La Classe di Laurent Cantet vinse la Palma d’Oro al festival di Cannes del 2008, primo film francese a riuscirci 21 anni dopo Sotto Il Sole Di Satana di Maurice Pialat, in una edizione ben impressa anche nella memoria del nostro cinema, per il doppio riconoscimento, Gran Prix speciale della Giuria a Gomorra e Premio della Giuria a Il Divo, che incoronò sulla scena internazionale i due più importanti autori italiani emersi negli anni Duemila, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino.
Il film di Cantet, scritto insieme al fido Robin Campillo (anche regista di suo, soprattutto il notevole 120 Battiti Al Minuto), tradisce le origini di documentarista del suo autore, per la capacità, partendo dal racconto omonimo autobiografico di un professore di scuola, François Bégaudeau, anche protagonista della pellicola oltre che cosceneggiatore, di ripercorrere un anno di insegnamento in una scuola media nella periferia del ventesimo arrondissement di Parigi.
La Classe non è la semplice trasposizione di un libro, ne costituisce una reinvenzione che, senza venir meno allo statuto finzionale della narrazione, lo riequilibra con uno stile libero che prende dalla realtà e dalla scelta di aprirsi all’improvvisazione dei protagonisti – tutti veri studenti che hanno messo a punto i personaggi insieme agli autori in un lungo lavoro laboratoriale – la capacità di raccontare qualcosa che, oltre ad appassionare, suoni anche vero, raccolto come fosse in presa diretta, grazie anche all’uso contemporaneo di tre macchine da presa che ha lasciato molta libertà d’azione agli attori.
Attraverso un montaggio serrato e senza pause assistiamo allo scorrere di un intero anno scolastico in una scuola media, con adolescenti di 13/14 anni sempre ripresi, come recita il titolo originale de La Classe, Entre Les Murs, tra le pareti dell’istituto. Una condizione che regala all’insieme tanto una sensazione di urgenza dettata dalla compressione fisica, quanto una forte impressione di autenticità, in cui il carattere dei personaggi emerge unicamente dalle loro parole e azioni contestualizzate nello spazio condiviso, senza sentire il bisogno di una cornice sociologica che precisi pedissequamente provenienza ed estrazione di ognuno di essi. Anche perché tutti questi elementi affiorano automaticamente, scritti sui volti, nel modo di comportarsi reagire ribellarsi dei ragazzi.
La Classe è un affresco corale, che bilancia le sequenze in aula con quelle relative al microcosmo degli insegnanti, ritratti alla ricerca del delicato equilibrio tra bisogno della disciplina minima necessaria a svolgere il proprio lavoro, il compito didattico della trasmissione del sapere, la ricerca di uno stile comunicativo che li metta realmente in contatto con gli studenti. Il risultato – di una naturalezza apparentemente semplice e invece frutto di un’alchimia complessa – è la fotografia non solo di una classe, ma di un modello sociale, di un paese visto attraverso quel fondamentale punto di osservazione rappresentato dall’istituzione scolastica, luogo di costruzione, nonostante tutto e tra mille difficoltà, dell’identità nazionale.
Non c’è demagogia né ideologia ne La Classe. E non ci sono buoni e cattivi, professori missionari col sacro fuoco dell’insegnamento e studenti violenti e irricuperabili. Ci sono invece insegnanti come il François di Bégaudeau, che cercano modalità di costruzione della relazione con gli allievi, alla ricerca di quella giusta distanza che salvaguardi l’asimmetria che deve sussistere tra l’autorità dell’insegnante e la posizione di discente degli alunni, senza che però l’autorità scada in autoritarismo, smarrendo in partenza la possibilità di fare didattica. Dall’altro lato ci sono ragazzi come Nassim, Laura, Cherif, Souleymane, che non incarnano alcuno stereotipo di studente bullo e criminale. Non è l’esempio lampante, la patologia conclamata che vuole raccontare La Classe, ma una quotidianità ordinariamente complessa, la cui manutenzione è il faticoso obiettivo della scuola in un paese composito come la Francia di oggi.
E sebbene proprio in rapporto a Souleymane (Franck Keïta), originario del Mali e figlio di una madre che nemmeno parla francese, scoppi un caso disciplinare che coinvolge anche François, il quale in un momento di frustrazione s’è rivolto a due studentesse impiegando un termine improprio, “sgallettate” (in francese pétasses), La Classe non è alla ricerca del caso emblematico, dell’impennata melodrammatica, del finale altisonante e, nel bene o nel male, risolutivo. Non c’è una soluzione definitiva, non c’è una via d’uscita. C’è invece il lavorio incessante giorno dopo giorno, anno dopo anno, attraverso quella parola che è l’unico vero strumento che insegnanti e studenti posseggono per trovare un punto di raccordo reciproco.
Come ha scritto Gianni Canova, La Classe “è un film sulle parole. Sul loro senso. Sul modo in cui si incatenano le une alle altre. Su come riescono a far sentire le persone più vicine o più lontane. Sul significato che riescono o non riescono a esprimere”. Il tentativo di François di insegnare il congiuntivo imperfetto in un mondo in cui nessuno più utilizza certe forme ricercate, può sembrare una perdita di tempo. Eppure continua a costituire, per ragioni che forse nemmeno François conosce esattamente – infatti ai ragazzi parla dell’importanza dell’intuito nell’apprendimento – un passaggio determinante per superare quel fossato che lo separa dagli studenti. I quali allo stesso modo possono spiegare a lui, nella essenziale dialettica su cui si fonda il rapporto professore-allievo, che esistono parole le quali hanno acquisito nella realtà di oggi un significato diverso da quello inteso dal docente, proprio come “sgallettate”.
La scuola è anche il luogo dei piccoli miracoli. Ad esempio il compito dell’autoritratto che Souleymane, con bella intuizione, non svolge scrivendo il solito breve testo, ma costruendo un collage fotografico con didascalie che dice tantissimo di sé. Ed è il bisogno di manifestarsi, l’urgenza di raccontarsi come individui autonomi e originali che prorompe in ogni momento del film. Così la banale richiesta di François rivolta ai ragazzi di scrivere il proprio nome su un foglio, semplicemente per permettergli di impararli, diventa per loro l’occasione per elaborare complicati disegni in cui il loro nome diventa un marchio, un sigillo, un arabesco coloratissimo e cangiante come la loro multiforme personalità.