, onnipresenti, i veri mostri, i nazisti guidati da un prodigio con sei dita per mano, Franz (Franz Rogowski), pianista straordinario a capo di un circo lussuosissimo, drogato e visionario, che ha predetto la caduta e il suicidio di Hitler e perciò è ossessionato dall’idea di trovare i suoi “fantastici quattro”, gli esseri con superpoteri che potrebbero ribaltare il destino della guerra.
Su questo canovaccio, Freaks Out imbastisce un racconto ondivago e sussultorio, con una generosità che pecca per sovraorchestrazione, fatta di troppi suoni, continui e non sempre necessari movimenti di macchina, dell’affastellamento di tanti personaggi non esattamente a fuoco – tra i quali emerge progressivamente Matilde, in cui è più evidente il dilemma morale del grande potere con grandi responsabilità e della paura (metaforica) di possederlo e controllarlo.
Il film, che segue le peripezie dei quattro alla ricerca dello scomparso Israel, si concentra più sulle singole scene, talvolta smaglianti – che certificano bontà e qualità dell’impegno produttivo, dietro il quale c’è Lucky Red con Goon Films e Rai Cinema – che sull’equilibrio narrativo dell’insieme. Freaks Out manca l’appuntamento con la sua scommessa maggiore, l’integrazione tra vicenda individuale e Storia con la esse maiuscola, la quale rischia di restare, nonostante la cura della messinscena, più fondale che movente, coi suoi nazisti inevitabilmente pazzi e maniacali e i gappisti anch’essi deformi e grotteschi, guidati da un Max Mazzotta perfetto per la parte.
Non riesce qui, ma più per generosità e ampiezza di visione che per difetto, il gioco di prestigio di Jeeg Robot, in cui il borgataro Enzo sconfitto dalla vita che conquista un improvviso potere, il villain Luca Marinelli che canta le canzoni di Anna Oxa e sogna la prima serata a Canale 5, Ilenia Pastorelli traumatizzata e nascosta dentro i suoi sogni fumettistici, grazie all’ambientazione in una riconoscibile Roma di periferia diventavano versioni credibili della mostrificazione, dei sensi di inadeguatezza e fallimento che ci appartengono, un film insomma capace di dire qualcosa che riguarda l’identità italiana.
Non accade lo stesso con Freaks Out, in cui la collocazione temporale resta esteriore alla vicenda narrata, e nessun personaggio ha la stessa precisione di scrittura sociologica ed emotiva di Jeeg Robot. Per cui lo spettatore guarda abbagliato la potenza visionaria delle pagine che compongono il film, ma fatica, anche per lo sfilacciarsi picaresco della narrazione, a trovare un’adesione piena alla vicenda, in cui storia e fantastico si guardano senza amalgamarsi davvero. È incerto Freaks Out, ma comunque grandioso, facendo tesoro di una idea di cinema autentica, quella di Gabriele Mainetti, che non faticherà, superate le forche caudine dell’opera seconda, a trovare compiuta espressione al prossimo film.