Vedi quant’è puttana la vita. La band di rock and roll più eccessiva, scatenata e dissoluta di sempre e se la porta via il più regolato, il più schivo, l’unico che in un party con le conigliette di Playboy se ne restava tutto il tempo in sala giochi. Charlie Watts era così. Sposato da 57 anni con la stessa donna mentre intorno a lui era un vorticare di femmes fatale consumate dagli altri. Impeccabile nei suoi completi di Savile Row quando tutti sfoggiavano gli addobbi più improbabili. E proprio a lui è toccato archiviare la storia infinita dei Rolling Stones. Perché a questo punto niente è più possibile se non piangere e rimpiangere.
Refrattario a mostrarsi, mai una frase di troppo in mezzo a un torrente di dichiarazioni, provocazioni, uscite a effetto. Charlie era così e tutti lo rispettavano. Umile ma secco, concreto come il suo modo di suonare la batteria: mai un battito fuori posto, mai un palpito sprecato. Sempre al servizio del gruppo, mai di se stesso. Niente virtuosismi, il punto non è mai stato far vedere d’esser bravo ma dimostrarlo nell’ombra. Conta quel che non si avverte, la nota giusta, il colpo giusto acquattato nel silenzio di una pausa. L’essenzialità che regolava quel pulsare convulso del gruppo. Umile, non dimesso, non servile. Con niente e con nessuno. “Conosco un milione di batteristi migliori di me”, ma il suo modo di swingare era insostituibile e Mick, Keith, Bill, Ronnie, tutti lo sapevano: niente Rolling Stones senza Charlie.
Vedi quanto è puttana la morte. Che prende lui per primo, lui così sobrio, ce lo nega con ancora un sacco di cose da fare. E invece stavolta è proprio finita, il tour in partenza sarà un’altra cosa di un’altra band, non il canto del cigno ma un canto funebre da evitare. Il disco nuovo che aspetta da sedici anni chissà come uscirà, con quali pezze, con quali fantasmi di Charlie dentro. “Noi non finiremo come tutti gli altri” ha detto una volta Keith e non si sbagliava, gli Stones non finiscono, sopravvivono a loro stessi, diventano postumi. Senza Watts, uno dei fondatori, non è più proponibile niente. Niente davvero.
Aveva cominciato con Brian, Mick e Keith nel ’62, cedendo a una lunga corte: gli altri lo sapevano che lui era quello giusto, e Charlie, una volta accettato non ha mai deluso. La sua solidità era la sicurezza, il paracadute anche mentale per tutti e non è proprio facile tenere insieme il tempo quando due chitarristi si fondono lavorando sugli anticipi, sui ritardi impercettibili, minuscole poliritmie dentro un ritmo implacabile. Granitico ma versatile, andate a sentire come ha saputo interpretare il reggae quando per quasi tutti era ancora una suggestione misteriosa. Ogni volta, alla fine di un tour, Charlie lasciava la band per non ritornare mai più. Fino alla prossima avventura. Lui, cresciuto nel respiro del jazz, antirockstar per eccellenza, ha tenuto insieme la rockband per antonomasia. Lui è il responsabile di 60 anni di epopea irripetibile, la storia più grande e più longeva nella musica popolare che da tempo popolare non era più, era un affare immane, con investimenti, intraprese, realizzazioni fuori misura. Mai niente, mai nessuno come i Rolling Stones per misura dei palchi, giro d’affari, impatto mediatico, privilegi da sovrani. In quel gran vorticare, Charlie restava imperturbabile ed equilibrato mentre tutti perdevano la testa. Ha attraversato epoche che hanno sconvolto il mondo con assoluta naturalezza. E sempre legato a quello che era: del suo primo ed unico lavoro, come grafico pubblicitario, si era portato appresso il vezzo di disegnare tutte le stanze d’albergo in cui aveva dormito in sei decadi di concerti. Un modo squisito e discreto di frequentare la nostalgia.
Nessuno l’ha mai sentito vantarsi, ma neppure regalava complimenti; le rare volte che si esprimeva, le parole erano pietre. Nel ’75 Ronnie Wood entra a sostituire Mick Taylor, sfibrato dopo soli 5 anni con quei pazzi. E Ron, che è ancora in prova e lo sa, fa il disinvolto, “Ho qui una canzone che vi piacerà un casino”. “Cazzo, ma guardatelo: manco è entrato che già detta legge”. Charlie ha detto la sua, con caustica dolcezza: è il segno che la candidatura è passata, Ronnie sarà il nuovo stone.
Gli chiedono a metà anni Ottanta: come giudichi questi 25 anni nei Rolling Stones? Lui, senza fare una piega: “5 anni di lavoro, 20 di cazzate”. È il periodo in cui ha l’unica sbandata della sua vita. Con l’eroina, ma è come sempre un affare privato, che va risolto senza chiasso: si saprà solo anni dopo, quando tutto è lontano. Anche quando, nel 2004, si scopre un cancro alla gola, l’unica cosa che ritiene opportuno comunicare è: “Non guardatemi come fossi già morto”. Guarisce e sopravverà altri 17 anni.
Ne aveva appena compiuti 80 quando si è saputo che, inaudito, avrebbe dovuto disertare un tour. “Per una volta sono andato un po’ fuori tempo”. Invece di tempo non ce n’era più, il cuore, già a malpartito, s’è schiantato due settimane dopo. Schivo ha vissuto, ha suonato, ha diretto la rockband più famosa di tutti i tempi, schivo se n’è andato. Non sopportava il suo ambiente, lo show business, l’umanità: adorava i cavalli, se ne riforniva in Toscana, purosangue da 1 milione di euro. E adorava le auto d’epoca, lui che non aveva la patente. Impeccabile, imperturbabile, la faccia di pietra, ma simpatica. Scatti scomposti ricordati in vita: uno, la volta che, ad Amsterdam, si era sentito convocare da un Mick ubriaco “dove cazzo è il mio batterista?”, alle 5 di mattina. Ovviamente stava dormendo da ore mentre gli altri rientravano dai soliti bagordi. Allora s’è alzato, sbarbato, profumato, infilato un completo, lucidato le scarpe, è sceso alla suite dove stava Mick insieme a Keith, ha bussato educatamente e gli ha piazzato uno sganassone sul muso: l’altro per poco non finiva fuori dalla finestra, giù nel canale, l’ha riacchiappato Richards per una gamba “siccome portava la mia giacca con cui mi ero sposato”.
È difficile scrivere per uno che a 14 anni è rimasto folgorato, al juke-box di un bar malfamato, sulla via di Miss You e con gli Stones ci ha passato la vita, rovinandosela pure. È difficile farci i conti, si casca in meditazioni spaventose, per esempio chi l’avrebbe detto a quel ragazzino che una vita dopo si sarebbe ritrovato, una notte, a raccontare della morte di quel batterista così fenomenale senza apparirlo. E’ che ci lascia un buco nel tempo, la sensazione d’essere i depositari della gioventù, quella illusione d’eternità. Sì, d’accordo, era vecchio, ma che vuol dire? Qui si parla di loro, vale a dire di noi. Ed è un trauma perchè se anche Charlie Watts tace per sempre, se le sue bacchette restano lì incrociate, allora davvero non c’è più speranza e questo è già un mondo che fa schifo e di uno come lui avevamo bisogno nelle nostre giornate da buttare via, ci serviva quel ritmo regolare, come le stagioni, come gli sbagli, come tutta questa inutilità che ci attanaglia e a quel punto solo l’attacco di pietra di Get Off Of My Cloud ci può salvare.