Riabilitare a distanza di anni è uno dei peccati mortali di una magistratura incorreggibile. Ogni giorno uno, due, tre che escono completamente riabilitati da un processo, anche infamante, anche devastante. E passano come niente fosse, come cosa normale, fisiologica, incidenti di percorso che il Moloc può permettersi. Davvero? C’era l’altra sera da Porro il generale Mario Mori, accusato per vent’anni di farsela coi mafiosi e infine assolto insieme a due colleghi, due carabinieri dei Servizi. Mori, così sereno all’apparenza, così segnato dentro, si sentiva, si percepiva. Passano due giorni e si sa di un altro perseguitato, l’ambasciatore Giffoni, uscito pulito dopo un calvario che gli ha portato un ictus, un cancro, mille altri mali. Dell’Utri, il chiacchierato Dell’Utri, il braccio destro di Berlusconi, l’amico dello stalliere mafioso Vittorio Mangano, che la fama del mafioso non se la toglierà mai, ha avuto un tumore e due stent coronarici prima di venire riconosciuto estraneo all’accusa di essere a sua volta un boss. E poi Bruno Contrada, quello del Sisde: assolto dopo vent’anni ma dimostrava 100 anni di più, neanche un dente in bocca. Se si pensa che i persecutori di Enzo Tortora finirono tutti per fare carriera e ancora dopo trent’anni ringhiavano, ringhiano: ma che pretendete? Ma che volete da noi? Uno, Lucio di Persia, lo chiamavano “il Maradona del diritto”. E allora, ecco la storia del più famoso perseguitato d’Italia.
Enzo Tortora, stella del giornalismo e dell’intrattenimento fin dagli inizi della televisione, diventa di colpo un criminale mafioso per la giustizia e per l’opinione pubblica: il suo incubo si trasformerà in modo di dire, vittimismo peloso, “Sono come Tortora, il mio è un nuovo caso Tortora”. Non è quello che avrebbe voluto la vittima del “più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese”, come lo definì uno dei suoi rari sostenitori, Giorgio Bocca. Poche grandi firme – lo stesso Bocca, Biagi, Montanelli – proveranno a non perdere la testa di fronte ai furori di una opinione pubblica che invoca il “crucifige!”, col solo Partito radicale di Marco Pannella coinvolto in una durissima battaglia per opporsi alla marea montante di una magistratura i cui protagonisti, lungi dal pagare in alcun modo, faranno tutti clamorosi balzi in carriera fino a conquistare i massimi ermellini oppure nella pubblica amministrazione; dal canto loro, i pentiti menzogneri avranno sorte altrettanto benevola, uno addirittura insignito del “premio della libertà”. Si era scatenato il cafarnao, la stampa non va per il sottile, opinionisti come la radical chic Camilla Cederna dimostrano superficialità carognesca: “Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto”. E sono gli stessi che non credono per principio alla magistratura, che firmano appelli contro lo Stato e i suoi “commissari torturatori”. Tortora non è un simpatico, è uomo di giudizi trancianti e di poche amicizie, è il bersaglio ideale, in chiesa sua madre viene insultata. La logica sommaria del “qualcosa avrà fatto” condiziona anche qualche giudice legalitario e antimafia.
Il conduttore ha avvocati di prestigio, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora che nel difenderlo si identificano nel dramma del loro assistito: quando il presentatore viene riabilitato, cedono alla commozione, piangono come lui, insieme a lui. 1.768 giorni dura il calvario di Enzo Tortora, dal giorno dell’arresto (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’Hotel Plaza di Roma) alla fine della sua vita (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8. Gli italiani scopriranno che possono venire svegliati in qualsiasi momento da un battere alla porta in piena notte, come nei regimi di polizia e portati via, in un incubo senza fondo dove le spirali della vergogna e dell’impotenza sembrano non avere mai fine.
Alla vigilia, circola tra i cronisti di nera la voce di una retata imminente con tanto di nome forte, uno della televisione. Uno grosso, “Uno che sta nelle ultime lettere dell’alfabeto”. Quella giusta è la“T”. Rintracciano “mister T.”, lo avvertono: lui ironizza, ci ride sopra, riattacca e non ci pensa più. Lo andranno a prendere poche ore dopo, in una stanza d’albergo: fuori è tutto predisposto, giornalisti e fotografi sono stati avvertiti. Gli mettono le manette, ad effetto; ma ne fa di più la sua faccia stupefatta e disfatta mentre i giornalisti scattano sui polsi e dalla folla sale la schiuma dell’odio: “Pezzo di merda, figlio di puttana, ladro, pena di morte!”. Fioccano i “pentiti” che lo azzannano in un delirio di accuse folli: ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell’Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Titola il Messaggero: “Tortora ha confessato”. Quando, dove? Nessuno difende Tortora, specie a sinistra: è considerato un reazionario, un rompicoglioni moralista col suo Portobello strappalacrime e stracciapalle. Garantismo? Non perdiamo tempo, Tortora ha avuto quel che meritava.
E dire che tutto nasce da una meschinità infantile, come si racconta nel bel libro di Vittorio Pizzuto “Applausi e sputi”. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, spedisce alcuni centrini alla redazione di Portobello nella speranza di venderli. Non li vede mai e comincia a perseguitare il presentatore con letteracce scritte dal killer Pandico, perché lui è analfabeta. Un bel giorno Tortora si scoccia: “Se lei continua ad insistere – risponde – passerò la faccenda all’ufficio legale della Rai”. I centrini non si trovano, il detenuto riceve dalla Rai un assegno di 800mila lire più per pietà che per altro. Barbaro e Pandico si “sdebiteranno” raccontando ai giudici, per bocca del secondo, che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni che il presentatore si sarebbe intascato imbrogliando i compari. Sarebbe la prima prova d’accusa: i legali a difesa producono le lettere minatorie del galeotto, ma per i magistrati. “a scrivere è un altro Barbaro”, un omonimo. Altra prova considerata definitiva: si trova il nome di Tortora nell’agendina di Giuseppe Puca, detto “‘o Giappone”, sicario tra i preferiti di Cutolo. Ma l’agendina è della donna di Puca, il nome, scarabocchiato a mano è “Tortosa” non “Tortora”, e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, “Provate a chiamà, dottore…”. Cinque mesi ci mettono, i giudici, a “provare”.
Chi sono gli accusatori di Tortora? Il principale è il citato Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Cutolo, il capo della camorra: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a rilasciargli un certificato, ha tentato di annientare i parenti, padre, madre e fidanzata. “Schizoide e paranoico” per i medici, bocca della verità per i giudici. È il primo, il più meschino, quello che eccita e contagia altri degni compari. Dal 2012 torna libero. Si era pentito. Un altro è Pasquale Barra detto “o ‘animale”, serial killer delle galere, 67 omicidi in carriera tra cui lo squartamento di Francis Turatello al quale mangia pezzi di cuore: è rimasto recluso fino alla morte, nel febbraio del 2015, ma sotto regime privilegiato con uno speciale programma di tutela. Il più appariscente è Gianni Melluso detto “il bello” o “cha cha cha”, aspetto di cialtronesca ricercatezza, da cantante da crociera. Entra ed esce di galera, ultimamente per sfruttamento della prostituzione. Da accusatore di Tortora, in carcere viveva come un pascià, amava quando voleva la fidanzata, messa incinta e sposata con due giornalisti come testimoni e un completo di Valentino. Ammetterà Gianni cha cha cha, ma solo nel 2010, in una intervista all’Espresso: “Lui non c’entrava nulla, di nulla, di nulla, l’ho distrutto a malincuore dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l’unica via per salvarmi la pelle”. Un altro che lo accusa di spacciare davanti a tutti negli studi di Antenna 3 Lombardia è il pittore fallito Giuseppe Margutti, una vita di espedienti, frustrazioni e compagnie da sottobosco, una di quelle figure squallide che però possono anche distruggerti. Anche lui, a tempo largamente scaduto, ammetterà di essersi inventato tutto per mitomania finalizzata a raccogliere qualche soldo.
Tortora passa per sodale del boss dei boss Raffaele Cutolo, accusa che suscita ironia nello stesso supercriminale: nel carcere dell’Asinara, dove sconta l’ergastolo, “don Rafaé” incontra il presunto colpevole Tortora, nel frattempo diventato europarlamentare: il breve dialogo che ne consegue, è surreale: “Dunque, io sarei il suo luogotenente”. Poi porge la destra: “Sono onorato di stringere la mano a un innocente”. La cosa non turba i magistrati, che non si scomodano a disporre alcun controllo, verifica, riscontro bancario (cose che Tortora li invita espressamente a fare), appostamento, pedinamento, intercettazione (non sono ancora di moda), e, inchiodati alle versioni dei pentiti, tutte tra l’altro discordanti, costruiscono il loro castello accusatorio. I sostituti procuratori titolari delle indagini a Napoli sono Lucio Di Pietro, definito “il Maradona del diritto”, e Felice Di Persia. Ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello, le assoluzioni saranno 114 su 191).
Il processo di primo grado, sempre a Napoli, si apre nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l’arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985 con il conduttore condannato a 10 anni e 50 milioni di multa ma nel frattempo divenuto deputato radicale al Parlamento Europeo; il presidente Luigi Sansone scrive una omerica sentenza di 2 mila pagine in 6 tomi, uno dei quali appositamente su Tortora per il quale ribalta ogni logica di diritto: «L’imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui», quanto a dire l’inversione dell’onere della prova. Da parte sua, il pubblico ministero Diego Marmo definisce romanticamente Tortora «un uomo della notte, ben diverso da come appariva a Portobello»; poi insinua che Tortora sia stato votato dai camorristi. Ma ammette: “Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l’istruttoria”. Già eletto a Strasburgo per i Radicali, il conduttore si dimette da eurodeputato, rinuncia all’immunità e torna in Italia per farsi arrestare: nel frattempo ha maturato una consapevolezza nuova, l’impegno assiduo in favore dei compagni di prigionia: “Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito”. Passa ai domiciliari, ricorre in appello, non smette di combattere fino alla fine: “Io sono innocente.” dice ai giudici “Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. Gli credono, finalmente. Il 15 settembre 1986 la Corte d’Appello di Napoli sfascia mattone per mattone il castello accusatorio del primo grado, ma lui è già minato. Torna davanti agli italiani venerdì 20 febbraio 1987, con quelle pochissime, memorabili parole, “Dove eravamo rimasti?”. Ma non è più lui, la voce è incrinata, il volto segnato, le lacrime sempre in agguato: salgono dagli incubi che, la notte, lo scaricano ancora in cella. Lo hanno spezzato e poi spezzano il referendum del 1987, sorto sulle ceneri del “caso Tortora”, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l’80 per cento, arriva la legge Vassalli e lo disinnesca. Nel frattempo la Cassazione ha confermato l’assoluzione in appello, il 13 giugno 1987. L’ultima intervista, al programma “Il Testimone” di Giuliano Ferrara (che rimedia una querela da tre giudici), è atroce. Tortora, rantolando, rinfaccia al magistrato Alessandro Olivares la condotta processuale: “Lei mi disse allora: “Ma sììì, facciamo sei anni. Da dieci facciamone sei…’ E io le dissi: “Guardi che non siamo al mobilificio Aiazzone. Lei ha una mentalità da barcaiolo giuridico veramente ripugnante. Lei ha una mentalità da barcaiolo…”. Poi non riesce più a parlare, gli manca il fiato, stava già morendo. Le ceneri dell’ “estraneo, non innocente” riposano al cimitero Monumentale di Milano, dentro una colonna di marmo. Ogni tanto c’è chi lascia foglietti, immagini sacre, è capitato perfino qualcuno che chiedeva perdono. Sotto l’urna, che dietro il vetro sembra ricordare un uomo ridotto in cenere prima ancora di morire, una frase urla la sua muta disperazione: “Che non sia un’illusione”.
Questa storia allucinante non ha insegnato niente. Dal 1991 al 31 dicembre 2020 i cosiddetti errori giudiziari sono stati 29659: in media, poco più di 988 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 900 milioni di euro. I casi di ingiusta detenzione risultano essere 29.452 dal 1992 al 31 dicembre 2020: in media, 1015 innocenti in custodia cautelare ogni anno, per una spesa di circa 800 milioni. Nel solo 2020 i casi di ingiusta detenzione sono stati 750, per una spesa complessiva in indennizzi pari a 37 milioni di euro. Ma allegri, “il numero è in calo di 250 unità rispetto all’anno precedente”. A distanza di quasi 40 anni sono ancora in ballo gli stessi referendum che Tortora insieme ai Radicali disperatamente chiedeva, le medesime raccolte di firme, che finiranno allo stesso modo perché la magistratura è il potere più incontrollato e più potente nel Paese, ancora più della burocrazia, dei faccendieri coi quali si mescola, come hanno confermato le confessioni tardive del maneggione Palamara, radiato ma non a caso traslato in politica da dove può continuare la sua opera ricattatoria. Il sacrificio di Tortora, come degli altri, non ha insegnato niente. Ci si stupisce quando un innocente accusato, diffamato, eliminato si ammala e muore, prima dentro, poi del tutto. Invece è la cosa più naturale, più fisiologica del mondo. A volte, la stessa riabilitazione arriva troppo tardi. E allora ci si vuole arrendere, il corpo si rifiuta di vivere oltre: la mente, o meglio l’anima non può accettare quello che è accaduto. In un certo senso, si asseconda chi ci ha voluto eliminare. Non è tanto la galera, non sono i patimenti a scavare, è quel senso di giustizia negata, l’impotenza, il non essere creduti. È patire qualcosa che non si merita, per pura malvagità. È la vergogna cui non c’è rimedio. Sono le preghiere che rimbalzano nel buio. Si entra in una spirale, ossessiva, implacabile. Si va in pezzi, si perde il senso della propria dignità. Non ci si appartiene più: tutto quello che si è fatto, gli slanci, i sacrifici, i sorrisi, tutto il bene è offeso, è stuprato. È patetico. È cancellato. Così non ci si può rassegnare. Anche perché l’ombra del sospetto non si dirada mai completamente. E questo restare dubitati, questo sentirsi visti in quel modo opaco, è immedicabile. Resta lo choc e resta per sempre. Tu parli e parli, e protesti, e dimostri, e invochi, e inveisci, e giuri, e metti in fila i fatti, e smentisci, e ragioni, e ti umili, e t’incazzi, e nessuno ti crede e alla fine non parli più. Ti essicchi e pieghi la testa come un fiore morto. L’innocenza spegne. L’innocenza uccide.
La giustizia è asservita ed influenzata dall’opinione pubblica. L’opinione pubblica è il bambino capriccioso e petulante che la giustizia dovrebbe educare, da genitore saggio retto ed avveduto, quale dovrebbe essere.
Le leggi di natura sono così sovvertite, nel grande come nel piccolo.
La natura è paziente ma non perdona.
L’abisso di vuoto e di paura che si genera nell’anima di chi, avendo scelto la giustizia come scopo nella vita, non la onora, è solo l’inizio, di un abisso eterno.