Alla fine degli anni Ottanta Giorgio Bocca pubblicò un’inchiesta, “Aspra Calabria”, che fece molto discutere; intanto esordiva parlando del Vietnam, dove era stato da cronista di guerra, per dire che quella parte del profondo sud gli ricordava una terra perduta, sconvolta, affondata nei peggiori scenari immaginabili. La Calabria come il Vietnam? Ma come osa questo Bocca, ma come si permette di provocare? Non contento, dopo quell’attacco così violento, il grande giornalista di Cuneo staccava brutalmente: dalla sua stanza d’albergo vede l’Aspromonte, terra di prigionieri come il giovane Celadon tenuto alla catena come un maiale per due anni, o l’altro ragazzo, il Casella la cui “mamma coraggio” per poco non pregiudica una trattativa sommersa in cui nessuno è innocente, non i sequestratori, non le forze dell’ordine e nemmeno i paesani: può capitare che uno riesca a liberarsi e subito i ragazzi della montagna lo riacchiappano, lo riportano nel suo buco di pena e di paura: “Pagare deve, no che se ne scappa”. Bocca racconta di San Luca dai cartelli sforacchiati a raffiche di proiettili, come nel Far West di Tex Willer, delle cabine telefoniche in mezzo al deserto dell’Aspromonte che servono ai rapitori per chiedere i riscatti e nessuno li disturba.
Oggi il business dei sequestri non c’è più e la Calabria brucia. Dopo la Sardegna tocca a lei, in singolare consonanza con la Sicilia, terre di mafie. Dice la gente, di qua e di là dallo stretto: iih, ma quali piromani, questi, lo volete capire, sono segnali per Draghi: o sganci o non lasciamo sana una sola spiga, un solo acino d’uva. Draghi, si direbbe, ha recepito il messaggio, ha detto: i soldi sono pronti, non preoccupatevi calabresi, siciliani. Un modo infallibile per far capire chi è che comanda, oggi come ai tempi dell’Aspra Calabria di Bocca come a quelli di Garibaldi. Un modo, anche, per ribadire un potere malato, posto che dove lo Stato non funziona non può che funzionare l’antistato. Un modo, in altre parole, per lasciare tutto come sta, per ammettere la cosa che non conviene dire anche perché non ce n’è bisogno: che la situazione è irreversibile, incurabile e bisogna rassegnarsi e tamponarla coi sussidi, coi redditi di cittadinanza che poi vanno ai malavitosi, smistati dalla criminalità organizzata.
Ardi, Calabria: ettari ed ettari inceneriti, già 4 morti, oltre 20 milioni di animali bruciati vivi fra cielo e terra e l’immensa povertà che il fuoco stende sulla povertà irredenta, storica: se non è il Vietnam “dell’odore di napalm al mattino”, poco ci manca. Piromani? Maniaci? Ma no, l’abbiamo già detto come funziona il gioco, l’intreccio di pulsioni malate, di interessi perversi che, ancora una volta, non risparmia nessuno. Tutte così la Calabria, la Sicilia consegnate ai roghi immensi? No, certo che no, ma resiste una sorta di connivenza mentale, culturale o morale cambia poco, che impedisce di sbarazzarsi dei corsi e ricorsi storici più demoniaci. “Pagare devono” i sequestrati, e pagare oggi deve lo Stato: che simili pretese traggano origine da presupposti malavitosi non conta, anzi rappresenta una sorta di curiosa fatalità, di indiscussa giustificazione. Vai a capire perché.
Ma forse da capire c’è poco e niente. Nel 2005 decidono, bontà loro, di darmi un premio per certi miei articoli contro le mafie e me lo consegnano a Cosenza, a Palazzo Arnone di Cosenza, dove sta la Jezebel di Luca Giordano dilaniata dai cani, eretto all’inizio del XVI secolo dal tesoriere Bartolo e subito rivenduto come carcere e per l’occasione aureo ricovero di generali, questori, prefetti, istituzioni e lì in mezzo anche il sottoscritto, perché non si sa, forse per la sua bizzarria di giornalista che per poter scrivere di mafia ed altre catastrofi ordinarie si affidava a un giornale musicale (il Mucchio Selvaggio) essendo quelli seri impegnati a recensire vita ed opere di gente come ieri Wanna Marchi, oggi Fabrizio Corona, Matteo Cambi, Alberto Genovese e perfino Luca Palamara che, essendo stato al centro del sistema corroso della magistratura ladra e lottizzata, oggi pensa bene di meritarsi un partito personale con cui continuare l’opera senza la toga addosso. Lì, in mezzo alla meglio borghesia cosentina e calabrese, prima di mandarmi a ritirare il premio la maestra di cerimonia mi sibila all’orecchio: vedi di non fare casini come tuo solito, c’è di mezzo la politica. Poi si lancerà in una filippica contro la politica troppo spesso collusa con la mafia e anche con il “cancro della raccomandazione”, proprio così lo definisce, che strangola le volontà e le energie delle giovani generazioni. La mattina dopo, io già in viaggio di ritorno, ne riceverò una telefonata illuminante: “Senti, tu che scrivi su un giornale di musica, mio figlio vorrebbe fare il musicista, non è che puoi raccomandarlo a qualcuno?”.
Ma lasciamo perdere i moralismi, tutto il mondo è paese e ogni paese ha le sue rogne, qual più qual meno: e le rogne alla fine si somigliano tutte. Però, però. C’è da trasalire, di vergogna e di sgomento, nell’assistere all’Aspromonte sconvolto da fiamme infernali, appiccate da diavoli, in una terra dove i Comuni si sciolgono per infiltrazioni mafiose solo per ricomporsi più infetti di prima e venire nuovamente commissariati. Il sud una volta di più si scioglie dentro incendi assassini: da quante stagioni sentiamo dire che così non si può andare avanti? Ieri la Sardegna, oggi Calabria e Sicilia, ogni anno la stessa storia, gli stessi traumi, gli stessi lamenti che ti raggiungono come un coltello nella schiena. Mi scrive una lettrice: “Massimo puoi fare un pezzo sulla mia Calabria? Sta bruciando tutto l’Aspromonte e non frega niente a nessuno. Sta bruciando la mia terra”. Il pezzo l’ho scritto ma l’Aspromonte continuerà a bruciare.