Non c’è bisogno di dialoghi espliciti per capire immediatamente che in quel viaggio in camper della coppia di lunga data composta dallo scrittore Tucker (Stanley Tucci), appassionato di astronomia, e dal pianista Sam (Colin Firth) c’è una nota stonata, un’incrinatura, una sofferenza destinata a espandersi fino a esplodere e infrangersi in infiniti frammenti. Esattamente come la supernova richiamata dal titolo del film scritto e diretto da Harry Macqueen, che immerge i due protagonisti in un’Inghilterra autunnale, magnifica nei suoi quieti paesaggi naturali, talmente belli però da essere restituiti con uno sguardo che non riesce a nascondere lo struggimento e la malinconia, come si fosse consapevoli di star vedendola per l’ultima volta.
Dopo un po’ la verità viene a galla. Ed è quella della demenza che ha colpito Tucker, e quindi della scelta di Sam, legatissimo all’amore della sua vita, di congelare la sua esistenza di concertista per prendersi cura di lui. Tucker si domanda se sia giusto, se sia corretto chiedere al suo compagno di annullarsi completamente per accudirlo. E, pure, se sia opportuno attraversare fino in fondo questo dolore, che rischierebbe di travolgere non solo lui – il suo destino ormai è segnato – ma anche Sam.
Il quale a un certo punto in un dialogo che pretende franchezza dice a Tucker: “Non riguarda quello che è giusto, riguarda l’amore”, la forza dei sentimenti, di quel legame che, irrazionalmente, ci illudiamo possano avere la meglio sulla logica feroce dei fatti. Sam vuole autoconvincersi che la malattia non progredisca, Tucker, abituato all’(auto)controllo, non si fa illusioni e cerca dunque una soluzione che gli consenta, almeno, di gestire ciò che è in grado di gestire.
Non succede molto altro in Supernova, privo d’una narrazione stringente semplicemente perché al centro del racconto c’è un uomo che sa di dover affrontare la fine. Un uomo giunto all’ultimo capitolo, senza più una storia da narrare. Infatti quando Sam trova il quaderno in cui Tucker sta scrivendo il suo nuovo romanzo, vede che dopo le prime pagine fittamente riempite, le successive a poco a poco presentano una scrittura a mano sempre più incerta, fino a trasformarsi in scarabocchi illeggibili. Poi, inevitabilmente, la pagina bianca.
Supernova ha anche piccoli momenti ironici, siparietti ben scritti in cui Tucker, che s’ostina a viaggiare disegnando percorsi sulla mappa cartacea, si lamenta della voce artificiale del navigatore satellitare, che lui chiama Margaret Thatcher, e non è un complimento. Ma anche da quella piccola gag emerge il suo carattere, di chi non accetta di essere eterodiretto o trascinato dal destino, preferendo una uscita di scena scelta e dignitosa.
Naturalmente un film come Supernova, che in sé non presenta nulla di particolarmente nuovo – impossibile non notare le somiglianze con Ella & John di Paolo Virzì –, non potrebbe esistere senza i suoi due protagonisti. Stanley Tucci rifugge qualunque vittimismo, la sua recitazione non ha nulla di ricattatorio e si svolge completamente sottotraccia. Basta vedere il modo in cui, nell’indossare una maglietta, mostra quanto faticoso e penoso sia diventato per lui quel gesto apparentemente naturale, ma senza indulgere in nessun virtuosismo, semplicemente rallentando quanto necessario il compimento di ogni movimento. A fargli da controcanto Colin Firth, più emotivo e rabbioso. Nella differenza tra i due stili recitativi passa la diversa consapevolezza: totale in Tucker, ancora bisognosa di un’elaborazione del lutto in Sam, tentato dal continuare a indossare la maschera dei giorni felici. Ma per certe messinscene non c’è più tempo.