Il Silenzio Grande è passato a Venezia come evento speciale delle Giornate degli Autori, la rassegna autonoma promossa da Anac e 100autori che si svolge parallelamente alla 78esima Mostra del Cinema. È la terza regia di Alessandro Gassmann, che nel film si ritaglia solo un cameo, e segna il rinsaldarsi della collaborazione con lo scrittore partenopeo Maurizio De Giovanni, autore della serie dei romanzi dei Bastardi Di Pizzofalcone, da cui la serie tv omonima con Gassmann, e talvolta anche drammaturgo, come nel caso di questa pièce che l’attore e regista romano aveva già portato a teatro nel 2019.
Il racconto, con la sceneggiatura firmata dagli stessi Gassmann e De Giovanni con Andrea Ozza, ha un gusto elegante e un po’ rétro, di sapore intimista – l’ambientazione posta nei primi anni Sessanta – e cerca di ritagliarsi una sua dimensione abbastanza eterodossa rispetto al cinema italiano della commedia e dei generi consolidati.
Al centro de Il Silenzio Grande ci sono una famiglia, i Primic e una grande casa alto-borghese, entrambe decadute, con la storia dell’una che si specchia in quella dell’altra. Il capofamiglia Valerio (Massimiliano Gallo) è uno scrittore di grande fama, dal passato, a sentire i suoi figli, burrascoso e avventuroso, ma nel presente ormai ripiegato su sé stesso, asserragliato nel suo studio foderato da una libreria ordinata secondo un principio imperscrutabile, che lui definisce di “omogeneità emotiva”.
I libri, dice Primic, sono “l’arredamento della mente, i mobili che contengono i sentimenti, i cassetti delle emozioni”. E sono anche ciò cui ha religiosamente dedicato la sua vita, insieme di lettore e autore. Un autore aristocratico, che non s’è mai voluto abbassare alla volgarità delle riduzioni cinematografiche delle sue opere. Così, una volta affievolitasi la celebrità, che gli aveva consentito di acquistare quella prestigiosa magione con vista Capri di cui va orgogliosissimo, gli scricchiolii della crisi hanno cominciato a farsi sentire, sino al vero e proprio tracollo, che obbliga alla vendita.
Di questo però s’è accorta la moglie Rose (Margherita Buy) e con lei i due figli (Antonia Fotaras ed Emanuele Linfatti). Nel perimetro ovattato del pensatoio di Valerio Primic, invece, i rumori della vita quotidiana giungono come un’eco lontana. L’unica voce con cui si confronta è quella della vecchia domestica (Marina Confalone, con tempi d’attrice impagabili), adattatasi a lavorare senza stipendio, sempre impegnata a pulire quella stanza eternamente impolverata e a distribuire qualche perla di saggezza pratica all’artista tra le nuvole.
Il silenzio grande, dice lei, è quello che s’è prodotto un giorno dopo l’altro, come somma dei piccoli silenzi, delle piccole inadempienze di padre che Valerio ha accumulato negli anni, interessandosi solo alla religione della letteratura e anche alla religione di sé stesso, della sua vantata grandezza, di cui non resta più nulla. E in quel mutismo tombale è stata risucchiata la sua famiglia, con la moglie segretamente alcolizzata e i figli che non riescono a trovare una loro identità e un posto nel mondo, schiacciati da quel nome paterno tanto blasonato quanto, al fondo, fragile. Al quale pure cercano di confessare le loro apprensioni, blanditi più che veramente accolti e ascoltati.
Sarebbe fin troppo semplice sovrapporre Valerio Primic ai fantasmi paterni di Alessandro Gassmann, all’ombra sempre presente di Vittorio. Che costituisce sì un riferimento ideale del suo orizzonte, come lo era nella sua precedente regia, il più mosso e divertito Il Premio, in cui il padre era Proietti. Ma questa identificazione quasi meccanica non renderebbe giustizia allo sforzo che cerca di compiere qui l’autore. Il quale mira, insieme a Maurizio De Giovanni, al dramma borghese crepuscolare e disseccato, come è evidente anche da una fotografia ricercata (di Mike Stern Sterzynski), dilavata e autunnale. Pure la presenza dell’elemento fantastico segna la ricerca di soluzioni narrative più personali, sempre in linea con l’ispirazione decadente di partenza.
Quello che manca ne Il Silenzio Grande è però, in primo luogo, l’autonomia della versione cinematografica. Serrato tra le quattro mura della casa, scandito dalle entrate e dalle uscite dei personaggi e da dialoghi di sapore letterario, la vicenda mantiene un ritmo da teatro filmato cui non bastano una confezione visivamente accurata e gli accenti fantastici. La polvere su cui la domestica s’accanisce forsennatamente si deposita anche sul film, che ha l’aria sospesa e ingessata del racconto distante e poco coinvolgente per mancanza di connotati definiti. Sia temporali – la cornice rimanda sì ai primi anni Sessanta, ma solo per quanto riguarda arredi, abbigliamento, musiche, mentre lo spirito è quello di un’epoca sostanzialmente senza tempo – sia per quanto riguarda i personaggi, più funzioni narrative che autentici caratteri.
Così Il Silenzio Grande s’incaglia nelle sue ambizioni metaforiche, che vorrebbero alludere a una qualche più profonda verità riguardante la famiglia, la paternità, il dolore e anche la letteratura, e che però soffrono della genericità dell’assunto, dell’assenza di un appiglio a una vera storia. La sensazione è quella dell’accademismo, e inevitabilmente del passatismo. In cui, magari dopo averne apprezzato il garbato ordine formale e la sincerità di fondo, noi spettatori finiamo per trovarci tra le mani un’opera che si fatica a collocare in un orizzonte di realtà che ci appartenga, che riesca a dirci qualcosa su di noi e il nostro tempo.