Ten dei Pearl Jam è uno di quei dischi al quale tutti devono qualcosa. Non importa se non piace, se i PJ non sono per tutti né è rilevante il dibattito sull’accostamento tra la band e il grunge. Ten è uno degli anelli di congiunzione tra l’hard rock e il mainstream, tra il punk e il rock alternativo e tra la figaggine e il marcio.
Di Eddie Vedder non sono certo peculiari le vomitate sul pubblico né le dita medie alzate contro gli “sbivvi di mevda” al grido di “f**k the cops”: Eddie è la rockstar sorridente e gentile, un serpente che ti dorme accanto ma non ti prende le misure, la voce elaborata e viscerale che canta Jeremy per protestare contro la violenza, ma senza mandare a quel Paese il suo Paese. Ten dei Pearl Jam è il disco di debutto di 5 ragazzi che si corteggiavano da prima nei Mother Love Bone e nei Temple Of The Dog, un percorso che si incrociò con quello di Chris Cornell.
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Un concime determinante per il fiore che viene fuori in Ten. Un disco furente ma educato, perentorio se vogliamo. Le chitarre di Mike McReady e Stone Gossard si snodano in riff che attingono ora dagli anni ’80 e ora dai ’70, ma sono un grimaldello necessario per sbloccare la porta agli anni ’90.
Tante le sfortune del rock sulle quali bisogna fare pulizia, dai Mötley Crue a tutta la variante happy metal pompata dalle groupie: i Pearl Jam, con Ten, propongono la faccia un po’ meno inca**ata del rock che si ritocca con elementi di saggezza: Even Flow, Alive, Black, biglietti da visita che funzionano ancora oggi. Ten dei Pearl Jam è la faccia più diplomatica del grunge che insegna che si può odiare senza distruggere, si può amare senza ballate che fanno contenti solamente i produttori di accendini.